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domenica 31 marzo 2024

E VIDE E CREDETTE: L'EVENTO CHE HA CAMBIATO IL MONDO


 

Il giorno di Pasqua si manifesta in tutta la sua portata, in tutto il suo fascino anche a coloro che si dichiarano non credenti o che professano altre fedi. Sì, inevitabilmente il giorno di Pasqua rimanda a qualcosa. Ma a cosa? Ad una rinascita interiore o all’augurio che le cose possano andare meglio? Ad un giorno trascorso in compagnia tra balli e risate? Tutte cose lecite e buone, ci mancherebbe, ma la Pasqua del Signore è altro. Non che le cose di contorno non vadano bene, ma occorre afferrare il contenuto dell’evento pasquale ed è possibile farlo. Chiedo la pazienza di leggere l’articolo interamente.

In realtà la vera fede nasce dal sepolcro, da quel medesimo sepolcro nel quale era stato posto il corpo di Gesù di Nazaret, il corpo di colui che fino a poco tempo prima si era presentato come «la Vita» (Ego sum via, et veritas, et vita. Nemo venit ad Patrem, nisi per me, come si legge in Gv 14,6-7). Domanda: in che modo la morte può riguardare colui che si è presentato come la Vita? O meglio, per essere più taglienti: in che modo «il Vivente» può andare incontro alla morte? Come può «il Vivente» ridursi all’essere «morente»? La riposta è che Gesù ha la potestà di porre/dare la sua vita e di riprendersela (cfr. Gv 10,17-18), in tal modo il Vivente conobbe la morte non perché la morte ebbe potestà su di lui, ma perché Gesù il Cristo ebbe potestà sulla morte, colui che è vivente nei secoli dei secoli (cfr. Ap 1,18). Ed ecco un aspetto fondamentale sia dal punto di vista teologico sia metafisico: la morte non potrebbe «esserci» se mancasse quel bene verso il quale la morte si dirige per morderlo, per logorarlo, per esaurirlo. La morte, che di per sé tende al non essere, nella constatazione dei fatti essa in qualche modo è, ossia esiste. Come mai? Ebbene l’esistenza della morte è secondaria e subordinata all’esistenza del bene fontale senza il quale la morte non potrebbe esserci: la vita. In questo caso la vita in quanto tale non basta, dacché vita e morte si oppongono, nonostante il primato spetti sempre alla vita. In questo caso la risposta non risiede nella vita, ma nel Vivente, in colui che è la sua stessa vita – noi non siamo la nostra vita – e che ha la potestà di donarla e riprendersela.

Ma ora cerchiamo di concentrarci sul quel sepolcro dal quale è nato tutto e che ha cambiato sia la vita sia la morte.

Troppe volte si sente dire che «il sepolcro fu trovato vuoto»; «il corpo non c’era più, il sepolcro era vuoto»; «le donne andarono al sepolcro, ma lo trovarono vuoto» ecc. In realtà alcuni ‘studiosi’ affermano che il messaggio della resurrezione sarebbe soprattutto ‘teologico’, per cui il senso sarebbe ‘teologico’ e in tal modo il brano evangelico di Gv 20,1-9 andrebbe letto… Ma cosa vuol dire che il messaggio è teologico? Vuol dire che tale messaggio è scollegato con la realtà storica? Di cosa stiamo parlando? Queste posizioni non sono teologiche, ma anti-teologiche. La teologia, in quanto scientia fidei, deve necessariamente poggiare sulla storia dell’uomo, nonostante la sua origine non sia puramente umana (rimando agli articoli sulla fede che si trovano nel blog). Questo modo di procedere è anti-divino e anti-umano, e la prova è che il Lógos di Dio si è fatto carne, ha assunto natura umana. Il messaggio teologico deve necessariamente trovare riscontro nella storia dell’uomo, altrimenti il medesimo messaggio non avrebbe senso. La teologia è cosa seria, così come la filosofia, per cui bisogna ponderare bene le parole prima di proferirle. Semmai non si prestasse attenzione all’equilibro di ciò che la fede in quanto tale comporta, si rischierebbe di cadere in alcuni eccessi: razionalismo, storicismo, fideismo, deismo. Ma questi sono eccessi e come tali sono sbagliati. Una caratteristica fondamentale del concetto di «rivelazione» è quella della doppia valenza di soprannaturale e naturale, per cui Dio agisce nei confronti dell’uomo e lo fa lasciando, in qualche modo, le sue tracce.

Parlare in quei modi della resurrezione, con tutto il rispetto, vuol dire parlare del «vuoto», ossia del «nulla», e di conseguenza nullificare la resurrezione. Come può Dio, il quale ci conosce più di ogni altro, aver affidato il messaggio fondamentale della fede cristiana al «vuoto»? Il testo evangelico si esprime chiaramente: il sepolcro non era vuoto! Occorre indagare su quegli elementi che il Vangelo secondo Giovanni riporta con chiarezza disarmante e che non è possibile ignorare. Se lo facessimo ci prederemmo l’ammonizione di Pietro, che riguarda non solo le lettere paoline ma tutta la Scrittura: in essere ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina (2Pt 3,16).

Non è possibile analizzare in dettaglio il brano evangelico di Gv 20,1-9, dal momento che richiederebbe troppo spazio, ma bisogna insistere sul fatto che tale brano riporta «tracce storiche» della resurrezione del Cristo. In modo particolare vorrei concentrarmi su alcuni elementi: le fasce, il sudario, il verbo «vedere». Ovviamente vi sono tanti altri elementi, ma la scelta di questi tre è stata doverosa. Al riguardo, nonostante molti studiosi si siano soffermati su questi elementi (Giuseppe Ghiberti, Xavier Leon-Dufour, Rudolf Schnackenburg, Giuseppe Segalla e altri), ritengo che alla ricerca del biblista don Antonio Persili debba spettare la giusta attenzione, dal momento che lo studioso mette in luce aspetti che in molti lavori mancano. Con ciò non si vuol porre Persili al di sopra degli altri, assolutamente no, ma semplicemente richiamare l’attenzione ad una ricerca della quale, purtroppo, non se ne parla mai e che invece meriterebbe non poca attenzione per precisione e capacità di analisi (A. Persili, Sulle tracce del Cristo risorto. Con Pietro e Giovanni testimoni oculari, Edizioni Centro Poligrafico Romano, Tivoli 1988).

La versione che Persili prende in considerazione è ovviamente quella greca, per cui egli si sofferma sui vocaboli greci per poi proporre una traduzione strettamente letterale di Gv 20,1-9, ma nel nostro caso ci soffermeremo dal versetto 5 al versetto 9.

Per quanto riguarda le fasce (τὰ ὀθόνια/tà othónia), che non bisogna confondere con la sindone (infatti, in Mt 27,59 si trova il riferimento σινδών/sindόn), queste avvolgevano interamente il lenzuolo di lino (sindone) e il discepolo che arrivò prima di Simon Pietro le vide che giacevano distese. Il fatto che giacessero distese vuol dire che non vi era più il corpo come sostegno. Inoltre, la sepoltura di Gesù non avvenne come quella di Lazzaro, per il fatto che il corpo di Gesù aveva versato molto sangue e la fasciatura avvenne interamente, senza lasciare aperture. Ecco le parole di Persili:

«le “fasce distese” costituiscono la prima traccia della risurrezione: era infatti assolutamente impossibile che il corpo di Gesù fosse uscito dalle fasce, semplicemente rianimato, o che fosse stato asportato, sia da amici che da nemici, senza svolgere le fasce o, comunque, senza manometterle in qualche maniera. Questa traccia sarebbe stata sufficiente per credere nella risurrezione, ma nel sepolcro v’era una traccia più sorprendente, che Pietro ebbe la ventura di vedere per primo: la posizione del sudario» (p. 145).

Il sudario (καὶ τὸ σουδάριον/kaì tò soudárion = e il sudario) non era né un lenzuolo né un panno mortuario, ma un fazzoletto che serviva per asciugare il sudore. Il sudario che Pietro vide era quello posto fuori e si trovava sul capo di Gesù e fuori le fasce (cfr. Gv 20,7), non quello che si trovava all’interno e che non era visibile. Qui il discorso si complica, per cui bisogna stare calmi e cercare di mantenere un certo equilibrio. La traduzione corrente è questa: «[…] e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non era per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte». In latino risulta questo: «[…] et sudarium, quod fuerat super caput eius, non cum linteaminibus positum, sed separatim involutum in unum locum». Persili propende, per quanto riguarda «in unum locum», con la traduzione «nello stesso luogo» o «nella stessa posizione». Ora, il problema risiede tra le fasce e il sudario. Entrambi gli elementi avevano il corpo di Gesù come supporto in quanto avvolgevano il suo corpo, ma le fasce furono trovate in un modo e il sudario in un altro. Inoltre, il famoso luogo a parte in cui sarebbe stato trovato il sudario, piegato e col significato di «tornerò», anche se avesse una qualche corrispondenza nei costumi ebraici, in questo caso è fuori contesto.

