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sabato 23 dicembre 2023

IL PRESEPE E IL PASTORE

 


In questo clima natalizio, pieno di difficoltà e di avversità nei confronti della fede cristiana, il presepe (o presepio) è ancora presente. Non si tratta di cadere nel solito vittimismo, ma semplicemente di constatare alcune dinamiche estranee a ciò che dovrebbe essere rappresentato dal presepe. Procediamo per gradi.

Anzitutto pare importante soffermarsi sulla parola presepe, che nelle sue origini latine rimanda alla «mangiatoia», alla «stalla», alla «dimora», al «recinto» e/o anche al luogo in cui si verificavano cose non buone. Pertanto, se la parola presepe viene adoperata per indicare la famosa rappresentazione della Natività, la quale inizia per la prima volta con san Francesco d’Assisi (a Greccio nel 1223), non può da questo non scaturire una domanda fondamentale: quale sarebbe il senso del presepe? Non solo, in quanto vi sarebbe una seconda domanda, forse più importante della prima: per quale motivo il presepe rappresenta la Natività?

Le risposte sono – o dovrebbero essere – immediate: il senso del presepe è la professione di fede nei confronti della incarnazione del Verbo e il contesto della Natività rimanda alla vita divina che il Verbo, assumendo natura umana, ci ha concesso di partecipare per mezzo della Redenzione. Questo dovrebbe essere, in ultimo, il senso del Natale. Certo, poiché il fine del Natale è la Pasqua di passione, morte e resurrezione di Cristo. Occorre parlare di quella vita che Dio ci ha concesso, in quanto tutti, prima o poi, dovremo morire. E poi? O vi è la vita eterna o il nulla – ma il nulla è totalmente inesprimibile –, non ci sono altre vie, per cui non possiamo tergiversare sull’argomento. Insomma, mi pare di scorgere il senso del Natale, in maniera molto incisiva, nelle parole dell’orazione delle lodi del 22 dicembre:

O Dio, che nella venuta del tuo Figlio hai risollevato l’uomo dal dominio del peccato e della morte, concedi a noi, che professiamo la fede nella sua incarnazione, di partecipare alla sua vita immortale.

In questa orazione vi sono elementi sui quali si potrebbero svolgere approfondimenti quasi senza fine, per cui non è possibile neanche pensare di farlo in questo piccolo spazio. Tuttavia, è importante individuarli: venuta del Figlio; peccato; morte; professione di fede; incarnazione; partecipazione; vita immortale. Per quanto riguarda i motivi dell’Incarnazione, sia dalla prospettiva biblica sia da quella magisteriale, rimando al mio articolo risalente al 2022 (clicca qui).

Ciò su cui vorrei soffermarmi in questa sede riguarda il rapporto tra il Natale e la figura del Pastore – il riferimento è principalmente a Dio –, per poi procedere col riportare alcune dinamiche, verificatesi in questi giorni, totalmente avulse dalla visione cristiana. Tra i prossimi articoli ve ne sarà uno sulla data del 25 dicembre nella cristianità antica, in quanto ancora oggi, in molti libri, si afferma la presunta sostituzione da parte della Chiesa della festività pagana del Sol Invictus istituita da Aureliano nel 274 d.C. Ma non è così, lo dimostrano fonti della cristianità antica che puntualmente non vengono riportate.

La figura del pastore, oltre ad essere determinante nel mondo biblico, fu ed è una realtà di fatto. Già Abele divenne pastore di greggi (cfr. Gen 4,2)[1] e così Abramo (cfr. Gen 13,2) e il resto della discendenza. Ora, se da una parte il pastore deve condurre al sicuro il suo gregge, proteggerlo dai pericoli e dalle bestie feroci (cfr. 1 Sam 17,34-37), dall’altra si piega verso il suo gregge per sostenerlo per non lasciarlo perire (cfr. Gen 33,13-14). Bisogna ricordare che a quel tempo il bestiame era prezioso, soprattutto per il popolo di Israele, continuamente in cammino e avente come risorsa proprio il bestiame. Pertanto, se il gregge non poteva fare a meno del pastore, neanche quest’ultimo poteva fare a meno del suo gregge. Senza procedere con tantissimi altri esempi, emergono alcuni tratti caratteristi del rapporto tra il pastore e il suo gregge, primo fra tutti quel rapporto di conoscenza intima di entrambi, che non è possibile comprendere se ci si pone al di fuori di tale rapporto.

Piccolo ma importante dettaglio: chi vive nei paesi circondati da campagne, come chi scrive, ha la possibilità di notare ancora oggi questo rapporto che vi è tra pastore e gregge. Quando egli chiama le sue pecore, con un verso o con un fischio, le pecore lo riconoscono in mezzo a tanti altri versi e in mezzo a tanti altri fischi. Questo intimo rapporto di conoscenza vi è solo tra il pastore e il suo gregge, non al di fuori di tale «recinto», ossia non al di fuori di tale «presepe». Ed ecco che con il nostro presepe riconosciamo Colui che è il Pastore (cfr. Mi 5,1-3; Lc 15,3-7: 19,10; Mt 15,24; Eb 13,20-21), Colui che è venuto a donare quella vita eterna che non è altro che la partecipazione alla Sua vita divina. Il Pastore, Cristo, il Verbo incarnato è venuto per rigenerarci, mediante la Redenzione – in tal caso Cristo non solo è il Pastore ma anche la Vittima (cfr. Eb 9,11-14; Gv 10,11-18) –, per quella eredità incorruttibile che non finirà mai (cfr. 1Pt 1,4). Ma Cristo parla di ovile/recinto (cfr. Gv 10,16), nel quale dovranno rientrare tutte quelle pecore che ancora si trovano fuori, per avere così un solo gregge e un solo Pastore. Ecco il «presepe», ossia la rappresentazione di quella mangiatoia e di quel recinto che sono del Pastore che è venuto per condurre le Sue pecore verso la Vita. Ma le pecore devono mangiare, perché il viaggio è lungo, oltre ad aver bisogno di tante altre cose. Proprio per questo il Pastore ci ha lasciato i sacramenti e come cibo l’Eucaristia, ossia il Pastore stesso. A questo punto il presepe in quanto tale non può non rimandarci alla Chiesa.

