In
questi ultimi tempi fanno ritorno alcune questioni alle quali la Chiesa ha già
dato risposte, in modo particolare le seguenti: come bisogna interpretare
alcuni passi della Bibbia; cosa occorre per capire il senso di un preciso passo
biblico; l’attendibilità del simbolismo biblico; difficoltà di alcuni passi che
risulterebbero contraddittori e così via – in quest’ultimo caso occorrerebbe
richiamare il tema della «ispirazione» dei testi sacri, con le dovute precisazioni
anche per quel che riguarda l’essere Parola di Dio estrinsecamente (formalmente
intesa) e l’essere Parola di Dio intrinsecamente (materialmente intesa).
Non è un caso che quello dell’ispirazione sia uno dei temi meno compresi, quasi
da risultare poco credibile, ma per il semplice motivo che non è chiaro in cosa
consista l’ispirazione biblica. Ciò sarà trattato in altra sede.
Le
questioni riportate sono più che legittime, e il più delle volte sono questioni
che, nonostante siano già state trattate, al giorno d’oggi pare che restino
ancora aperte, o meglio, che si vogliano riaprire. Inutile precisare che
occorrerebbe svolgere un percorso biblico per trattare le questioni sopra
riportate ed altre, ma per il momento è possibile riportare solo alcuni cenni
di ermeneutica biblica. Per far ciò si prenderà come testo di
riferimento il seguente: L. Moraldi I.M.C.
– S. Lyonnet S.J. (ed.), Introduzione
alla Bibbia. Corso sistematico di studi biblici, I. Introduzione
generale, Marietti, Torino 1960. Perciò il numero di pagine che si
riscontreranno si riferiranno a questo testo. Inoltre, si rimanda anche a un
altro testo: Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia
nella Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, 2014.
Anzitutto
la parola «ermeneutica» (dal greco ἑρμενευτική) riguarda quella interpretazione,
quella arte interpretativa che non riguarda solo il testo biblico, ma
ogni altro testo, soprattutto un testo antico. San Girolamo scriveva che «dovere
del commentatore è di esporre non il pensiero proprio, ma quello di colui che
egli spiega» (Ep. 48 ad Pamm., 17). Ed è proprio ciò che s’intende conseguire con l’interpretazione,
che non è libera e svicolata da tutto, come una sorta di voler far dire al
testo ciò che si vuole – non pochi, oggi, credono questo in merito alla Bibbia,
ma non è la posizione cattolica e non è neanche corretta ermeneutica –, ma deve
attenersi a criteri ben precisi:
l’ermeneutica
in genere è quella disciplina che insegna le regole per interpretare un
libro e il modo di ben applicarle, allo scopo di intenderne il vero senso, che
è quello inteso dall’autore. Nell’ermeneutica biblica questo libro è la Bibbia.
[…] Giova avvertire subito che, siccome la S. Scrittura non è un libro come
tutti gli altri, ma un libro divino-umano, vi si troveranno sensi (e quindi
regole d’interpretazione) strettamente suoi particolari, oltre a quelli comuni
agli altri libri (p. 177).
Non
solo, ma bisogna tener conto sia del senso (quel determinato concetto
che l’autore intende esprimere con le sue parole) sia il significato (il
concetto inerente alle singole parole oggettivamente, indipendentemente dall’intenzione
soggettiva dell’autore) di ciò che si vuole sottoporre alla interpretazione (cfr.
p. 177). Questo è molto importante, dal momento che la Bibbia, in quanto Parola
di Dio, è rivolta all’uomo ed esige di essere interpretata, spiegata – ossia togliere
le pieghe facendo emergere ciò che si nasconde sotto, ma senza rimuovere i
segni delle pieghe.
Precisazione
doverosa: per «Parola di Dio» non bisogna intendere solo la Bibbia, ma anche la
Tradizione divino apostolica – quest’ultima godrebbe di precedenza, considerata
non dal punto di vista consecutivo ma dal punto di vista costitutivo
–, poiché sia l’una che l’altra costituiscono le due fonti della Rivelazione
divina, come riporta la Costituzione dogmatica su «La divina rivelazione» (Dei
Verbum):
La
Sacra Tradizione dunque e la Sacra Scrittura sono strettamente tra loro
congiunte e comunicanti. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina
sorgente, esse formano in certo qual modo una cosa sola e tendono allo stesso
fine. Infatti la Sacra Scrittura è parola di Dio in quanto scritta per ispirazione
dello Spirito di Dio; la Sacra Tradizione poi trasmette integralmente la parola
di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli Apostoli, ai loro
successori [i vescovi], affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con la
loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano;
accade così che la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non
dalla sola Scrittura. Perciò l’una e l’altra devono essere accettate con pari
sentimento di pietà e rispetto (n. 9).