Il verbo vedere nel Vangelo secondo Giovanni ha molte sfumature, ormai note agli studiosi del Quarto Vangelo, che sono fondamentali per capire il tipo di «sguardo». In modo particolare Giovanni usa tre verbi nello stesso brano (Gv 20,1-9) e li utilizza in tal modo: per Maria di Magdala «καὶ βλέπει/kaì blépei»; per Simon Pietro «καὶ θεωρεῖ/kaì theoreî»; per il discepolo amato «καὶ εἶδεν/kaì eîden». In italiano vuol dire «e vide», senza cogliere le sfumature determinanti che l’evangelista ha volutamente lasciato. Il punto è che il «vedere», in questo caso, inizia da quello della vista corporea per andare a quella dell’intelletto. Ed ecco che la fede in quanto tale poggia sull’intelletto. Leggiamo la spiegazione di Persili:

Con il verbo «blépei» Giovanni vuol dire che non vede tutto, ma scorge qualcosa, che gli fa iniziare il cammino della fede. […] Quando Pietro giunge al sepolcro, entra e rimane in contemplazione «theoreî» dello spettacolo che le fasce e il sudario offrono, ma non ne comprende il messaggio. […] Infine Giovanni entrò nel sepolcro e non appena osservò le fasce distese e soprattutto il sudario rialzato, comprese immediatamente che esse costituivano le tracce lasciate dalla risurrezione del corpo di Gesù, e credette. Per esprimere questo vedere con intelligenza, Giovanni usa il verbo «kaì eîden», accompagnato dal verbo della fede «καὶ ἐπίστευσεν/haì epísteusen»; Giovanni «vide, comprese e credette» (pp. 169-170).

A questo punto credo sia giunto il momento della traduzione proposta da Persili in merito al brano evangelico di Gv 20,1-9:

(Maria di Magdala) corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”. Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, scorge le fasce distese, ma non entrò. Giunge intento anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entra nel sepolcro e contempla le fasce distese (afflosciate, vuote, non manomesse), e il sudario, che era sul capo di lui, non con le fasce disteso, ma al contrario avvolto (rimasto nella posizione di avvolgimento, perciò rialzato ma non sostenuto nell’interno, perché vuoto) in una posizione unica (straordinaria, eccezionale, perché contro la legge di gravità). Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti (pp. 161-162).

Ora, vi sarebbero tanti altri elementi su cui soffermarsi (il giardino; la figura di Maria di Magdala; il suo iniziale non riconoscimento di Gesù e il successivo riconoscimento in seguito alla pronuncia del nome; il terzo giorno; il giorno dopo il sabato; i due che stanno da una parte e dall’altra della pietra sepolcrale; il lenzuolo chiamato «sindone» e tanti altri), ma credo di essermi dilungato già troppo per un articolo. Lo scopo è stato quello di utilizzare il preciso studio di Persili per mettere in luce un dato fondamentale: Cristo è risorto e ha lasciato le tracce della sua resurrezione. Occorre soltanto mettersi alla ricerca delle tracce a partire dal testo. Ed ecco che il contenuto teologico si radica fortemente nella dimensione storica per andare oltre la dimensione storica. Il sepolcro non era vuoto, ma pieno delle tracce della resurrezione.

Gabriele Cianfrani


PS. Il video sotto, tratto dal film "The Passion", potrebbe rendere l'idea.

https://www.youtube.com/watch?v=VLTzQXNcxmk

giovedì 21 marzo 2024

A COSA DOBBIAMO CREDERE? TRA VERITA' E MISTIFICAZIONE (prima parte)

 


Ultimamente giungono all’attenzione alcuni temi che riguardano una realtà ben precisa, ossia la Watchtower (o Watch Tower) Society, ossia la Società della Torre di Guardia, ossia i Testimoni di Geova. Da premettere che chi scrive non lo fa volentieri, dal momento che ormai si tratta di una realtà chiaramente inquadrata, per cui sarebbe alquanto superfluo scrivere al riguardo. Inoltre, chi scrive è ben consapevole che alcune persone potranno restarci male e avanzare delle accuse, ma non è possibile continuare a voltarsi dall’altra parte per il semplice motivo di non inimicarsi nessuno. Mi dispiace, ma questo atteggiamento tiepido (né carne né pesce) non può essere approvato. È pur vero che anche in ambiente cattolico si respira, a volte, un’aria di appiattimento di quelli che sono i «divini misteri», con il conseguente appiattimento di quello che viene tradizionalmente chiamato il nexus mysteriorum. Da ciò ne consegue una quasi allergia per i «dogmi», come se questi fossero stabiliti arbitrariamente da una istanza superiore, la quale impone l’osservanza cieca degli stessi. Certamente è richiesto il pieno assenso dell’intelletto al dogma, ma il dogma in quanto tale non prescinde né dalle fonti della Rivelazione divina né dalla capacità dell’intelletto umano di capire il contenuto della stessa Rivelazione, ed esprimerlo mediante la formulazione riguardante una precisa verità di fede. Se proprio volessimo dirla tutta, il «dogma» consente di capire almeno due aspetti fondamentali: 1) il Dio che si rivela è Colui che è sommamente intelligente e ci consente esprimerci su di Lui e sulle sue opere, per il fatto che sia Lui sia le sue opere possono essere conosciute con l’intelletto; 2) il Dio che si rivela è Colui che ci è più intimo di quanto noi lo siamo a noi stessi, per riprendere una espressione di sant’Agostino. Cosa vuol dire? Il dogma può dire tutto di Dio? Assolutamente no, ma ciò che si può dire di Dio è possibile proprio perché Egli si è fatto conoscere, per questo la natura del dogma è immutabile, perché si fonda direttamente su Dio e su quanto Egli ha fatto conoscere delle sue opere. Insomma, qui è in gioco un punto di vitale importanza: la possibilità di conoscere Dio e di dire qualcosa su di Lui.

Ora, questo punto potrebbe comportare due rischi, se non trattato in maniera equilibrata: 1) la convinzione di conoscere tutto di Dio; 2) la convinzione di non poter conoscere nulla di Dio. In entrambi i casi Dio non avrebbe più senso. Semmai si conoscesse tutto di Dio, non sarebbe più Dio, in quanto risulterebbe finito come noi e sarebbe solo una nostra proiezione (che senso avrebbe?); semmai non si potesse conoscere nulla di Dio, ugualmente non sarebbe più Dio, in quanto non essendo neanche minimamente conoscibile non potrà che essere nulla e il nulla, per definizione, è inconoscibile (che senso avrebbe?). Ed ecco che occorre stare nel mezzo: Dio è conoscibile, ma la sua conoscibilità non lo esaurisce, anzi, fa di Lui l’eternamente conoscibile.

Per quale motivo queste precisazioni? Ebbene, da alcuni anni vi sono voci che denunciano l’inquinamento del pensiero greco nei confronti del Cristianesimo, come se il Cristianesimo dovesse liberarsi da questo inquinamento e ritornare alla sola fonte biblica. Si tratta della cosiddetta «deellenizzazione». Peccato che questa strada conduca in un vicolo cieco. Sì, perché la stessa fonte biblica (redazione dei testi) esprime chiaramente che ciò sarebbe del tutto innaturale, oltre al fatto che condurrebbe ai rischi riportati sopra.

Pertanto, la questione relativa alla Torre di Guardia è una questione che deve tener conto anzitutto di due cose: 1) il testo biblico in quanto tale, con riferimento alle lingue originali e alle traduzioni proposte; 2) cosa Dio ha rivelato e come lo ha fatto.

Per trattare questi punti in merito a ciò che viene proposto dalla Torre di Guardia, mi servirò principalmente di due testi: l’opuscolo della Torre di Guardia “Dovreste credere alla Trinità?” e lo studio di Valerio Polidori, “La Bibbia dei Testimoni di Geova. Storia e analisi di una falsificazione”, EDB, Bologna 2013. Nonostante la consapevolezza che lo studio di Polidori ha ricevuto qualche critica, lo si ritiene apprezzabile soprattutto per le note filologiche, oltre che teologiche. Ma vi saranno anche altre osservazioni.

A questo tema saranno dedicati alcuni articoli, probabilmente non ordinatamente in successione, i quali susciteranno – forse – delle perplessità o addirittura delle antipatie, ma si è disposti a correre il rischio. Ovviamente non si vuole attaccare nessuno dal punto di vista personale e sarebbe un grande dispiacere, per il sottoscritto, se qualcuno pensasse tal cosa. Le osservazioni critiche verteranno esclusivamente sul contenuto di ciò che si vuole proporre, ossia sulla dottrina, mai sulle persone in quanto tali e per nessuna ragione!