Tutto questo non è estraneo a noi uomini, non può esserlo, dal momento che il Verbo (il Figlio) ha assunto «natura umana». Le azioni divine ci superano infinitamente, non riusciremo mai a comprenderle del tutto, ma si possono capire, sono intelligibili. Come potremmo rispondere alla voce del Pastore se la Sua voce ci risultasse estranea? Il problema non risiede nel Pastore, ma in quella parte del gregge che volontariamente si è allontanata e continua ad allontanarsi, ascoltando non più il Pastore ma la voce che si frappone tra il Pastore e il gregge. Da ciò ne consegue l’incomprensione più assoluta e la totale estraneità del Natale. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, o meglio, ascoltare.

Ora, in questi giorni il presepe e la festa del Natale hanno subìto delle violenze non indifferenti, che non è il caso di riportare interamente. Eliminare la festa del Natale per favorire una festa che non ha né testa né coda – alla faccia della coerenza! –, occorre dirlo, vuol dire non aver capito nulla del Natale. Inoltre, il fatto che si affermi che il Natale consista solo nella pace, nella gioia e serenità e altre cose di questo tipo, mi fa concludere che vi è quella riduzione alla pura orizzontalità della dimensione umana, con la perdita della verticalità, del piano divino e del motivo per il quale il Verbo si è incarnato. Per essere ancora più incisivi, spesse volte nel Natale si perde di vista l’incarnazione del Verbo, con la conseguenza dell’annullamento implicito del Natale. Non a caso oggi si parla della difesa dei valori cristiani dal punto di vista «culturale». Va bene, ma il soggetto che fa cultura è l’uomo, per cui la difesa della sola dimensione culturale, per quanto sia apprezzabile, implica il velato disgregamento di ciò che si vuole difendere. Tutto questo rimanda alla distinzione, oggi ormai persa, tra l’essere e l’agire, tra la speculazione e la pratica, tra il piano verticale e il piano orizzontale, che sarà oggetto di un prossimo articolo.

Per concludere, la violenza sul presepe rimanda quella sorta inclusivismo cieco – attenzione, non si tratta di inclusione, il limite è sottile! – che comporta in maniera paradossale l’esclusivismo. Mi spiego. Aggiungere elementi estranei alla rappresentazione della Natività vuol dire intaccare, ancor prima del piano divino, il piano della natura umana. Propendere per l’inclusivismo cieco, come oggi accade spesso, vuol dire condurre l’uomo verso la dissoluzione della sua stessa natura, con perdita della sua identità. Ma è proprio questo il punto! Non ci può essere azione/grazia divina sull’uomo se non vi è la natura umana che può accoglierla. Dove agirebbe l’azione/grazia divina? I sacerdoti dovrebbero ricordare che gratia supponit naturam (la grazia suppone la natura), non la distrugge, ma la eleva e la porta verso il suo compimento. La vera inclusione, se si vuole parlare di ciò, risiede nella stessa incarnazione del Verbo, il quale ha scelto di incarnarsi in quel particolare contesto, con la Beata Vergine Maria e san Giuseppe.

Per cortesia, non nascondiamoci dietro quella ‘pastorale’ di cui si parla tanto, ma che alla fine risulta totalmente anonima. E l’anonimato deriva dal fatto che sul Verbo incarnato se ne parla in maniera disincarnata. Forse sarò un po' spietato e mi dispiacerebbe se qualcuno si offendesse, ma non confondiamo la «pastorale» con la «pastorizia».

Santo Natale  

 

Gabriele Cianfrani



[1] Per quanto riguarda le abbreviazioni bibliche presenti in questo articolo: Gen = Genesi; 1Sam = Primo libro di Samuele; Mi = Michea; Mt = Vangelo secondo Matteo; Lc = Vangelo secondo Luca; Gv = Vangelo secondo Giovanni; Eb = Lettera agli Ebrei; 1Pt = Prima lettera di Pietro. 


 


venerdì 8 dicembre 2023

NESSUNO METTE DEL VINO NUOVO IN OTRI VECCHI: L'IMMACOLATA CONCEZIONE


 

Quella dell’8 dicembre, dal 1854, risulta essere la solennità della Immacolata concezione della Beata Vergine Maria. Per quale motivo dal 1854? Perché l’8 dicembre 1854 Papa Pio IX proclamò tale dogma con la bolla Ineffabilis Deus (per leggerla interamente cliccare qui). I dogmi mariani sono complessivamente quattro: Maternità divina (431 d.C.); verginità perpetua (553 d.C.); immacolata concezione (1854); assunzione in Cielo in anima e corpo (1950).

Fin da ora è necessario precisare che trattare del concepimento immacolato di Maria è cosa che richiede troppo spazio, per cui non sarà possibile raggiungere quella esaustività richiesta da un tema di questa portata, ma qualche dato è possibile riportarlo. Tuttavia, se si volesse andare nel dettaglio, sarebbe necessaria almeno un’infarinatura riguardante lo stato dei progenitori prima della colpa d’origine, la stessa colpa o peccato d’origine (cos’è, come si trasmette, cosa comporta, quale rimedio sacramentale ecc.), la costituzione della natura umana, alcuni argomenti riguardanti la natura e la grazia e tante altre cose. Inoltre, è bene sapere che in passato vi sono state alcune disquisizioni teologiche che non sempre hanno condotto ad affermare il concepimento immacolato di Maria, pur mantenendo quella grande venerazione nei suoi confronti, comune a tutti i grandi teologi. Non solo, ma per quanto riguarda tali disquisizioni è stato osservato che andrebbe posta la distinzione tra conceptio e animatio e la stessa animazione intellettiva durante il Medioevo, ma questo rimanda ad un altro momento (per chi vuole leggere qualcosa sulla creazione dell’anima e in particolar modo secondo san Tommaso d’Aquino, riporto un mio lavoro al quale è possibile collegarsi cliccando qui).