Questo
numero della Dei Verbum è molto importante e non è possibile
dimenticarlo. Tuttavia, per non appesantire quella che vuole essere una breve
esposizione di ciò che riguarda l’ermeneutica biblica, si rimanda a tre
encicliche fondamentali per lo studio biblico: Spiritus Paraclitus di
Benedetto XV (1920); Providentissimus Deus di Leone XIII (1893); Divino
afflante Spiritu di Pio XII (1943), oltre che alla Dei Verbum del
Concilio Vaticano II.
In
questa sede è necessario chiarire due punti:
1)
a chi spetta ufficialmente il compito d’interpretare la Scrittura;
2)
come si divide il trattato sull’ermeneutica biblica.
Per
quanto riguarda il primo punto, ci viene in soccorso la Dei Verbum:
l’ufficio
poi d’interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa è
affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel
nome di Gesù Cristo. Il quale Magistero però non è superiore alla parola di Dio
ma ad essa serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per
divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta,
santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico
deposito della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato da
Dio. È chiaro dunque che la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero
della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente
connessi e congiunti da non potere indipendentemente sussistere, e tutti
insieme, secondo il proprio modo, sotto l’azione di un solo Spirito Santo,
contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime (n. 10).
A
questo punto sorge una domanda: cosa sarebbe il Magistero della Chiesa?
Nulla
di cui preoccuparsi, men che mai accingersi alla ‘interpretazione personale o privata’
della Bibbia, poiché il Magistero è quell’ufficio esercitato dai Vescovi in
comunione con il Romano Pontefice (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n.
85), dal momento che godono della pienezza del sacramento dell’Ordine e di
conseguenza della pienezza del munus docendi («Chi ascolta voi ascolta
me», come si legge in Lc 10,16). Il Magistero, ossia questo particolare ufficio
dei successori degli Apostoli (i vescovi) in comunione con il Successore di
Pietro (il Romano Pontefice), si esprime su ciò che riguarda la fede e
la morale (fides et mores) e viene solitamente distinto in due
forme di esercizio: ordinario e straordinario o solenne, ma che
può essere anche non solenne, e allora si chiamerà Magistero ordinario
universale.
Con
la forma ordinaria, s’intende il modo normale di esercitare il munus
docendi della Chiesa, dei successori degli Apostoli e di Pietro – dev’essere
chiaro, poiché una battuta o una risata non può essere considerata Magistero… –,
alla quale forma è richiesto l’ossequio da parte del fedele.
Con
la forma straordinaria, s’intende sia quell’intervento o pronunciamento magisteriale
da parte del Romano Pontefice, quando emana una definizione dogmatica ex
cathedra, sia la definizione di un dogma da parte di un Concilio Ecumenico.
Tale è il Magistero in forma straordinaria e solenne. Nel caso non fosse
solenne, si avrebbe il Magistero ordinario universale, che non è altro un modo
di esercizio del Magistero straordinario. Ciò che cambia è che in tal modo si indica
la continuità ininterrotta nel proporre un dato insegnamento, per cui i vescovi
in comunione col Papa, nonostante dispersi per il mondo, convergono sua una
particolare dottrina da proporre al popolo di Dio. Alla forma straordinaria è
richiesto l’assenso di fede.
Pertanto,
l’interpretazione della Scrittura spetta al Magistero della Chiesa e non è
affare privato (cfr. 2Pt 1,20).
Per
quanto riguarda il secondo punto, bisogna considerare che l’ermeneutica biblica
si divide in tre grandi parti, ognuna delle quali si divide in altre parti: la noematica
(da νόημα = pensiero), ossia l’analisi dei vari sensi della Scrittura;
l’euristica (da εὑρίσκειν = trovare), ossia l’insegnamento per
trovare i sensi della Scrittura; la proforistica (da προφέρειν =
proferire, enunziare), ossia il modo di esporre il senso così trovato e per l’uso
della Chiesa (cfr. p. 177).
È
il caso di rimandare l’esposizione sulla noematica al prossimo articolo,
anche perché occorrerà trattare anche del senso letterale, così tanto poco
considerato e/o compreso, mentre si tratta del senso più articolato, sia per
quanto riguarda i termini utilizzati sia per l’intenzione dell’autore.
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