In poche parole gli articoli che seguiranno vorranno essere un contributo per chiarire – speriamo – alcuni temi che spesse volte oscillano tra verità e mistificazione e che ogni tanto bussano alla porta. Purtroppo, a volte, si tratta proprio di mistificazione e non è possibile continuare con un buonismo che in realtà nasconde una crisi di fondo proprio in chi si presenta come tale.

Per concludere, una cosa deve essere chiara fin da ora: il Cristianesimo e l’essere cristiani hanno una identità ben precisa, non ci si trova nell’anonimato, e tale identità si fonda su Colui che manifesta il volto del Padre in quanto è rivolto al Padre da prima che Abramo fosse, o meglio, dall’eternità.


Gabriele Cianfrani


giovedì 7 marzo 2024

ADAMO, DOVE SEI?


 

Quanto accaduto il 4 marzo 2024 in Francia, che ha visto addirittura la modifica della Costituzione per consentire l’ingresso della «interruzione volontaria di gravidanza» (Ivg), con 780 voti a favore e 72 contro (come dal sito dell’ANSA), e con l’esultanza del presidente francese Macron: «Fierezza francese, messaggio universale», appare come il primo caso al mondo in cui una simile decisione giunge persino a toccare la stessa Costituzione.

È il caso di spendere alcune parole al riguardo, dal momento che tale decisione e l’esultanza del presidente francese risultano essere un inno all’oblio dell’uomo. Inoltre, il sottoscritto è sempre più convinto del fatto che la ragione in quanto tale ha conosciuto, nella storia umana, i suoi momenti di gloria, ma da un po' di anni a questa parte si trova nell’arresto più totale. La ragione umana, continuamente osteggiata dal dominio della tecnica spregiudicata, al punto tale da rendersi dipendenti da quella che, con vero e proprio abuso logico e ontologico viene chiamata «intelligenza artificiale», ormai si ritrova ad essere nella quasi totale atrofia, in una sorta di «intellettogramma» piatto – mi si consenta questo neologismo. Tuttavia, non si pensi che chi scrive sia contrario al progresso tecnologico, ma dal momento che in medio stat virtus, e questa medietà è stata completamente smarrita, l’uomo di oggi non sta facendo altro che rendersi schiavo delle sue stesse azioni. Procediamo con la riflessione.

Non tratterò dell’aborto in sé, che è omicidio a tutti gli effetti e si faccia avanti chi pretende di negarne l’evidenza, né delle riprovevoli parole del presidente francese che ho tratto dall’ANSA – e questa persona vorrebbe dare lezioni di civiltà alle altre Nazioni? Sarebbe meglio se si facesse un bagno in acqua corrente (ispirazione eraclitea) –, ma dell’affermazione sempre più evidente di quello che risulta essere un vero e proprio «antropocentrismo» senza precedenti, con tanto di presunzione e arroganza, celate sotto il velo della falsa modestia ed umiltà (si consiglia la seguente lettura: Le lettere di Berlicche di C. S. Lewis).

A differenza del Cristianesimo, il quale è cristocentrico e non antropocentrico, l’uomo di oggi si considera così tanto una piccola parte dell’universo da battersi, senza tregua, per la salute della natura. Ricordate? La grande rivoluzione che ha scardinato la pretesa della società dell’uomo al centro dell’universo, per cui non più l’uomo al vertice del creato, dal momento che esso è una piccola parte dell’universo sterminato. Peccato che la confusione – e forse direi anche l’ignoranza – su tale punto permane indisturbata nel suo torpore, senza considerare che nella visione cristiana vi è Cristo al centro, non l’uomo. L’uomo è per Cristo, vero Dio e vero uomo. Il vertice del mondo creaturale è rappresentato certamente dall’uomo, da quello stesso uomo che ormai ha perso se stesso, ma l’uomo è per Dio e non per se stesso. Ebbene, con quest’ultimo atto del 4 marzo 2024, appare lampante come l’uomo si stia ponendo al principio e alla fine di tutto; l’uomo che stabilisce quale sia la «verità» delle cose, non adeguando se stesso alla cosa ma la cosa a se stesso; l’uomo che stabilisce chi deve vivere e chi deve morire (Ippocrate si rivolta nella tomba!); l’uomo che trasforma i capricci in presunti diritti naturali; l’uomo che si considera ‘modestamente’ come parte della natura e nonostante ciò si erge a redentore della medesima ecc. Insomma, abbiamo capito: il futuro è nelle mani dell’uomo. Non c’è niente da fare, sono sempre più convinto della mia posizione: la ragione è ferma! Valga per tutti quel capolavoro indiscusso che è il mito della caverna del grande Platone, che per alcuni studiosi si tratta di una analogia e non senza motivazione. Vi sono esempi della nobile sapienza greca che può essere accostata alla più nobile sapienza cristiana, la quale trae la sua sapienza dalla Sapienza stessa. Semmai si provasse a confrontare i contenuti della sapienza antica con quella della sapienza contemporanea, ci si renderebbe conto della frivolezza dei contenuti odierni rispetto a quelli passati. Se poi parlassimo della sapienza medievale, così tanto ignorata da molti… Lasciamo perdere.

Ciò che è accaduto il 4 marzo è l’esempio di come l’uomo si consideri parte – falsamente, oserei aggiungere – del mondo naturale, ma al contempo è l’esempio di come l’uomo proceda contro la natura. Sì, poiché la parola «natura», stando alla sua etimologia, significa anzitutto «nascere». In termini filosofici, quando si parla di «natura» in riferimento all’essenza dell’ente, si fa riferimento al principio di operazione propria di quell’ente, in grado di identificarlo. Tale «principio di operazione» vuol dire che vi è un «principio» ed una «operazione» che deriva da quel principio, ossia nasce da quel principio. Semmai si privasse l’ente di tale principio di operazione, lo si priverebbe della sua natura. E la conseguenza? La perdita dell’ente stesso. Ora, in merito alla donna in quanto donna, con la sua precisa natura, cosa vi sarebbe di più nobilitante per essa del suo essere principio della vita? Non si tratta di far fronte a casi difficili, come la conseguenza di una violenza o altro, questi sono eventi secondari. Importanti, assolutamente, ma secondari e non primari. L’obiettivo è di andare al principio della norma che regola la decisione presa in Francia, poiché anche una norma in quanto tale scaturisce da un principio.

A questo punto viene da concludere che il principio non è per niente «naturale», ma «artificiale», imposto alla natura stessa delle cose in maniera innaturale. A questo punto risulta chiaro lo smarrimento dell’uomo, all’interno di quell’antropocentrismo radicale odierno, che nella falsa considerazione dell’uomo nell’ordine naturale getta l’uomo stesso nel nulla. Ed ecco che la finzione dell’uomo d’oggi – non di tutti gli uomini, sia chiaro, ma di una buona parte – si manifesta nella sua presunta grandezza. Oggi più che mai risuonano, in tutta la loro forza allarmante, le seguenti parole: «diventerete come Dio/dei» (Gen 3,5). Certo, nella storia umana vi sono stati momenti notevoli che hanno assecondato le parole seducenti del serpente antico, ma quanto sta accadendo oggi risulta fuori controllo. Lo smarrimento della propria natura ha fatto il suo ingresso. Ma a tale smarrimento seguirà sempre l’inevitabile domanda, valida indistintamente per l’uomo in quanto uomo: «Adamo, dove sei?» (Cf. Gen 3,9).

Gabriele Cianfrani


sabato 23 dicembre 2023

IL PRESEPE E IL PASTORE

 


In questo clima natalizio, pieno di difficoltà e di avversità nei confronti della fede cristiana, il presepe (o presepio) è ancora presente. Non si tratta di cadere nel solito vittimismo, ma semplicemente di constatare alcune dinamiche estranee a ciò che dovrebbe essere rappresentato dal presepe. Procediamo per gradi.

Anzitutto pare importante soffermarsi sulla parola presepe, che nelle sue origini latine rimanda alla «mangiatoia», alla «stalla», alla «dimora», al «recinto» e/o anche al luogo in cui si verificavano cose non buone. Pertanto, se la parola presepe viene adoperata per indicare la famosa rappresentazione della Natività, la quale inizia per la prima volta con san Francesco d’Assisi (a Greccio nel 1223), non può da questo non scaturire una domanda fondamentale: quale sarebbe il senso del presepe? Non solo, in quanto vi sarebbe una seconda domanda, forse più importante della prima: per quale motivo il presepe rappresenta la Natività?