Prima di procedere è importante sapere che gli ultimi due dogmi mariani sono stati proclamati considerando la duplice infallibilità magisteriale, che si divide in infallibilitas in credendo e infallibilitas in docendo: la prima (in credendo) riguarda la totalità dei fedeli (universitas fidelium: indica la Chiesa nel suo insieme, non la somma aritmetica di ogni singolo membro) «non può sbagliarsi nel credere – in credendo falli nequit» (Lumen gentium, n. 12); la seconda (in docendo) è la funzione magisteriale, affidata ai soli Pastori, che garantisca la certezza del credere, in materia di fede e morale. In tal caso il riferimento è soprattutto alla infallibilità in credendo, che si radica in quel sensus fidei che riguarda tutto il popolo di Dio, ecclesiastici e laici. In poche parole riguarda tutta la Chiesa.

A questo punto sarebbe necessario parlare di un aspetto che ultimamente, anche da parte dei cattolici, è poco compreso: la Rivelazione, ossia la Parola di Dio. Sembra strano, ma non lo è. Spesse volte si considera ‘solo’ la Sacra Scrittura come Parola di Dio, lasciando nell’oblio l’altra fonte imprescindibile, ossia la Sacra Tradizione (cfr. Lc 1,1-4; Gv 21,24-25; 2Pt 3,15-16). È un errore grossolano – oggi più o meno comprensibile –, per il semplice motivo che la Rivelazione in quanto Parola di Dio scaturisce e dalla Sacra Scrittura e dalla Sacra Tradizione, senza considerare che la Sacra Tradizione appare sia in senso ampio (per iscritto) sia in senso stretto (oralmente). La domanda sarebbe la seguente: cos’è la Sacra Tradizione? Questa domanda sarà alla base del prossimo articolo, nel quale sarà trattato il rapporto tra Sacra Scrittura e Sacra Tradizione.

Ora, il dogma dell’Immacolata concezione esprime che la Beata Vergine fu esente dalla macchia del peccato d’origine, ossia non ereditò il peccato d’origine, non per suo merito creaturale ma per l’applicazione preventiva dei meriti redentivi di Cristo, cioè preservata dalla colpa d’origine in virtù dei meriti redentivi di Cristo. Possibile obiezione: dove sta scritto? Non è vero che san Paolo ha detto che tutti hanno peccato (cfr. Rm 3,23) e che tutti, per somiglianza col peccato di Adamo, sono colpiti dalla morte e che necessitano della redenzione (cfr. Rm 5,12-14; 1Cor 15,22)? Certo, san Paolo ha riportato in maniera straordinaria quella che è riconosciuta come la dottrina del peccato d’origine e le sue conseguenze, perciò ha espresso tutto con quella finezza che gli era propria. Infatti, ciò non viene neanche minimamente scalfito con il dogma della Immacolata concezione, anzi, tale dogma avvalora il tutto. Senza riprendere il passo del Protovangelo (Gen 3,15), che permane nella sua importanza e che consta del duplice senso letterale proprio ed improprio, oltre ad altri luoghi veterotestamentari, si ritiene necessario soffermarsi su due luoghi sui quali riflettere: Lc 1,28; Lc 1,41-45.

Il primo riferimento è al verso di Lc 1,28, ossia a quel «piena di grazia» (gratia plena), che risulta essere un caso unico in tutta la Scrittura. Pertanto, occorre chiedersi cosa sia la «grazia» e come questa agisca sulla natura umana, se si vogliono comprendere quelle parole. La grazia è di per sé quel dono soprannaturale di Dio che consente alla creatura umana di partecipare della natura divina (cfr. Tt 3,7; 2Pt 1,4) e che comporta un vero e proprio rinnovamento dell’uomo (cfr. Concilio di Trento, Decreto sulla giustificazione, capitolo VII). Tale grazia che agisce sul piano ontologico è stata chiamata gratia gratum faciens o grazia santificante o grazia abituale. Si tratta di quella grazia che rende graditi a Dio in seguito al rinnovamento della creatura umana e che comporta la vera adozione divina (cfr. Gal 3,5). A questo punto san Tommaso d’Aquino direbbe che l’adozione divina è diversa da quella umana, in quanto solitamente l’uomo adotta ciò che gli è già gradito ed è già idoneo, mentre Dio, adottandoci divinamente, ci rende graditi a Lui e ci partecipa la sua beatitudine (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III, q. 23, a. 1). Pertanto, la grazia divina agisce primariamente sul piano ontologico, rinnovando interamente la creatura e rendendo la medesima partecipe della divina natura. Ma cosa sarebbe la grazia, in ultimo, se non Dio stesso? Quale sarebbe il suo rapporto con l’uomo? Sarebbe una sorta di panteismo o di emanatismo? Assolutamente no, dal momento che Dio è assolutamente semplice e tutto ciò che si manifesta al di fuori di Dio è «creato». Pertanto, nonostante l’autore della grazia sia Dio e in ultimo la medesima coincide con Dio, dal momento che viene ricevuta dalla creatura risulta essere creata. Ovviamente la partecipazione della natura divina supera infinitamente la partecipazione dell’essere, per cui bisogna ponderare bene le parole e soprattutto capire che ciò, spesse volte, supera la stessa capacità umana di comprensione.

