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giovedì 1 aprile 2021

QUANDO AVRETE INNALZATO IL FIGLIO DELL'UOMO, ALLORA CONOSCERETE CHE IO SONO


 

In questo Triduo pasquale e in questo momento di grande prova per tutti, ancora una volta nella croce di Gesù si trova compendiato tutto. Certamente seguirà la risurrezione, come Gesù stesso annunciò (Cfr. Mt 16,21; 17,22-23; 20,17-19; Mc 8,31; 9,31; 10,32-34; Lc 9,22; 9,43-44; 18,31-33), ma prima della risurrezione vi è la croce.

Ma per quale motivo la croce? Per quale motivo tante sofferenze dovettero precedere la croce? In che modo tutto ciò è servito alla redenzione? Diverse sono le domande che possono essere poste e non vi è da meravigliarsi. Riportare tutto ciò che occorrerebbe riportare vorrebbe dire non finire più, considerando anche le innumerevoli pagine scritte in merito. Ciò che si potrebbe tentare di fare è una «sintesi», nel senso etimologico della parola (dal greco synthesis (σύνθεσις), che significa composizione, unione, mescolanza), che sarà anche riassuntiva.

Eloquente e mirabile ciò che è riportato nella prima lettera di Pietro: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia. Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime (1Pt 2,22-25). Gesù ha preso su di sé i nostri peccati, dunque lo fece volontariamente e di conseguenza liberamente. Ugualmente mirabili sono i quattro canti o carmi del servo del Signore riportati nel libro di Isaia (42,1-4; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12), con riferimento chiaro a ciò che si verificherà per mezzo e in Gesù di Nazareth, il Cristo.

Ora, in Cristo siamo stati redenti, ma la redenzione non è propriamente sinonimo di salvezza. La «salvezza» era presente dall’inizio, per cui l'elevazione dell’uomo affinché raggiungesse il massimo bene era presente dall'inizio. Certamente si concretizza come storia della salvezza da Abramo in poi, ma in ogni caso l’uomo, per raggiungere la sua meta ultima, ha sempre bisogno di Dio, e questo trova pienezza in Cristo che ci salva riconciliandoci con Dio (CCC, 457). La «redenzione» significa il riacquisto, il riscatto dell’uomo che si era venduto schiavo al peccato (Cfr. Gv 8,34), quel peccato che trova origine appunto in Gen 3,1-7: il peccato originale. Escludere la colpa di origine comporta escludere anche l’evento pasquale, dato che la redenzione è in riferimento alla schiavitù del peccato, che parte dalla colpa originaria, dal peccato originale. E con il peccato, per invidia del diavolo, fece ingresso anche quel male che sarà annientato per ultimo: la morte (Cfr. Sap 2,24; 1Cor 15,26;). Ma il riscatto è avvenuto per mezzo di Cristo a prezzo del suo sangue, in quanto il suo sangue è il prezzo del nostro riscatto, essendo egli il vero agnello pasquale senza difetti e senza macchia (Cfr. 1Pt 1,18). L’espiazione, la purificazione dalle colpe viene effettuata per mezzo del sangue perché il sangue, in quanto vita, espia (Cfr. Lv 11,17). Dunque Cristo ci riscatta dalla schiavitù del peccato pagando tale riscatto, con il prezzo del suo sangue, al Padre. Dal primo istante della sua incarnazione il Figlio abbraccia nella sua missione redentrice il disegno divino di salvezza: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34; CCC, 606). E la possibilità di ritornare in grazia di Dio per mezzo del sacramento della Riconciliazione è dovuto al sacrificio espiatorio sulla croce, sacrificio dal quale, in ultimo, provengono anche tutti gli altri sacramenti.