Le risposte sono – o dovrebbero essere – immediate: il senso del presepe è la professione di fede nei confronti della incarnazione del Verbo e il contesto della Natività rimanda alla vita divina che il Verbo, assumendo natura umana, ci ha concesso di partecipare per mezzo della Redenzione. Questo dovrebbe essere, in ultimo, il senso del Natale. Certo, poiché il fine del Natale è la Pasqua di passione, morte e resurrezione di Cristo. Occorre parlare di quella vita che Dio ci ha concesso, in quanto tutti, prima o poi, dovremo morire. E poi? O vi è la vita eterna o il nulla – ma il nulla è totalmente inesprimibile –, non ci sono altre vie, per cui non possiamo tergiversare sull’argomento. Insomma, mi pare di scorgere il senso del Natale, in maniera molto incisiva, nelle parole dell’orazione delle lodi del 22 dicembre:

O Dio, che nella venuta del tuo Figlio hai risollevato l’uomo dal dominio del peccato e della morte, concedi a noi, che professiamo la fede nella sua incarnazione, di partecipare alla sua vita immortale.

In questa orazione vi sono elementi sui quali si potrebbero svolgere approfondimenti quasi senza fine, per cui non è possibile neanche pensare di farlo in questo piccolo spazio. Tuttavia, è importante individuarli: venuta del Figlio; peccato; morte; professione di fede; incarnazione; partecipazione; vita immortale. Per quanto riguarda i motivi dell’Incarnazione, sia dalla prospettiva biblica sia da quella magisteriale, rimando al mio articolo risalente al 2022 (clicca qui).

Ciò su cui vorrei soffermarmi in questa sede riguarda il rapporto tra il Natale e la figura del Pastore – il riferimento è principalmente a Dio –, per poi procedere col riportare alcune dinamiche, verificatesi in questi giorni, totalmente avulse dalla visione cristiana. Tra i prossimi articoli ve ne sarà uno sulla data del 25 dicembre nella cristianità antica, in quanto ancora oggi, in molti libri, si afferma la presunta sostituzione da parte della Chiesa della festività pagana del Sol Invictus istituita da Aureliano nel 274 d.C. Ma non è così, lo dimostrano fonti della cristianità antica che puntualmente non vengono riportate.

La figura del pastore, oltre ad essere determinante nel mondo biblico, fu ed è una realtà di fatto. Già Abele divenne pastore di greggi (cfr. Gen 4,2)[1] e così Abramo (cfr. Gen 13,2) e il resto della discendenza. Ora, se da una parte il pastore deve condurre al sicuro il suo gregge, proteggerlo dai pericoli e dalle bestie feroci (cfr. 1 Sam 17,34-37), dall’altra si piega verso il suo gregge per sostenerlo per non lasciarlo perire (cfr. Gen 33,13-14). Bisogna ricordare che a quel tempo il bestiame era prezioso, soprattutto per il popolo di Israele, continuamente in cammino e avente come risorsa proprio il bestiame. Pertanto, se il gregge non poteva fare a meno del pastore, neanche quest’ultimo poteva fare a meno del suo gregge. Senza procedere con tantissimi altri esempi, emergono alcuni tratti caratteristi del rapporto tra il pastore e il suo gregge, primo fra tutti quel rapporto di conoscenza intima di entrambi, che non è possibile comprendere se ci si pone al di fuori di tale rapporto.

Piccolo ma importante dettaglio: chi vive nei paesi circondati da campagne, come chi scrive, ha la possibilità di notare ancora oggi questo rapporto che vi è tra pastore e gregge. Quando egli chiama le sue pecore, con un verso o con un fischio, le pecore lo riconoscono in mezzo a tanti altri versi e in mezzo a tanti altri fischi. Questo intimo rapporto di conoscenza vi è solo tra il pastore e il suo gregge, non al di fuori di tale «recinto», ossia non al di fuori di tale «presepe». Ed ecco che con il nostro presepe riconosciamo Colui che è il Pastore (cfr. Mi 5,1-3; Lc 15,3-7: 19,10; Mt 15,24; Eb 13,20-21), Colui che è venuto a donare quella vita eterna che non è altro che la partecipazione alla Sua vita divina. Il Pastore, Cristo, il Verbo incarnato è venuto per rigenerarci, mediante la Redenzione – in tal caso Cristo non solo è il Pastore ma anche la Vittima (cfr. Eb 9,11-14; Gv 10,11-18) –, per quella eredità incorruttibile che non finirà mai (cfr. 1Pt 1,4). Ma Cristo parla di ovile/recinto (cfr. Gv 10,16), nel quale dovranno rientrare tutte quelle pecore che ancora si trovano fuori, per avere così un solo gregge e un solo Pastore. Ecco il «presepe», ossia la rappresentazione di quella mangiatoia e di quel recinto che sono del Pastore che è venuto per condurre le Sue pecore verso la Vita. Ma le pecore devono mangiare, perché il viaggio è lungo, oltre ad aver bisogno di tante altre cose. Proprio per questo il Pastore ci ha lasciato i sacramenti e come cibo l’Eucaristia, ossia il Pastore stesso. A questo punto il presepe in quanto tale non può non rimandarci alla Chiesa.

Tutto questo non è estraneo a noi uomini, non può esserlo, dal momento che il Verbo (il Figlio) ha assunto «natura umana». Le azioni divine ci superano infinitamente, non riusciremo mai a comprenderle del tutto, ma si possono capire, sono intelligibili. Come potremmo rispondere alla voce del Pastore se la Sua voce ci risultasse estranea? Il problema non risiede nel Pastore, ma in quella parte del gregge che volontariamente si è allontanata e continua ad allontanarsi, ascoltando non più il Pastore ma la voce che si frappone tra il Pastore e il gregge. Da ciò ne consegue l’incomprensione più assoluta e la totale estraneità del Natale. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, o meglio, ascoltare.

Ora, in questi giorni il presepe e la festa del Natale hanno subìto delle violenze non indifferenti, che non è il caso di riportare interamente. Eliminare la festa del Natale per favorire una festa che non ha né testa né coda – alla faccia della coerenza! –, occorre dirlo, vuol dire non aver capito nulla del Natale. Inoltre, il fatto che si affermi che il Natale consista solo nella pace, nella gioia e serenità e altre cose di questo tipo, mi fa concludere che vi è quella riduzione alla pura orizzontalità della dimensione umana, con la perdita della verticalità, del piano divino e del motivo per il quale il Verbo si è incarnato. Per essere ancora più incisivi, spesse volte nel Natale si perde di vista l’incarnazione del Verbo, con la conseguenza dell’annullamento implicito del Natale. Non a caso oggi si parla della difesa dei valori cristiani dal punto di vista «culturale». Va bene, ma il soggetto che fa cultura è l’uomo, per cui la difesa della sola dimensione culturale, per quanto sia apprezzabile, implica il velato disgregamento di ciò che si vuole difendere. Tutto questo rimanda alla distinzione, oggi ormai persa, tra l’essere e l’agire, tra la speculazione e la pratica, tra il piano verticale e il piano orizzontale, che sarà oggetto di un prossimo articolo.

Per concludere, la violenza sul presepe rimanda quella sorta inclusivismo cieco – attenzione, non si tratta di inclusione, il limite è sottile! – che comporta in maniera paradossale l’esclusivismo. Mi spiego. Aggiungere elementi estranei alla rappresentazione della Natività vuol dire intaccare, ancor prima del piano divino, il piano della natura umana. Propendere per l’inclusivismo cieco, come oggi accade spesso, vuol dire condurre l’uomo verso la dissoluzione della sua stessa natura, con perdita della sua identità. Ma è proprio questo il punto! Non ci può essere azione/grazia divina sull’uomo se non vi è la natura umana che può accoglierla. Dove agirebbe l’azione/grazia divina? I sacerdoti dovrebbero ricordare che gratia supponit naturam (la grazia suppone la natura), non la distrugge, ma la eleva e la porta verso il suo compimento. La vera inclusione, se si vuole parlare di ciò, risiede nella stessa incarnazione del Verbo, il quale ha scelto di incarnarsi in quel particolare contesto, con la Beata Vergine Maria e san Giuseppe.

Per cortesia, non nascondiamoci dietro quella ‘pastorale’ di cui si parla tanto, ma che alla fine risulta totalmente anonima. E l’anonimato deriva dal fatto che sul Verbo incarnato se ne parla in maniera disincarnata. Forse sarò un po' spietato e mi dispiacerebbe se qualcuno si offendesse, ma non confondiamo la «pastorale» con la «pastorizia».

