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martedì 29 agosto 2023

CENNI DI ERMENEUTICA BIBLICA (parte 1)


 

In questi ultimi tempi fanno ritorno alcune questioni alle quali la Chiesa ha già dato risposte, in modo particolare le seguenti: come bisogna interpretare alcuni passi della Bibbia; cosa occorre per capire il senso di un preciso passo biblico; l’attendibilità del simbolismo biblico; difficoltà di alcuni passi che risulterebbero contraddittori e così via – in quest’ultimo caso occorrerebbe richiamare il tema della «ispirazione» dei testi sacri, con le dovute precisazioni anche per quel che riguarda l’essere Parola di Dio estrinsecamente (formalmente intesa) e l’essere Parola di Dio intrinsecamente (materialmente intesa). Non è un caso che quello dell’ispirazione sia uno dei temi meno compresi, quasi da risultare poco credibile, ma per il semplice motivo che non è chiaro in cosa consista l’ispirazione biblica. Ciò sarà trattato in altra sede.

Le questioni riportate sono più che legittime, e il più delle volte sono questioni che, nonostante siano già state trattate, al giorno d’oggi pare che restino ancora aperte, o meglio, che si vogliano riaprire. Inutile precisare che occorrerebbe svolgere un percorso biblico per trattare le questioni sopra riportate ed altre, ma per il momento è possibile riportare solo alcuni cenni di ermeneutica biblica. Per far ciò si prenderà come testo di riferimento il seguente: L. Moraldi I.M.C. – S. Lyonnet S.J. (ed.), Introduzione alla Bibbia. Corso sistematico di studi biblici, I. Introduzione generale, Marietti, Torino 1960. Perciò il numero di pagine che si riscontreranno si riferiranno a questo testo. Inoltre, si rimanda anche a un altro testo: Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, 2014.

Anzitutto la parola «ermeneutica» (dal greco ἑρμενευτική) riguarda quella interpretazione, quella arte interpretativa che non riguarda solo il testo biblico, ma ogni altro testo, soprattutto un testo antico. San Girolamo scriveva che «dovere del commentatore è di esporre non il pensiero proprio, ma quello di colui che egli spiega» (Ep. 48 ad Pamm., 17). Ed è proprio ciò che s’intende conseguire con l’interpretazione, che non è libera e svicolata da tutto, come una sorta di voler far dire al testo ciò che si vuole – non pochi, oggi, credono questo in merito alla Bibbia, ma non è la posizione cattolica e non è neanche corretta ermeneutica –, ma deve attenersi a criteri ben precisi:

 

l’ermeneutica in genere è quella disciplina che insegna le regole per interpretare un libro e il modo di ben applicarle, allo scopo di intenderne il vero senso, che è quello inteso dall’autore. Nell’ermeneutica biblica questo libro è la Bibbia. […] Giova avvertire subito che, siccome la S. Scrittura non è un libro come tutti gli altri, ma un libro divino-umano, vi si troveranno sensi (e quindi regole d’interpretazione) strettamente suoi particolari, oltre a quelli comuni agli altri libri (p. 177).

 

Non solo, ma bisogna tener conto sia del senso (quel determinato concetto che l’autore intende esprimere con le sue parole) sia il significato (il concetto inerente alle singole parole oggettivamente, indipendentemente dall’intenzione soggettiva dell’autore) di ciò che si vuole sottoporre alla interpretazione (cfr. p. 177). Questo è molto importante, dal momento che la Bibbia, in quanto Parola di Dio, è rivolta all’uomo ed esige di essere interpretata, spiegata – ossia togliere le pieghe facendo emergere ciò che si nasconde sotto, ma senza rimuovere i segni delle pieghe.

Precisazione doverosa: per «Parola di Dio» non bisogna intendere solo la Bibbia, ma anche la Tradizione divino apostolica – quest’ultima godrebbe di precedenza, considerata non dal punto di vista consecutivo ma dal punto di vista costitutivo –, poiché sia l’una che l’altra costituiscono le due fonti della Rivelazione divina, come riporta la Costituzione dogmatica su «La divina rivelazione» (Dei Verbum):

 

La Sacra Tradizione dunque e la Sacra Scrittura sono strettamente tra loro congiunte e comunicanti. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo una cosa sola e tendono allo stesso fine. Infatti la Sacra Scrittura è parola di Dio in quanto scritta per ispirazione dello Spirito di Dio; la Sacra Tradizione poi trasmette integralmente la parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli Apostoli, ai loro successori [i vescovi], affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano; accade così che la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura. Perciò l’una e l’altra devono essere accettate con pari sentimento di pietà e rispetto (n. 9).