Mai avrebbe potuto un semplice essere umano, per quanto santo potesse essere, riscattare il genere umano dal peccato, se non un essere umano che non fosse solo umano, o meglio, Dio che assumesse natura umana – per natura umana si intende l’essenza umana, ossia il corpo e l’anima – e precisamente la seconda Persona della Santissima Trinità, il Verbo di Dio. Gesù di Nazareth non è il risultato di due persone (eresia nestoriana), ma di due nature, umana e divina, e poiché la natura divina del Verbo coincide con la sua Persona, in Gesù vi è una sola persona, quella eterna del Verbo che assume natura umana in Maria e da Maria, col risultato di essere vero Dio e vero uomo, perfetto Dio e perfetto uomo. L’umanità di Cristo non ha altro soggetto che la Persona divina del Figlio di Dio, che l’ha assunta e fatta sua al momento del suo concepimento. Maria è Madre di Dio non certo perché la natura del Verbo o la sua divinità avesse avuto origine dalla santa Vergine, ma, poiché nacque da lei il santo corpo dotato di anima razionale a cui il Verbo è unito sostanzialmente, si dice che il Verbo è nato secondo la carne (CCC, 466). Il peccato è dell’uomo, non di Dio, ma nessun uomo avrebbe potuto riscattare il genere umano dalla schiavitù del peccato, considerando anche che i progenitori si trovavano nello stato di santità e di giustizia originale, che persero col peccato e che non poterono riacquistare più poiché tale stato in cui si trovavano era dono di Dio. Solo Dio avrebbe potuto riscattare il genere umano, assumendo natura umana in Gesù, vero Dio e vero uomo. Infatti, dopo aver accettato di dargli il Battesimo tra i peccatori, Giovanni Battista ha visto e mostrato in Gesù l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo. Egli manifesta così che Gesù è insieme il Servo sofferente che si lascia condurre in silenzio al macello e porta il peccato delle moltitudini e l’Agnello pasquale simbolo della redenzione di Israele al tempo della prima pasqua. Tutta la vita di Cristo esprime la sua missione: servire e dare la propria vita in riscatto per molti (CCC, 608). Non più la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, anche se tale azione misericordiosa di Dio viene sempre ricordata, ma la liberazione dalla schiavitù del peccato, che è più radicale ed è la liberazione determinante.