Santo Natale  

 

Gabriele Cianfrani



[1] Per quanto riguarda le abbreviazioni bibliche presenti in questo articolo: Gen = Genesi; 1Sam = Primo libro di Samuele; Mi = Michea; Mt = Vangelo secondo Matteo; Lc = Vangelo secondo Luca; Gv = Vangelo secondo Giovanni; Eb = Lettera agli Ebrei; 1Pt = Prima lettera di Pietro. 


 


venerdì 8 dicembre 2023

NESSUNO METTE DEL VINO NUOVO IN OTRI VECCHI: L'IMMACOLATA CONCEZIONE


 

Quella dell’8 dicembre, dal 1854, risulta essere la solennità della Immacolata concezione della Beata Vergine Maria. Per quale motivo dal 1854? Perché l’8 dicembre 1854 Papa Pio IX proclamò tale dogma con la bolla Ineffabilis Deus (per leggerla interamente cliccare qui). I dogmi mariani sono complessivamente quattro: Maternità divina (431 d.C.); verginità perpetua (553 d.C.); immacolata concezione (1854); assunzione in Cielo in anima e corpo (1950).

Fin da ora è necessario precisare che trattare del concepimento immacolato di Maria è cosa che richiede troppo spazio, per cui non sarà possibile raggiungere quella esaustività richiesta da un tema di questa portata, ma qualche dato è possibile riportarlo. Tuttavia, se si volesse andare nel dettaglio, sarebbe necessaria almeno un’infarinatura riguardante lo stato dei progenitori prima della colpa d’origine, la stessa colpa o peccato d’origine (cos’è, come si trasmette, cosa comporta, quale rimedio sacramentale ecc.), la costituzione della natura umana, alcuni argomenti riguardanti la natura e la grazia e tante altre cose. Inoltre, è bene sapere che in passato vi sono state alcune disquisizioni teologiche che non sempre hanno condotto ad affermare il concepimento immacolato di Maria, pur mantenendo quella grande venerazione nei suoi confronti, comune a tutti i grandi teologi. Non solo, ma per quanto riguarda tali disquisizioni è stato osservato che andrebbe posta la distinzione tra conceptio e animatio e la stessa animazione intellettiva durante il Medioevo, ma questo rimanda ad un altro momento (per chi vuole leggere qualcosa sulla creazione dell’anima e in particolar modo secondo san Tommaso d’Aquino, riporto un mio lavoro al quale è possibile collegarsi cliccando qui).

Prima di procedere è importante sapere che gli ultimi due dogmi mariani sono stati proclamati considerando la duplice infallibilità magisteriale, che si divide in infallibilitas in credendo e infallibilitas in docendo: la prima (in credendo) riguarda la totalità dei fedeli (universitas fidelium: indica la Chiesa nel suo insieme, non la somma aritmetica di ogni singolo membro) «non può sbagliarsi nel credere – in credendo falli nequit» (Lumen gentium, n. 12); la seconda (in docendo) è la funzione magisteriale, affidata ai soli Pastori, che garantisca la certezza del credere, in materia di fede e morale. In tal caso il riferimento è soprattutto alla infallibilità in credendo, che si radica in quel sensus fidei che riguarda tutto il popolo di Dio, ecclesiastici e laici. In poche parole riguarda tutta la Chiesa.

A questo punto sarebbe necessario parlare di un aspetto che ultimamente, anche da parte dei cattolici, è poco compreso: la Rivelazione, ossia la Parola di Dio. Sembra strano, ma non lo è. Spesse volte si considera ‘solo’ la Sacra Scrittura come Parola di Dio, lasciando nell’oblio l’altra fonte imprescindibile, ossia la Sacra Tradizione (cfr. Lc 1,1-4; Gv 21,24-25; 2Pt 3,15-16). È un errore grossolano – oggi più o meno comprensibile –, per il semplice motivo che la Rivelazione in quanto Parola di Dio scaturisce e dalla Sacra Scrittura e dalla Sacra Tradizione, senza considerare che la Sacra Tradizione appare sia in senso ampio (per iscritto) sia in senso stretto (oralmente). La domanda sarebbe la seguente: cos’è la Sacra Tradizione? Questa domanda sarà alla base del prossimo articolo, nel quale sarà trattato il rapporto tra Sacra Scrittura e Sacra Tradizione.

Ora, il dogma dell’Immacolata concezione esprime che la Beata Vergine fu esente dalla macchia del peccato d’origine, ossia non ereditò il peccato d’origine, non per suo merito creaturale ma per l’applicazione preventiva dei meriti redentivi di Cristo, cioè preservata dalla colpa d’origine in virtù dei meriti redentivi di Cristo. Possibile obiezione: dove sta scritto? Non è vero che san Paolo ha detto che tutti hanno peccato (cfr. Rm 3,23) e che tutti, per somiglianza col peccato di Adamo, sono colpiti dalla morte e che necessitano della redenzione (cfr. Rm 5,12-14; 1Cor 15,22)? Certo, san Paolo ha riportato in maniera straordinaria quella che è riconosciuta come la dottrina del peccato d’origine e le sue conseguenze, perciò ha espresso tutto con quella finezza che gli era propria. Infatti, ciò non viene neanche minimamente scalfito con il dogma della Immacolata concezione, anzi, tale dogma avvalora il tutto. Senza riprendere il passo del Protovangelo (Gen 3,15), che permane nella sua importanza e che consta del duplice senso letterale proprio ed improprio, oltre ad altri luoghi veterotestamentari, si ritiene necessario soffermarsi su due luoghi sui quali riflettere: Lc 1,28; Lc 1,41-45.

Il primo riferimento è al verso di Lc 1,28, ossia a quel «piena di grazia» (gratia plena), che risulta essere un caso unico in tutta la Scrittura. Pertanto, occorre chiedersi cosa sia la «grazia» e come questa agisca sulla natura umana, se si vogliono comprendere quelle parole. La grazia è di per sé quel dono soprannaturale di Dio che consente alla creatura umana di partecipare della natura divina (cfr. Tt 3,7; 2Pt 1,4) e che comporta un vero e proprio rinnovamento dell’uomo (cfr. Concilio di Trento, Decreto sulla giustificazione, capitolo VII). Tale grazia che agisce sul piano ontologico è stata chiamata gratia gratum faciens o grazia santificante o grazia abituale. Si tratta di quella grazia che rende graditi a Dio in seguito al rinnovamento della creatura umana e che comporta la vera adozione divina (cfr. Gal 3,5). A questo punto san Tommaso d’Aquino direbbe che l’adozione divina è diversa da quella umana, in quanto solitamente l’uomo adotta ciò che gli è già gradito ed è già idoneo, mentre Dio, adottandoci divinamente, ci rende graditi a Lui e ci partecipa la sua beatitudine (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III, q. 23, a. 1). Pertanto, la grazia divina agisce primariamente sul piano ontologico, rinnovando interamente la creatura e rendendo la medesima partecipe della divina natura. Ma cosa sarebbe la grazia, in ultimo, se non Dio stesso? Quale sarebbe il suo rapporto con l’uomo? Sarebbe una sorta di panteismo o di emanatismo? Assolutamente no, dal momento che Dio è assolutamente semplice e tutto ciò che si manifesta al di fuori di Dio è «creato». Pertanto, nonostante l’autore della grazia sia Dio e in ultimo la medesima coincide con Dio, dal momento che viene ricevuta dalla creatura risulta essere creata. Ovviamente la partecipazione della natura divina supera infinitamente la partecipazione dell’essere, per cui bisogna ponderare bene le parole e soprattutto capire che ciò, spesse volte, supera la stessa capacità umana di comprensione.

Ora, dal momento che la grazia non può coabitare col peccato, e nel grembo di Maria ha assunto natura umana l’Autore della grazia, come poteva essere possibile la coabitazione di Dio e del peccato (d’origine)? Si ricordi che Dio è Trinità e che in tal caso la natura umana è stata assunta dalla Seconda Persona della Trinità (il Figlio). Ma se la colpa del peccato d’origine viene rimossa con la grazia santificante (conferita inizialmente col Battesimo) e l’angelo Gabriele saluta Maria come «piena di grazia», vuol dire che ella era già piena di Dio, ossia l’angelo non trova in lei neanche l’ombra del peccato, altrimenti non l’avrebbe salutata come «piena di grazia». A questo punto sorge un’altra domanda: come si manifesta la grazia? La riposta a tale domanda richiederebbe uno spazio notevole, ma bisogna sapere che la grazia è di per sé gratuita e in chiave biblica comprende anche l’aspetto della elezione, della scelta da parte di Dio, non per i meriti umani ma per la ricchezza della bontà divina (cfr. Dt 4,37; 7,7-8). A questo punto appare chiaro che Maria è «piena di grazia» per quei singolari meriti redentivi di Cristo – anche Maria è stata redenta, per cui non vale l’obiezione sopra riportata –, applicati ad ella preventivamente (Pio XI, Bolla Ineffabilis Deus; Concilio Vaticano II, Lumen gentium, 53), senza contare il dialogo tra Maria e l’angelo Gabriele.