 

Questo numero della Dei Verbum è molto importante e non è possibile dimenticarlo. Tuttavia, per non appesantire quella che vuole essere una breve esposizione di ciò che riguarda l’ermeneutica biblica, si rimanda a tre encicliche fondamentali per lo studio biblico: Spiritus Paraclitus di Benedetto XV (1920); Providentissimus Deus di Leone XIII (1893); Divino afflante Spiritu di Pio XII (1943), oltre che alla Dei Verbum del Concilio Vaticano II.

 

In questa sede è necessario chiarire due punti:

1) a chi spetta ufficialmente il compito d’interpretare la Scrittura;

2) come si divide il trattato sull’ermeneutica biblica.

 

Per quanto riguarda il primo punto, ci viene in soccorso la Dei Verbum:

 

l’ufficio poi d’interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa è affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo. Il quale Magistero però non è superiore alla parola di Dio ma ad essa serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato da Dio. È chiaro dunque che la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti da non potere indipendentemente sussistere, e tutti insieme, secondo il proprio modo, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime (n. 10).

 

A questo punto sorge una domanda: cosa sarebbe il Magistero della Chiesa?

Nulla di cui preoccuparsi, men che mai accingersi alla ‘interpretazione personale o privata’ della Bibbia, poiché il Magistero è quell’ufficio esercitato dai Vescovi in comunione con il Romano Pontefice (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 85), dal momento che godono della pienezza del sacramento dell’Ordine e di conseguenza della pienezza del munus docendi («Chi ascolta voi ascolta me», come si legge in Lc 10,16). Il Magistero, ossia questo particolare ufficio dei successori degli Apostoli (i vescovi) in comunione con il Successore di Pietro (il Romano Pontefice), si esprime su ciò che riguarda la fede e la morale (fides et mores) e viene solitamente distinto in due forme di esercizio: ordinario e straordinario o solenne, ma che può essere anche non solenne, e allora si chiamerà Magistero ordinario universale.

Con la forma ordinaria, s’intende il modo normale di esercitare il munus docendi della Chiesa, dei successori degli Apostoli e di Pietro – dev’essere chiaro, poiché una battuta o una risata non può essere considerata Magistero… –, alla quale forma è richiesto l’ossequio da parte del fedele.

Con la forma straordinaria, s’intende sia quell’intervento o pronunciamento magisteriale da parte del Romano Pontefice, quando emana una definizione dogmatica ex cathedra, sia la definizione di un dogma da parte di un Concilio Ecumenico. Tale è il Magistero in forma straordinaria e solenne. Nel caso non fosse solenne, si avrebbe il Magistero ordinario universale, che non è altro un modo di esercizio del Magistero straordinario. Ciò che cambia è che in tal modo si indica la continuità ininterrotta nel proporre un dato insegnamento, per cui i vescovi in comunione col Papa, nonostante dispersi per il mondo, convergono sua una particolare dottrina da proporre al popolo di Dio. Alla forma straordinaria è richiesto l’assenso di fede.

Pertanto, l’interpretazione della Scrittura spetta al Magistero della Chiesa e non è affare privato (cfr. 2Pt 1,20).

Per quanto riguarda il secondo punto, bisogna considerare che l’ermeneutica biblica si divide in tre grandi parti, ognuna delle quali si divide in altre parti: la noematica (da νόημα = pensiero), ossia l’analisi dei vari sensi della Scrittura; l’euristica (da εὑρίσκειν = trovare), ossia l’insegnamento per trovare i sensi della Scrittura; la proforistica (da προφέρειν = proferire, enunziare), ossia il modo di esporre il senso così trovato e per l’uso della Chiesa (cfr. p. 177).

È il caso di rimandare l’esposizione sulla noematica al prossimo articolo, anche perché occorrerà trattare anche del senso letterale, così tanto poco considerato e/o compreso, mentre si tratta del senso più articolato, sia per quanto riguarda i termini utilizzati sia per l’intenzione dell’autore.

 

 

Gabriele Cianfrani


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