Ora, dal momento che la grazia non può coabitare col peccato, e nel grembo di Maria ha assunto natura umana l’Autore della grazia, come poteva essere possibile la coabitazione di Dio e del peccato (d’origine)? Si ricordi che Dio è Trinità e che in tal caso la natura umana è stata assunta dalla Seconda Persona della Trinità (il Figlio). Ma se la colpa del peccato d’origine viene rimossa con la grazia santificante (conferita inizialmente col Battesimo) e l’angelo Gabriele saluta Maria come «piena di grazia», vuol dire che ella era già piena di Dio, ossia l’angelo non trova in lei neanche l’ombra del peccato, altrimenti non l’avrebbe salutata come «piena di grazia». A questo punto sorge un’altra domanda: come si manifesta la grazia? La riposta a tale domanda richiederebbe uno spazio notevole, ma bisogna sapere che la grazia è di per sé gratuita e in chiave biblica comprende anche l’aspetto della elezione, della scelta da parte di Dio, non per i meriti umani ma per la ricchezza della bontà divina (cfr. Dt 4,37; 7,7-8). A questo punto appare chiaro che Maria è «piena di grazia» per quei singolari meriti redentivi di Cristo – anche Maria è stata redenta, per cui non vale l’obiezione sopra riportata –, applicati ad ella preventivamente (Pio XI, Bolla Ineffabilis Deus; Concilio Vaticano II, Lumen gentium, 53), senza contare il dialogo tra Maria e l’angelo Gabriele.

Per quanto riguarda il secondo passo, Lc 1,41-45, vi sono due verità: Maria in quanto Madre del Signore e Maria in quanto dispensatrice delle grazie. Evidentemente Elisabetta saluta Maria quale madre del suo Signore, ma tale saluto segue un fatto ben preciso: la voce di Maria fa sussultare il figlio di Elisabetta che in quel momento si trovava nel suo grembo (Giovanni il Battista). Il tempo si ferma: da una parte la madre del Signore e la madre del precursore, dall’altra Cristo e Giovanni il Battista nel grembo delle relative madri. L’Autore della grazia, per mezzo della voce di Maria, raggiunge colui che sarà il suo precursore per mezzo della madre. Ed ecco che colei che era già piena di grazia porta nel suo grembo l’Autore della grazia, dal momento che ha trovato in lei quel tabernacolo che poteva permetterGli di porre la Sua tenda in mezzo a noi (cfr. Gv 1,14). Mi pare che tutto ciò emerga dai testi stessi.

Nonostante l’argomento meriterebbe di essere trattato in tutta la sua ampiezza – non è facile! –, il dogma dell’Immacolata concezione non lede quanto si legge nei passi paolini sopra riportati, dal momento che la redenzione è stata universale e anche Maria è stata redenta, ma preventivamente, come risulta dai passi lucani.

Per concludere, al di là delle ricerche teologiche, proprio colui che nutre grande odio verso la Beata Vergine affermò il suo concepimento immacolato. Nel 1823 i due domenicani P. Cassetti e P. Pignatura, dopo aver constatato la possessione diabolica di un ragazzo undicenne analfabeta dell’attuale Ariano Irpino, e dopo aver ricevuto il permesso di esorcizzarlo da parte del Vescovo, procedettero con l’esorcismo. Tuttavia, dal momento che a quel tempo si discuteva molto del concepimento immacolato di Maria – si ricordi che il dogma fu proclamato nel 1854 e nel 1858 la Beata Vergine a Lourdes lo confermò, e sulle mariofanie di Lourdes ci sarebbe tanto da dire –, i due domenicani richiesero al demonio una cosa strana, ossia di esprimersi sul concepimento immacolato di Maria mediante un sonetto con caratteristiche ben precise. Impossibile per un ragazzino analfabeta, ma forse anche qualcun altro. Bisogna sapere che l’angelo caduto non pronuncia i nomi di Gesù e di Maria e non lo fece neanche quella volta, ma ciò che venne fuori, anche se pronunciato dal demonio per bocca del ragazzino, ha il suo fascino. Attenzione: non bisogna prestare ascolto a tante cose che girano oggi, né a presunte catechesi da parte dell’angelo caduto né ad altre corbellerie, si cadrebbe nel tranello di colui ha l’intelletto deturpato, sì, ma comunque superiore all’intelletto umano. Il caso in questione fu un’eccezione e fu riconosciuto da chi era del mestiere. Pertanto, ecco il sonetto, anche se qualcuno avanza dei dubbi, ma senza fornire spiegazioni:

Vera madre son io d’un Dio ch’è Figlio

e son figlia di Lui benché sua Madre.

Ab aeterno nacqu’Egli ed è mio Figlio.

Nel tempo io nacqui e pur gli son Madre.

 

Egli è mio Creator ed è mio Figlio,

son io sua creatura e gli son Madre.

Fu prodigio divin l’esser mio Figlio

un Dio eterno e me aver per Madre.

 

L’esser quasi è comun tra Madre e Figlio,

perché l’esser dal Figlio ebbe la Madre

e l’esser dalla Madre ebbe anche il Figlio.

 

Or, se l’esser dal Figlio ebbe la Madre

o s’ha da dir che fu macchiato il Figlio

o senza macchia s’ha da dir la Madre.[1]

 

Pertanto, nessuno mette il vino nuovo in otri vecchi, men che mai Colui che è il Pane di Vita.



 

Gabriele Cianfrani



[1] Il testo l’ho preso da F. Bamonte, La Vergine Maria e il diavolo negli esorcismi, Paoline Editoriale Libri, Milano 20105, pp. 37-38.


giovedì 31 agosto 2023

RECENSIONE DEL LIBRO "L'ADESIONE DIABOLICA. UNA SFIDA ANTICA FRA DANNAZIONE E SALVEZZA" DEL PROF. ALBERTO CASTALDINI


 

Alberto Castaldini, L’adesione diabolica. Una sfida antica fra dannazione e salvezza, Sugarco Edizioni, Milano 2023

Recensione a cura di Gabriele Cianfrani

 

Il libro che ho il piacere di recensire, dedicato al grande esorcista e Servo di Dio P. Candido Amantini (1914-1992), è “L’adesione diabolica. Una sfida antica fra dannazione e salvezza” del Prof. Alberto Castaldini[1], che conosco personalmente e al quale va la mia stima e la mia gratitudine per un lavoro come questo. Sì, perché il Prof. Castaldini pone in luce alcuni aspetti antropologici – e non solo – di grande importanza, chiamati in causa a fronteggiare quell’azione diabolica nei confronti della quale, purtroppo ma molto spesso, si finisce per assecondarla, o meglio, per «aderirvi». Questo aspetto risulta centrale e lo si capisce già dal primo capitolo: La libertà spezzata. È proprio dalla libertà, che viene talmente piegata da «spezzarsi», che tutto ha inizio.