Per quanto riguarda il secondo passo, Lc 1,41-45, vi sono due verità: Maria in quanto Madre del Signore e Maria in quanto dispensatrice delle grazie. Evidentemente Elisabetta saluta Maria quale madre del suo Signore, ma tale saluto segue un fatto ben preciso: la voce di Maria fa sussultare il figlio di Elisabetta che in quel momento si trovava nel suo grembo (Giovanni il Battista). Il tempo si ferma: da una parte la madre del Signore e la madre del precursore, dall’altra Cristo e Giovanni il Battista nel grembo delle relative madri. L’Autore della grazia, per mezzo della voce di Maria, raggiunge colui che sarà il suo precursore per mezzo della madre. Ed ecco che colei che era già piena di grazia porta nel suo grembo l’Autore della grazia, dal momento che ha trovato in lei quel tabernacolo che poteva permetterGli di porre la Sua tenda in mezzo a noi (cfr. Gv 1,14). Mi pare che tutto ciò emerga dai testi stessi.

Nonostante l’argomento meriterebbe di essere trattato in tutta la sua ampiezza – non è facile! –, il dogma dell’Immacolata concezione non lede quanto si legge nei passi paolini sopra riportati, dal momento che la redenzione è stata universale e anche Maria è stata redenta, ma preventivamente, come risulta dai passi lucani.

Per concludere, al di là delle ricerche teologiche, proprio colui che nutre grande odio verso la Beata Vergine affermò il suo concepimento immacolato. Nel 1823 i due domenicani P. Cassetti e P. Pignatura, dopo aver constatato la possessione diabolica di un ragazzo undicenne analfabeta dell’attuale Ariano Irpino, e dopo aver ricevuto il permesso di esorcizzarlo da parte del Vescovo, procedettero con l’esorcismo. Tuttavia, dal momento che a quel tempo si discuteva molto del concepimento immacolato di Maria – si ricordi che il dogma fu proclamato nel 1854 e nel 1858 la Beata Vergine a Lourdes lo confermò, e sulle mariofanie di Lourdes ci sarebbe tanto da dire –, i due domenicani richiesero al demonio una cosa strana, ossia di esprimersi sul concepimento immacolato di Maria mediante un sonetto con caratteristiche ben precise. Impossibile per un ragazzino analfabeta, ma forse anche qualcun altro. Bisogna sapere che l’angelo caduto non pronuncia i nomi di Gesù e di Maria e non lo fece neanche quella volta, ma ciò che venne fuori, anche se pronunciato dal demonio per bocca del ragazzino, ha il suo fascino. Attenzione: non bisogna prestare ascolto a tante cose che girano oggi, né a presunte catechesi da parte dell’angelo caduto né ad altre corbellerie, si cadrebbe nel tranello di colui ha l’intelletto deturpato, sì, ma comunque superiore all’intelletto umano. Il caso in questione fu un’eccezione e fu riconosciuto da chi era del mestiere. Pertanto, ecco il sonetto, anche se qualcuno avanza dei dubbi, ma senza fornire spiegazioni:

Vera madre son io d’un Dio ch’è Figlio

e son figlia di Lui benché sua Madre.

Ab aeterno nacqu’Egli ed è mio Figlio.

Nel tempo io nacqui e pur gli son Madre.

 

Egli è mio Creator ed è mio Figlio,

son io sua creatura e gli son Madre.

Fu prodigio divin l’esser mio Figlio

un Dio eterno e me aver per Madre.

 

L’esser quasi è comun tra Madre e Figlio,

perché l’esser dal Figlio ebbe la Madre

e l’esser dalla Madre ebbe anche il Figlio.

 

Or, se l’esser dal Figlio ebbe la Madre

o s’ha da dir che fu macchiato il Figlio

o senza macchia s’ha da dir la Madre.[1]

 

Pertanto, nessuno mette il vino nuovo in otri vecchi, men che mai Colui che è il Pane di Vita.



 

Gabriele Cianfrani



[1] Il testo l’ho preso da F. Bamonte, La Vergine Maria e il diavolo negli esorcismi, Paoline Editoriale Libri, Milano 20105, pp. 37-38.


giovedì 31 agosto 2023

RECENSIONE DEL LIBRO "L'ADESIONE DIABOLICA. UNA SFIDA ANTICA FRA DANNAZIONE E SALVEZZA" DEL PROF. ALBERTO CASTALDINI


 

Alberto Castaldini, L’adesione diabolica. Una sfida antica fra dannazione e salvezza, Sugarco Edizioni, Milano 2023

Recensione a cura di Gabriele Cianfrani

 

Il libro che ho il piacere di recensire, dedicato al grande esorcista e Servo di Dio P. Candido Amantini (1914-1992), è “L’adesione diabolica. Una sfida antica fra dannazione e salvezza” del Prof. Alberto Castaldini[1], che conosco personalmente e al quale va la mia stima e la mia gratitudine per un lavoro come questo. Sì, perché il Prof. Castaldini pone in luce alcuni aspetti antropologici – e non solo – di grande importanza, chiamati in causa a fronteggiare quell’azione diabolica nei confronti della quale, purtroppo ma molto spesso, si finisce per assecondarla, o meglio, per «aderirvi». Questo aspetto risulta centrale e lo si capisce già dal primo capitolo: La libertà spezzata. È proprio dalla libertà, che viene talmente piegata da «spezzarsi», che tutto ha inizio.

È importante, soprattutto per lo smarrimento odierno su temi come quello trattato dal Prof. Castaldini, dato che quando si parla del Maligno il riferimento non è ad una realtà impersonale, ma certamente personale, dal momento che il Maligno è un angelo caduto e come tutti gli angeli (buoni e cattivi) è una «persona»: omne subsistens in natura rationali vel intellectuali est persona (Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, IV, c. 35). Ciò emerge chiaramente sia dalla prefazione di don Silvio Zonin (esorcista della diocesi di Verona) sia dall’introduzione dell’Autore.

Ora, la libertà dell’uomo, che come facoltà spirituale rientra nella sua costituzione ontologica, conobbe il primo ostacolo con i progenitori Adamo ed Eva. Senza svolgere particolari approfondimenti, è possibile notare che alla domanda del serpente (cfr. Gen 3,1) la donna risponde inserendo il «non toccare» (cfr. Gen 3,3), ossia inserisce del suo al divieto divino, acconsentendo al serpente, per poi ritrovarsi con la libertà piegata, o meglio, spezzata. Tale stato poteva essere sanato soltanto dal rinnovamento della creazione in Cristo, come risulta dall’epilogo del libro (Per una creazione rinnovata in Cristo), che concede la partecipazione alla natura divina (cfr. 2Pt 1,4) per mezzo della gratia gratum faciens conferita sacramentalmente, a partire dal sacramento del Battesimo (cfr. Gal 3,27).