Ora, vien da chiedersi se era necessario che Cristo patisse per la liberazione del genere umano. Se si considera ciò che è necessario come se una cosa non può essere altrimenti o come se si trattasse di una necessità di coazione, allora non vi è alcuna necessità dei patimenti di Cristo, dato che l’azione redentrice è stata libera. Invece, se si considera ciò che è necessario in base al fine, come se non fosse possibile raggiungere un certo fine in alcun modo oppure non in modo conveniente, allora è possibile parlare di necessità, ma una necessità che ha come fondamento la libertà di Dio. Infatti, si capisce ciò per tre motivi: considerando la passione di Cristo dal lato nostro possiamo dire che siamo stati redenti; considerando la passione di Cristo dal lato suo possiamo dire che l’umiliazione della passione doveva meritare la gloria dell’esaltazione; considerando la passione di Cristo dal lato di Dio possiamo dire che il decreto della medesima era stato preannunziato dalle Scritture e prefigurato nelle osservanze dell’Antico Testamento. Pertanto, la liberazione dell’uomo per mezzo della passione di Cristo fu conveniente e alla «misericordia» e alla «giustizia» sua. Alla giustizia, perché per mezzo della sua passione Cristo riparò per il peccato del genere umano, e così per la giustizia di Cristo l’uomo è liberato. Alla misericordia, perché, non essendo l’uomo per sé in grado di soddisfare per il peccato di tutta la natura umana, Dio gli concesse quale riparatore suo Figlio. Tale atto di misericordia fu più grande del condono dei peccati senza soddisfazione (Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIIa, q. 46, a. 1). La passione di Cristo, che avvenne per libera e infinita misericordia di Dio, oltre che insieme alla giustizia – in Dio nulla è separabile da Lui, poiché Egli è assolutamente semplice –, fu il modo più conveniente per raggiungere il fine, poiché una cosa è tanto più conveniente quanto più sono i vantaggi che con essa si raggiungono. Infatti, oltre alla liberazione dal peccato, la passione di Cristo ha procurato all’uomo molti vantaggi: per questo l’uomo conosce quanto Dio lo ami e per questo viene indotto ad amarlo; perché Cristo ci ha dato l’esempio di obbedienza, di umiltà, di costanza, di giustizia e di tutte le altre virtù mostrate nella passione, indispensabili per la nostra salvezza, come ricorda la prima lettera di Pietro: anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme (1Pt 2,21); perché in tal modo Cristo non solo ha redento l’uomo dal peccato, ma gli ha meritato anche la grazia giustificante e la gloria della beatitudine ed altri (Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIIa, q. 46, a. 3). Ed è stato molto conveniente che Cristo morisse sulla croce: affinché nessun genere di morte spaventasse l’uomo che vive rettamente, fu necessario mostrarlo con la croce di Cristo: poiché fra tutti i generi di morte nessuno era più esecrabile e terribile; tale morte era il più indicato per soddisfare il peccato dei nostri progenitori, che mangiarono il frutto dell’albero proibito da Dio, per cui tale morte sulla croce restituì quanto Adamo aveva sottratto. Tutto ciò che Adamo perse, Cristo lo recuperò sulla croce (Cfr. Ibid., q. 46, a. 4). Pertanto, il Triduo pasquale culminante con la Pasqua di risurrezione del Signore Gesù, risponde alla domanda circa il perché il Verbo si è fatto uomo (?). Egli si è fatto uomo per la nostra salvezza (CCC, 456); per salvarci riconciliandoci con Dio (CCC, 457); perché noi conoscessimo l’amore di Dio (CCC, 458); per essere nostro modello di santità (CCC, 459); perché diventassimo partecipi della natura divina (2Pt 1,4; CCC, 460), perché l’uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio (Ireneo di Lione, Adversus haereses, 3, 19, 1). Ciò per mezzo del Battesimo.

Inoltre, riprendendo un passaggio precedente, risulta interessante una parte del sermone 18 di S. Tommaso d’Aquino: il genere umano venne ferito dall’albero, poiché il primo uomo mangiò dell’albero proibito; e così la divina Sapienza ricavò dall’albero la medicina. Il genere umano fu ferito dalla disobbedienza: infatti il primo uomo colse avidamente il frutto dell’albero proibito; ed ecco che l’uomo nuovo quasi come frutto salutare restituì se stesso all’albero. Perciò il Salmista (Sal 69[68],5) dice: «Quanto non rapinai, io restituivo». Egli restituì se stesso all’albero per ricompensare il danno e portare il rimedio; perciò Sap 14,7 dice: «È benedetto l’albero per mezzo del quale si compie la giustizia» (Sermone 18, conferenza vespertina).

Dunque l’argomento è estremamente vasto, tanto quanto ciò che tratta, per cui sarebbe infinito.

Questa breve sintesi è una tra le tantissime, ma tutte hanno in comune una cosa: l’attesa della risurrezione di Gesù, che è la verità culminante della nostra fede in Cristo, creduta e vissuta come verità centrale dalla prima comunità cristiana, trasmessa come fondamentale dalla Tradizione, stabilita dai documenti del Nuovo Testamento, predicata come parte essenziale del mistero pasquale insieme con la croce (CCC, 638). Senza la risurrezione tutto sarebbe vano (Cfr. 1Cor 15,14). Nel complesso, la risurrezione di Cristo è principio e sorgente della nostra risurrezione (CCC, 655).

Ed è possibile concludere con le stesse parole della Scrittura: «Ecco, sono compiute! Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine. A colui che ha sete io darò gratuitamente da bere alla fonte dell’acqua della vita. Chi sarà vincitore erediterà questi beni; io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio» (Ap 21,6-7).



Santa Pasqua!


Gabriele Cianfrani