È importante, soprattutto per lo smarrimento odierno su temi come quello trattato dal Prof. Castaldini, dato che quando si parla del Maligno il riferimento non è ad una realtà impersonale, ma certamente personale, dal momento che il Maligno è un angelo caduto e come tutti gli angeli (buoni e cattivi) è una «persona»: omne subsistens in natura rationali vel intellectuali est persona (Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, IV, c. 35). Ciò emerge chiaramente sia dalla prefazione di don Silvio Zonin (esorcista della diocesi di Verona) sia dall’introduzione dell’Autore.

Ora, la libertà dell’uomo, che come facoltà spirituale rientra nella sua costituzione ontologica, conobbe il primo ostacolo con i progenitori Adamo ed Eva. Senza svolgere particolari approfondimenti, è possibile notare che alla domanda del serpente (cfr. Gen 3,1) la donna risponde inserendo il «non toccare» (cfr. Gen 3,3), ossia inserisce del suo al divieto divino, acconsentendo al serpente, per poi ritrovarsi con la libertà piegata, o meglio, spezzata. Tale stato poteva essere sanato soltanto dal rinnovamento della creazione in Cristo, come risulta dall’epilogo del libro (Per una creazione rinnovata in Cristo), che concede la partecipazione alla natura divina (cfr. 2Pt 1,4) per mezzo della gratia gratum faciens conferita sacramentalmente, a partire dal sacramento del Battesimo (cfr. Gal 3,27).

Passando in rassegna alcuni punti, il Prof. Castaldini pone in evidenza il fatto che l’«adesione» diabolica, per essere tale, non può non coinvolgere l’intelletto e la volontà. Infatti, nel primo capitolo egli scrive: «[…] in cui la tentazione viene perfezionata dalla volontà umana in iniziative che penetrano e si radicano nel vissuto concreto, quotidiano, abituale, proprio e altrui» (p. 36). In questo passo emerge un aspetto molto importante, ossia che la tentazione del Maligno non si pone in maniera totalmente estranea all’essere umano, altrimenti non vi sarebbe adesione alcuna, ma si radica nel vissuto, e se si radica nel vissuto vuol dire che si radica in ciò che la volontà umana cerca per sua natura: il bene. Infatti, se l’oggetto della volontà è il bene conosciuto, ossia il bene presentato come tale dall’intelletto, la volontà è disposta naturalmente ad aderirvi. Ma se questo bene venisse falsamente presentato come tale, ossia un male sotto le sembianze di bene, allora occorrerebbe una seria valutazione che chiami in causa l’agire morale, incluso il dinamismo delle virtù, che implica sia la potenza dell’intelletto sia quella della volontà. Ciò permette che un bene sia conosciuto e riconosciuto come tale. Tuttavia, come ben scrive l’Autore, spesse volte nel cooperatore di iniquità si confonde ogni criterio di discernimento. Ed ecco che dal punto di vista psichico e morale, la fragilità umana – spesse volte evocata come una vera e propria scusa… – non esonera l’uomo dal suo agire morale. Se è vero, come è vero, che agere sequitur esse, all’«adesione» diabolica segue un vero e proprio «assoggettamento», dal momento che viene coartato il vero agire libero dell’uomo, per cedere il passo alla negazione della libertà umana, ergo alla negazione dell’essere: «[…] poiché il diavolo, ribellandosi, negò l’essere, e con esso sconvolse l’armonia della creazione oltre a negare Dio, se stesso e gli uomini» (p. 40). Ora, tra i vari aspetti che il Prof. Castaldini evidenzia, ve ne sono alcuni e tutti di estrema importanza: la deformazione della intelligenza dei demòni, pur conservando quella volontà che continuamente aderisce al male (cfr. pp. 41-42); la falsa mistica come ricerca irrequieta che vuole trasformare l’uomo, cercando di elevarlo in modo illusorio decretando la sua rovina, facendo a meno di Dio (cfr. p. 49); l’adesione alle tenebre che giunge al cuore della questione antropologica situandosi nel nucleo ontologico dell’uomo (cfr. p.52); l’immaginazione creatrice che si riscontra nel mondo dell’occulto e che tende ad una vera e propria autodivinizzazione, subordinando a ciò anche la Rivelazione divina (cfr. 60-61) ed altri. Tra i vari aspetti ritengo particolarmente importante soffermare l’attenzione su quello relativo alla «soggezione/assoggettamento» conseguente alla «adesione». Lungi dal voler presentare il male come una sorta di algoritmo senza volto, come tante volte capita di constatare nell’epoca odierna, che ha quasi perso il concetto del volto (cfr. p. 121) e di conseguenza dell’identità, ergo della personalità, non vi sarebbe adesione diabolica se mancassero gli atteggiamenti attivo e cooperante, ossia volontario (cfr. p. 82). Cosa comporterebbe l’adesione alla proposta del Maligno? Non solo ciò che si definisce «peccato», ma un progressivo deterioramento ontologico. Certamente, non si mette in discussione l’immortalità dell’anima intellettiva, ossia l’anima umana – ovvio! –, ma certamente l’uomo, considerato nella sua totalità di anima e corpo, nonostante sia chiamato da Dio alla perfezione eterna, può incorrere nella più grande imperfezione, ossia la dannazione eterna. Se Dio è l’Essere per sé sussistente che partecipa l’essere alle creature, e l’essere come atto è la perfezione di tutte le perfezioni, l’incontro eterno con Dio comporta il compimento della perfezione umana, e sul piano soprannaturale comporta la piena partecipazione alla Bontà divina – già la grazia santificante agisce soprannaturalmente sul piano ontologico. Non solo, ma sia l’intelletto umano sia la volontà umana troveranno in Dio il pieno appagamento, Colui che solo può appagare in pienezza l’essere umano, essendo Egli somma Verità e somma Bontà. Tutto ciò corrisponde ad una vera e propria perfezione ontologica della creatura umana.