Passando in rassegna alcuni punti, il Prof. Castaldini pone in evidenza il fatto che l’«adesione» diabolica, per essere tale, non può non coinvolgere l’intelletto e la volontà. Infatti, nel primo capitolo egli scrive: «[…] in cui la tentazione viene perfezionata dalla volontà umana in iniziative che penetrano e si radicano nel vissuto concreto, quotidiano, abituale, proprio e altrui» (p. 36). In questo passo emerge un aspetto molto importante, ossia che la tentazione del Maligno non si pone in maniera totalmente estranea all’essere umano, altrimenti non vi sarebbe adesione alcuna, ma si radica nel vissuto, e se si radica nel vissuto vuol dire che si radica in ciò che la volontà umana cerca per sua natura: il bene. Infatti, se l’oggetto della volontà è il bene conosciuto, ossia il bene presentato come tale dall’intelletto, la volontà è disposta naturalmente ad aderirvi. Ma se questo bene venisse falsamente presentato come tale, ossia un male sotto le sembianze di bene, allora occorrerebbe una seria valutazione che chiami in causa l’agire morale, incluso il dinamismo delle virtù, che implica sia la potenza dell’intelletto sia quella della volontà. Ciò permette che un bene sia conosciuto e riconosciuto come tale. Tuttavia, come ben scrive l’Autore, spesse volte nel cooperatore di iniquità si confonde ogni criterio di discernimento. Ed ecco che dal punto di vista psichico e morale, la fragilità umana – spesse volte evocata come una vera e propria scusa… – non esonera l’uomo dal suo agire morale. Se è vero, come è vero, che agere sequitur esse, all’«adesione» diabolica segue un vero e proprio «assoggettamento», dal momento che viene coartato il vero agire libero dell’uomo, per cedere il passo alla negazione della libertà umana, ergo alla negazione dell’essere: «[…] poiché il diavolo, ribellandosi, negò l’essere, e con esso sconvolse l’armonia della creazione oltre a negare Dio, se stesso e gli uomini» (p. 40). Ora, tra i vari aspetti che il Prof. Castaldini evidenzia, ve ne sono alcuni e tutti di estrema importanza: la deformazione della intelligenza dei demòni, pur conservando quella volontà che continuamente aderisce al male (cfr. pp. 41-42); la falsa mistica come ricerca irrequieta che vuole trasformare l’uomo, cercando di elevarlo in modo illusorio decretando la sua rovina, facendo a meno di Dio (cfr. p. 49); l’adesione alle tenebre che giunge al cuore della questione antropologica situandosi nel nucleo ontologico dell’uomo (cfr. p.52); l’immaginazione creatrice che si riscontra nel mondo dell’occulto e che tende ad una vera e propria autodivinizzazione, subordinando a ciò anche la Rivelazione divina (cfr. 60-61) ed altri. Tra i vari aspetti ritengo particolarmente importante soffermare l’attenzione su quello relativo alla «soggezione/assoggettamento» conseguente alla «adesione». Lungi dal voler presentare il male come una sorta di algoritmo senza volto, come tante volte capita di constatare nell’epoca odierna, che ha quasi perso il concetto del volto (cfr. p. 121) e di conseguenza dell’identità, ergo della personalità, non vi sarebbe adesione diabolica se mancassero gli atteggiamenti attivo e cooperante, ossia volontario (cfr. p. 82). Cosa comporterebbe l’adesione alla proposta del Maligno? Non solo ciò che si definisce «peccato», ma un progressivo deterioramento ontologico. Certamente, non si mette in discussione l’immortalità dell’anima intellettiva, ossia l’anima umana – ovvio! –, ma certamente l’uomo, considerato nella sua totalità di anima e corpo, nonostante sia chiamato da Dio alla perfezione eterna, può incorrere nella più grande imperfezione, ossia la dannazione eterna. Se Dio è l’Essere per sé sussistente che partecipa l’essere alle creature, e l’essere come atto è la perfezione di tutte le perfezioni, l’incontro eterno con Dio comporta il compimento della perfezione umana, e sul piano soprannaturale comporta la piena partecipazione alla Bontà divina – già la grazia santificante agisce soprannaturalmente sul piano ontologico. Non solo, ma sia l’intelletto umano sia la volontà umana troveranno in Dio il pieno appagamento, Colui che solo può appagare in pienezza l’essere umano, essendo Egli somma Verità e somma Bontà. Tutto ciò corrisponde ad una vera e propria perfezione ontologica della creatura umana.

Al contrario, l’adesione diabolica, che non può non includere il moto della volontà verso l’oggetto diabolicamente presentato, mira a condurre ad una vera e propria dipendenza morale dal demonio, tale da provare una sorta di gusto del peccato (cfr. p. 80). Ciò si riscontra nell’opposizione tra «virtù» e «vizi». Ed ecco che l’agire morale, in quanto tale, non può prescindere né dall’intelletto né dalla volontà, infatti, l’Apostolo dice: […] lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto (Rm 12,2). Si noti l’ordine adoperato dall’Apostolo: pensiero – volontà. Il discernimento avviene sul piano intellettivo e successivamente subentra quello volitivo. Ma come l’intelletto presenta alla volontà il suo oggetto, così la stessa volontà muove l’intelletto e le due facoltà s’incontrano sul campo della libertà. Come riporta il Catechismo della Chiesa Cattolica: la libertà è il potere, radicato nella ragione e nella volontà, di agire o di non agire, di fare questo o quello, di porre così da se stessi azioni deliberate. Grazie al libero arbitrio ciascuno dispone di sé. La libertà è nell’uomo una forza di crescita e di maturazione nella verità e nella bontà. La libertà raggiunge la sua perfezione quando è ordinata a Dio, nostra beatitudine (n. 1731).

Nell’«adesione» diabolica è proprio la libertà ad essere coartata, impedendo alla creatura umana di raggiungere la sua perfezione in Dio, sfociando in quell’assoggettamento che non è altro che il risultato di un’adesione continua, scegliendo di partecipare al mysterium iniquitatis, e ciò volontariamente, fino a subire una certa conformazione a quest’ultimo.

Quale sarebbe il punto di partenza? Il Prof. Castaldini parla di stupidità metafisica (p. 65) nel rifiuto della propria creaturalità e di conseguenza nel rifiuto del progetto divino. È tutto concatenato, dacché Dio ha creato l’uomo per un progetto soprannaturale e l’uomo «aderisce» a tale progetto accettando, anzitutto, la propria creaturalità.

Oggi più che mai è necessario il ritorno ad una sana metafisica, anzitutto di stampo tomista, anziché chiudersi in quell’antropocentrismo falsamente presentato come bene per l’uomo, ma che in realtà continua imperterrito nell’estromissione di Dio dalla storia dell’uomo.

Ora, il rifiuto di Dio comporta il rifiuto della somma Bontà conseguente al rifiuto della propria creaturalità, nella convinzione di poter fare a meno, ontologicamente, di Colui che è (Es 3,14). Un rifiuto del genere implica la tendenza al non essere, nella negazione dell’essere, e non a caso il Maligno è colui che nega soprattutto ciò che il Creatore ha elargito sin dal principio: l’essere. La negazione dell’essere equivale alla negazione non solo di se stessi ma anche di Dio, con la differenza che Dio non può essere negato e non corre il rischio della dannazione, l’uomo sì, dacché con l’«adesione» diabolica si assoggetta a colui che è irreversibilmente dannato e che tende a negare anche se stesso pur di negare Dio Creatore. E in tal caso la conformazione al mysterium iniquitatis diventa così grande da propendere, addirittura, per la contraddizione, estranea persino a Dio. Ma il Verbo incarnato ha mostrato anche questo, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori (Lc 2,35). Ancora una volta la Beata Vergine, inseparabile dal Figlio eterno del Padre e sempre piena dello Spirito Santo, è il modello perfetto della perfezione umana corrisposta al progetto di Dio.

Un ringraziamento al Prof. Castaldini per aver messo in luce, nel suo libro, quello che a questo punto sembra essere l’aspetto più importante: la dipendenza ontologica e antropologica dell’uomo da Colui che è l’Essere per sé sussistente e sommamente Persona, offuscate dall’azione del Maligno, ma che dal riconoscimento di tale dipendenza creaturale dipende la salvezza o la dannazione.



[1] Laureato in Giurisprudenza e dottore di ricerca in Filosofia, è docente universitario, membro associato della Facoltà di Teologia Greco-Cattolica dell’Università Babeş-Bolyai di Cluj, in Transilvania, dove insegna filosofia e teologia della storia. Dal 2006 al 2010 ha diretto l’Istituto Italiano di Cultura di Bucarest e ha ricoperto l’incarico di addetto culturale dell’Ambasciata d’Italia in Romania. Collabora come esperto con l’Associazione Internazionale Esorcisti (AIE).


mercoledì 30 agosto 2023

CENNI DI ERMENEUTICA BIBLICA (parte 2)

 


Nel precedente articolo (clicca qui) è stato riportato che l’interpretazione autentica, sulla base della Dei Verbum n. 10, è quell’ufficio riservato al solo Magistero della Chiesa. Tuttavia, potrebbe sorgere una domanda: se tale ufficio è riservato al Magistero, quale sarebbe il compito degli studiosi?