Al contrario, l’adesione diabolica, che non può non includere il moto della volontà verso l’oggetto diabolicamente presentato, mira a condurre ad una vera e propria dipendenza morale dal demonio, tale da provare una sorta di gusto del peccato (cfr. p. 80). Ciò si riscontra nell’opposizione tra «virtù» e «vizi». Ed ecco che l’agire morale, in quanto tale, non può prescindere né dall’intelletto né dalla volontà, infatti, l’Apostolo dice: […] lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto (Rm 12,2). Si noti l’ordine adoperato dall’Apostolo: pensiero – volontà. Il discernimento avviene sul piano intellettivo e successivamente subentra quello volitivo. Ma come l’intelletto presenta alla volontà il suo oggetto, così la stessa volontà muove l’intelletto e le due facoltà s’incontrano sul campo della libertà. Come riporta il Catechismo della Chiesa Cattolica: la libertà è il potere, radicato nella ragione e nella volontà, di agire o di non agire, di fare questo o quello, di porre così da se stessi azioni deliberate. Grazie al libero arbitrio ciascuno dispone di sé. La libertà è nell’uomo una forza di crescita e di maturazione nella verità e nella bontà. La libertà raggiunge la sua perfezione quando è ordinata a Dio, nostra beatitudine (n. 1731).

Nell’«adesione» diabolica è proprio la libertà ad essere coartata, impedendo alla creatura umana di raggiungere la sua perfezione in Dio, sfociando in quell’assoggettamento che non è altro che il risultato di un’adesione continua, scegliendo di partecipare al mysterium iniquitatis, e ciò volontariamente, fino a subire una certa conformazione a quest’ultimo.

Quale sarebbe il punto di partenza? Il Prof. Castaldini parla di stupidità metafisica (p. 65) nel rifiuto della propria creaturalità e di conseguenza nel rifiuto del progetto divino. È tutto concatenato, dacché Dio ha creato l’uomo per un progetto soprannaturale e l’uomo «aderisce» a tale progetto accettando, anzitutto, la propria creaturalità.

Oggi più che mai è necessario il ritorno ad una sana metafisica, anzitutto di stampo tomista, anziché chiudersi in quell’antropocentrismo falsamente presentato come bene per l’uomo, ma che in realtà continua imperterrito nell’estromissione di Dio dalla storia dell’uomo.

Ora, il rifiuto di Dio comporta il rifiuto della somma Bontà conseguente al rifiuto della propria creaturalità, nella convinzione di poter fare a meno, ontologicamente, di Colui che è (Es 3,14). Un rifiuto del genere implica la tendenza al non essere, nella negazione dell’essere, e non a caso il Maligno è colui che nega soprattutto ciò che il Creatore ha elargito sin dal principio: l’essere. La negazione dell’essere equivale alla negazione non solo di se stessi ma anche di Dio, con la differenza che Dio non può essere negato e non corre il rischio della dannazione, l’uomo sì, dacché con l’«adesione» diabolica si assoggetta a colui che è irreversibilmente dannato e che tende a negare anche se stesso pur di negare Dio Creatore. E in tal caso la conformazione al mysterium iniquitatis diventa così grande da propendere, addirittura, per la contraddizione, estranea persino a Dio. Ma il Verbo incarnato ha mostrato anche questo, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori (Lc 2,35). Ancora una volta la Beata Vergine, inseparabile dal Figlio eterno del Padre e sempre piena dello Spirito Santo, è il modello perfetto della perfezione umana corrisposta al progetto di Dio.

Un ringraziamento al Prof. Castaldini per aver messo in luce, nel suo libro, quello che a questo punto sembra essere l’aspetto più importante: la dipendenza ontologica e antropologica dell’uomo da Colui che è l’Essere per sé sussistente e sommamente Persona, offuscate dall’azione del Maligno, ma che dal riconoscimento di tale dipendenza creaturale dipende la salvezza o la dannazione.



[1] Laureato in Giurisprudenza e dottore di ricerca in Filosofia, è docente universitario, membro associato della Facoltà di Teologia Greco-Cattolica dell’Università Babeş-Bolyai di Cluj, in Transilvania, dove insegna filosofia e teologia della storia. Dal 2006 al 2010 ha diretto l’Istituto Italiano di Cultura di Bucarest e ha ricoperto l’incarico di addetto culturale dell’Ambasciata d’Italia in Romania. Collabora come esperto con l’Associazione Internazionale Esorcisti (AIE).


sabato 6 maggio 2023

TUTTO E' STATO FATTO PER MEZZO DI LUI


 

Nelle librerie e su Internet è disponibile il mio libro pubblicato pochi giorni fa dalla Tau Editrice: 

Tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Discorso sulla fede e sulla realtà (2023).

 

Dalla quarta di copertina:

Il lavoro si presenta come la riflessione dell’autore su alcuni temi riguardanti il percorso di vita cristiano. Il tutto prende spunto da due passi della Scrittura: «tutto è stato fatto per mezzo di lui» (Gv 1,3) e «[…] pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15). Pertanto, lo scopo è quello della testimonianza riflessiva circa alcuni contenuti della fede cristiana (cattolica), in modo che vi siano confronti tematici, cercando di porre in evidenza la linea del Magistero della Chiesa ed esprimendo che il senso ultimo si trova nel Verbo di Dio.


Estratto dalla prefazione del Prof. Carmelo Pandolfi:

Di ou tà pánta egéneto – per quem omnia facta sunt canta il Simbolo ripetendo il Prologo di Giovanni. Gabriele Cianfrani – lo sappiamo – sente visceralmente la densità del Lógos, tanto che sta pensando ad uno studio sulla convergenza tra lógos ed esse (tomista). 

Ma qui il lavoro non scende a tali profondità e si mantiene al livello di quella che, una volta, si chiamava Apologetica.

Non c'è dubbio che una apologetica razionalistica, elencatica e difensiva abbia in certa misura fallito. È anche vero che la reazione – la mancanza di Apologetica – ha fallito anche essa, perché ha prodotto un banale «volemose bene», offensivo del Bene stesso.

La soluzione sta dentro il mistero stesso del Lógos che è Gesù Cristo, nel senso che la dogmatica stessa è apologetica. La bellezza del dogma si difende da se stessa e va solo mostrata, come numero primo inderivato e autoconvincente. Come l’originalità assoluta di quel brano, quello lì, di Mozart. Così ha insegnato, e praticato lungo tutta la sua «Gloria», la teologia più bella e insieme colta fra i Moderni: quella di Balthasar.


P.S. Chiederei, a chi decidesse di acquistarlo, di contattarmi - anche tramite l'indirizzo email che si trova a pagina 316 -, dal momento che è in corso l'elaborazione dell'Errata Corrige in riferimento alle pagine 66 e 67, in modo da poterla inviare tramite email.


lunedì 19 dicembre 2022

ET VERBUM CARO FACTUM EST, ET HABITAVIT IN NOBIS

 


Così si legge nel Vangelo secondo Giovanni (1,14), ossia che «il Verbo si fece carne/carne si fece, e venne ad abitare in noi», proprio quel Verbo, quel Lógos per mezzo del quale tutto fu fatto e senza di lui non fu fatto nulla di ciò che è stato fatto (1,3). Alcuni studi evidenziano che sarebbe meglio propendere per un’altra traduzione: «e il Lógos carne si fece e si accampò/si attendò fra noi» (Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν), e ciò con evidenti riferimenti alla «tenda» (σκηνή, skēné) di Es 33,7-11:

Mosè ad ogni tappa prendeva la tenda e la piantava fuori dell’accampamento, lontano dall’accampamento, e l’aveva chiamata tenda del convegno. Chiunque ricercava il Signore usciva verso la tenda del convegno, che era fuori dell’accampamento. Quando Mosè usciva verso la tenda, tutto il popolo si alzava e ognuno stava all’entrata della propria tenda e seguiva Mosè con lo sguardo finché entrava nella tenda. Quando Mosè entrava nella tenda, la colonna di nube scendeva e stava all’ingresso della tenda; ed Egli parlava a Mosè. Tutto il popolo vedeva la colonna di nube che stava all’entrata della tenda: tutto il popolo si alzava e ognuno si prostrava all’ingresso della propria tenda. Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con il suo vicino: poi tornava all’accampamento.

Il richiamo al passo biblico sopra riportato è di estrema importanza, dal momento che la «tenda» indicava la presenza di Dio, o meglio, la dimora di Dio in mezzo al popolo d’Israele nel deserto (cfr. anche Es 25-26). La colonna di nube è una chiara allusione alla presenza di Dio in quel momento, e non a caso il riferimento alla potenza dell’Altissimo che coprirà con la sua ombra la Beata Vergine si riscontra nell’annuncio dell’angelo celeste. L’autore del quarto Vangelo conosceva benissimo la Scrittura (a quel tempo la Legge e Profeti)[1], per cui bisogna considerare sempre questo dato. Infatti, se a quel tempo la dimora di Dio presso il popolo d’Israele era rappresentata dalla «tenda del convegno», con l’incarnazione del Lógos il salto è enorme: Dio è ormai presente in mezzo al suo popolo stabilmente, dal momento che ha assunto natura umana, ossia carne si fece.[2] Ciò è collegato, ovviamente, con il sacrificio sulla croce, che è lo scopo della venuta della seconda Persona della Santissima Trinità. Al riguardo, risulta particolarmente importante quanto è riportato nel Catechismo della Chiesa Cattolica, ossia il motivo dell’incarnazione del Verbo:

n. 456: con il Credo niceno-costantinopolitano rispondiamo confessando: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo»;

n. 457: il Verbo si è fatto carne per salvarci riconciliandoci con Dio: è Dio «che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10). «Il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo» (1Gv 4,14). «Egli è apparso per togliere i peccati» (1Gv 3,5);

n. 458: il Verbo si è fatto carne perché noi così conoscessimo l’amore di Dio: «In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita per lui» (1Gv 4,9). «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16);

n. 459: il Verbo si è fatto carne per essere nostro modello di santità: «Prendete il mio giogo su di voi e imparate da me…» (Mt 11,29). «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). E il Padre, sul monte della trasfigurazione, comanda: «Ascoltatelo» (Mc 9,7). In realtà, egli è il modello delle beatitudini e la norma della Legge nuova: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 15,12). Questo amore implica l’effettiva offerta di se stessi alla sua sequela;

n. 460: il Verbo si è fatto carne perché diventassimo «partecipi della natura divina» (2Pt 1,4): «Infatti, questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, Figlio dell’uomo: perché l’uomo, entrando in comunione con Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio»[3]; «Infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio»[4]; «Unigenitus […] Dei Filius, Suae divinitatis volens nos esse participes, naturam nostram assumpsit, ut homines deos faceret factus homo – L’unigenito […] Figlio di Dio, volendo che noi fossimo partecipi della sua divinità, assunse la nostra natura, affinché, fatto uomo, facesse gli uomini dei».[5]

Questi sono, in breve, i motivi che rispondono alla domanda: perché il Verbo si è fatto carne?