Una domanda del tutto legittima, infatti, gli studiosi sono molto importanti in quanto preparano ciò su cui il Magistero si esprimerà, qualora lo ritenesse opportuno. È possibile notare tanti lavori di eminenti studiosi del campo biblico, con approfondimenti e commenti, e questi studi sono fondamentali non solo per la ricerca biblica, ma perché offrono il materiale per eventuali interventi magisteriali – da non dimenticare che il contenuto del Magistero è la fede e la morale (fides et mores). Seguendo il Discorso di San Giovanni Paolo II del 23 aprile 1993 riportato dalla Pontificia Commissione Biblica (L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa):

 

«Desidero oggi mettere in risalto alcuni aspetti dell’insegnamento di queste due Encicliche [Providentissimus Deus di Leone XIII e Divino afflante Spiritu di Pio XII] e la validità permanente del loro orientamento attraverso circostanze mutevoli al fine di poter meglio beneficiare del loro contributo. In primo luogo, si nota fra questi due documenti un’importante differenza. Si tratta della parte polemica – o, più precisamente, apologetica – delle due Encicliche. Infatti, l’una e l’altra manifestano la preoccupazione di rispondere agli attacchi contro l’interpretazione cattolica della Bibbia ma questi attacchi non andavano nella stessa direzione. La Providentissimus Deus, da una parte, vuole soprattutto proteggere l’interpretazione cattolica della Bibbia dagli attacchi della scienza razionalista; dall’altra, la Divino afflante Spiritu si preoccupa piuttosto di difendere l’interpretazione cattolica dagli attacchi che si oppongono all’utilizzazione della scienza da parte degli esegeti e che vogliono imporre un’interpretazione non scientifica, cosiddetta «spirituale», delle Sacre Scritture. Questo cambiamento radicale della prospettiva era dovuto, evidentemente, alle circostanze. La Providentissimus Deus fu pubblicata in un’epoca segnata da forti polemiche contro la fede della Chiesa. L’esegesi liberale forniva a queste polemiche un sostegno importante, poiché essa utilizzava tutte le risorse delle scienze, dalla critica testuale alla geologia, passando per la filologia, la critica letteraria, la storia delle religioni, l’archeologia e altre discipline ancora. Al contrario, la Divino afflante Spiritu venne pubblicata poco tempo dopo una polemica del tutto differente, condotta, soprattutto in Italia, contro lo studio scientifico della Bibbia. Nell’uno e nell’altro caso, la reazione del Magistero fu significativa, poiché, invece di attenersi a una riposta puramente difensiva, esso andava a fondo del problema e manifestava così – notiamolo subito – la fede della Chiesa nel mistero dell’Incarnazione. […] Costatiamo così che, nonostante la grande diversità delle difficoltà da affrontare, le due Encicliche si riuniscono perfettamente a livello più profondo. Esse rifiutano, sia l’una che l’altra, la rottura tra l’umano e il divino, tra la ricerca scientifica e lo sguardo della fede, fra il senso letterale e il senso spirituale. Esse si mostrano su quel punto pienamente in armonia con il mistero dell’Incarnazione».

 

Dalle parole di San Giovanni Paolo II si capisce quanto la ricerca scientifica nel campo biblico sia incoraggiata! E questo incoraggiamento è rivolto a tutti gli studiosi del campo, in modo particolare agli esegeti. È la posizione espressa dalla Dei Verbum:

 

È compito degli esegeti contribuire secondo queste norme alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della Sacra Scrittura, fornendo i dati previi, dai quali si maturi il giudizio della Chiesa. Quanto, infatti, è stato qui detto sul modo di interpretare la Scrittura, è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e mistero di conservare e interpretare la parola di Dio (n.12).

 

Chiarita l’importanza determinante degli studiosi anche per i successivi compiti del Magistero, è doveroso passare, brevemente, alla esposizione delle tre grandi parti della ermeneutica biblica, come ricordato dall’articolo precedente (qui): la noematica (da νόημα = pensiero), ossia l’analisi dei vari sensi della Scrittura; l’euristica (da εὑρίσκειν = trovare), ossia l’insegnamento per trovare i sensi della Scrittura; la proforistica (da προφέρειν = proferire, enunziare), ossia il modo di esporre il senso così trovato e per l’uso della Chiesa. Il testo di riferimento sarà sempre L. Moraldi I.M.C. – S. Lyonnet S.J. (ed.), Introduzione alla Bibbia. Corso sistematico di studi biblici, I. Introduzione generale, Marietti, Torino 1960. In questa sede si prenderà in esame la noematica, mentre l’euristica e la proforistica saranno trattate nel prossimo articolo.

Per quanto riguarda la noematica, e partendo dal senso letterale, è possibile strutturare nel modo seguente.

 

Senso letterale

a) a seconda dei termini usati:         

- proprio (l’utilizzo delle parole nel loro significato originale);

- improprio (l’utilizzo delle parole in maniera figurata, ma con una certa attinenza col significato della parola originaria: «l’agnello di Dio», in riferimento a Cristo).

Il senso letterale improprio presenta altre divisioni:

paragone: confronto di due termini mediante qualche particella similitudinaria, i termini sono presi in senso proprio («come un agnello davanti a chi lo tosa»);

metafora: confronto di due termini ma con verbo «essere», non con particella similitudinaria, e i termini sono preso in senso figurato («[Cristo è] l’agnello di Dio»);

parabola: sviluppo del paragone, con termini presi in senso proprio;

allegoria: sviluppo della metafora, con termini presi in senso figurato o traslato.

Il simbolo, che si riscontra nella Scrittura, a differenza del tipo (da cui la lettura tipologica), svolge la funzione di significare qualcos’altro; il tipo ha ragione di essere anche in se stesso e non esclusivamente in altro.

 

b) a seconda dell’intenzione dell’autore:       

- esplicito: ciò che risulta a prima vista dalle parole;

- implicito: ciò che risulta nascosto nelle parole o nella totalità del testo;

- pieno: ciò che si riferisce ordinariamente a Dio, senza sorpassare il senso letterale, ma comunque al di sopra della portata dell’agiografo, ossia lo scrittore sacro (ad esempio, il passo di Is 7,14 non parla di una «vergine», ma di una «giovane donna», e il richiamo di tale passo in Mt 1,23 sostituisce la «giovane donna» con la «vergine», dando senso pieno a quel passo di Is 7,14);

- eminente: ciò che si dice in modo eminente di uno della collettività, in maniera tale che quella eminenza coinvolga la stessa collettività (ad esempio, la discendenza della donna o la discendenza di Davide, ossia la parte buona degli uomini o della casa/dinastia di Davide).

 

Per quanto riguarda il senso spirituale, la Pontificia Commissione Biblica è chiara:

 

come regola generale, possiamo definire il senso spirituale, compreso secondo la fede cristiana, il senso espresso dai testi biblici quando vengono letti sotto l’influsso dello Spirito Santo nel contesto del mistero pasquale di Cristo e della vita nuova che ne risulta. Questo contesto esiste effettivamente. Il Nuovo Testamento riconosce in esso il compimento delle Scritture. È perciò normale rileggere le Scritture alla luce di questo nuovo contesto, quello della vita nello Spirito. […] Contrariamente a un’opinione corrente, non c’è necessaria distinzione tra questi due sensi [letterale e spirituale]. […] Quando c’è una distinzione, il senso spirituale non può mai essere privato dei rapporti con il senso letterale che ne rimane la base indispensabile; diversamente, non si potrebbe parlare di «compimento» della Scrittura. […] Il senso spirituale non è da confondere con le interpretazioni soggettive dettate dall’immaginazione o dalla speculazione intellettuale. Esso scaturisce dalla relazione del testo con certi dati reali che non gli sono estranei, l’evento pasquale e la sua inesauribile fecondità, che costituiscono il vertice dell’intervento divino nella storia di Israele, a vantaggio di tutta l’umanità (L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, pp. 74-75).

 

Il senso spirituale, che in alcuni testi si trova come senso tipico, si divide in:

- allegorico (da non confondere con l’allegoria del senso letterale improprio): ha per oggetto Cristo o la Chiesa;

- tropologico o morale: riguarda una lezione concernente la morale;

- anagogico: ha per oggetto le cose riguardanti la vita futura.

 

Quella riportata è una breve esposizione di ciò che riguarda la noematica, dal momento che vi sarebbero da fare altri approfondimenti, ma per questo si rimanda ai testi specifici. Tuttavia, non è possibile impoverire il senso letterale, come purtroppo avviene spesso, col risultato della mancata comprensione del testo biblico. Quello letterale è il senso più articolato! Si consiglia vivamente ciò che scrive san Tommaso d’Aquino in Summa Theologiae, I, q. 1 a. 10, in cui anche l’historia, l’aetiologia e l’analogia ad unum litteralem sensum pertinet. Inoltre, per concludere, spesse volte si accusa Origene († 254 d.C. ca.) di aver «spiritualizzato» troppo la Scrittura. In realtà Origene, che è stato tra i massimi esegeti della storia della Chiesa – basta leggere il suo commento al Padre Nostro –, distingueva tre tipi di lettura in base alla concezione antropologica. Egli distingueva, antropologicamente, tra somatici, psichici e pneumatici, per cui abbiamo: somatico/letterale (proprio) – psichico/morale – pneumatico/allegorico (letterale improprio e/o tipologico). Pare che egli intendesse dire che non tutti i passi della Scrittura godano di senso letterale «proprio» (somatico o corporeo), e in questo aveva perfettamente ragione (cfr. L. Moraldi I.M.C. – S. Lyonnet S.J. (ed.), Introduzione alla Bibbia. Corso sistematico di studi biblici, I. Introduzione generale, Marietti, Torino 1960, p. 182). Pertanto, Origene non è un Padre della Chiesa per precisi motivi, va bene, ma alcune posizioni ostinatamente contro di lui dovrebbero essere riviste.

 

 

Gabriele Cianfrani