Ora, è chiaro che il riferimento principale è quello circa la salvezza degli uomini nella riconciliazione con Dio, ma la partecipazione alla natura divina, che meriterebbe di essere trattata in altra sede, ha la sua «fondamentale» importanza. Tuttavia, oltre ai peccati in genere, la questione che non può essere persa di vista è quella della colpa di origine, ossia del peccato originale. Infatti, intaccare la rivelazione sul peccato originale vuol dire attentare al mistero di Cristo.[6]

La conseguenza estrema del peccato originale – vi sarebbe da esporre in che modo l’uomo fu creato e in quale stato, per capire pienamente – è stata la «morte»:

Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità e lo ha fatto a immagine della propria natura; ma per invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza quanti sono del suo numero (Sap 2,23-24).

Non bisogna incorrere nell’errore di una sorta di immortalità naturale, poiché l’uomo, come ogni essere vivente sottoposto al movimento (generazione-corruzione) è mortale. L’immortalità – e ciò che ne sarebbe scaturito – era conferita nello stato di grazia da Dio stesso[7], il quale stato consentiva la perfetta armonia tra l’anima e il corpo (giustizia originale). Con la colpa d’origine questa armonia venne meno e la conseguenza più dura fu l’esperienza della morte, non solo fisica. Ora, per non andare nel sottile, sono chiare le parole di Cristo in riferimento alla morte e cosa questa abbia a che fare con la sua venuta:

Le dice Gesù: «Tuo fratello risorgerà». Gli risponde Marta: «So che risorgerà nella risurrezione all’ultimo giorno». Le disse Gesù: «Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se morisse, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai. Credi tu a ciò?». Gli dice: «Sì, Signore. Io ho creduto che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, quello che deve venire nel mondo» (Gv 11,23-27).

Il contesto è quello della risurrezione di Lazzaro. Ebbene, in ultimo, Cristo è venuto per ristabilire quella vita che è la piena comunione con Dio, l’accesso alla patria celeste, perso anzitutto col peccato d’origine e concesso nuovamente da Cristo stesso per mezzo del suo sacrificio. Al riguardo, è certamente illuminante quanto riportato nel Catechismo Romano (Tridentino):

n. 48: in realtà se tutti gli uomini muoiono nel primo [Adamo], tutti sono richiamati a vita nel secondo [Cristo]. E come Adamo è stato il padre del genere umano nell’ordine di natura, così Gesù Cristo è per tutti l’autore della grazia e della gloria (Rom. V,14). Parimente si può stabilire un’analogia fra la Vergine Madre, seconda Eva, e la prima […]. Avendo creduto alle lusinghe del serpente (Gen. III,6), Eva attirò sul genere umano la maledizione e la morte; avendo Maria creduto all’annuncio dell’angelo, fece sì che la bontà di Dio ridonasse agli uomini benedizione e vita. A causa di Eva nasciamo figli della collera (Efes. II,3); ma da Maria ricevemmo Gesù Cristo, per merito del quale siamo rigenerati come figli della grazia;

n.51: mentre mediteranno tutto ciò, i fedeli non dimenticheranno che Dio volle sottostare all’umile fragilità della nostra carne, affinché il genere umano fosse innalzato al più alto livello della dignità.

Questi testi sono molto chiari. Pertanto, il Lógos si è incarnato principalmente per ciò e continua ad essere presente per mezzo della Chiesa, suo corpo mistico. In che modo? Principalmente attraverso i «sacramenti» e soprattutto con la santa «Eucaristia».

Per concludere, le parole del Doctor Angelicus risultano alquanto limpide:

Benché il primo peccato del progenitore abbia infettato tutta la natura umana, questa al contrario non ha potuto essere riparata per la sua penitenza o per qualsiasi merito. È chiaro infatti che la penitenza di Adamo o qualsiasi altro suo merito fu un atto della persona singola; ora, l’atto di un individuo non ha alcuna influenza su tutta la natura della specie [umana]. […] Quindi il merito singolare di Adamo, o di qualsiasi altro puro uomo, non ha potuto essere sufficiente per reintegrare tutta la natura umana. Che poi per un atto singolo del primo uomo sia stata viziata tutta la natura umana avvenne per accidens, in quanto, privato lui dello stato di innocenza, [l’innocenza] non poteva attraverso di lui derivare negli altri. […] ora, la grazia non si acquista con i meriti, ma è concessa gratuitamente da Dio: perciò, come il primo uomo ebbe all’inizio la giustizia originale non per proprio merito, ma per un dono divino, così molto meno la poté meritare mediante la penitenza, o compiendo qualsiasi altra opera, dopo il peccato. […] Era dunque conveniente che Dio si facesse uomo, così che uno solo potesse nello stesso tempo riparare e soddisfare. Ed è questa la causa della divina incarnazione che viene indicata dall’Apostolo quando afferma: «Cristo Gesù è venuto in questo mondo per salvare i peccatori» [1Tm 1,9-11].[8]

Insomma, quello del Natale è senza dubbio un tempo di dolcezza, di vicinanza, di luce, di calore – anche se la stagione è quella invernale –, di regali ecc. Ma è bene ribadire che qualora mancasse il riferimento a Cristo, o meglio, «al» Cristo, tutto ciò non avrebbe alcun senso… Nemmeno uno. Con il Cristo e in riferimento a Lui, tutto raggiunge il senso ultimo. Pertanto, in questa novena di Natale, il mio augurio è che si possa certamente ritrovare l’unità e la pace, ma in Cristo, il quale dà la pace ma non come la dà il mondo, e che si riscopra la vita cristiana scaturita dai sacramenti, ultimamente così poco considerati e che invece sono il prolungamento di Cristo in mezzo a noi, in mezzo alla sua Chiesa.


Gabriele Cianfrani                          



[1] In merito alla «questione dell’autore» del quarto Vangelo vi sono diverse posizioni da parte di studiosi di notevole spessore (Martin Hengel, Raymond Edward Brown, Xavier Leon-Dufour, Rudolf Schnackenburg e altri), per cui non è possibile neanche accennare alla quesitone. La modesta opinione di chi scrive rimanda alla origine apostolica dei quattro Vangeli, da intendere come riporta la Dei Verbum: la Chiesa ha  sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i quattro Vangeli siano di origine apostolica. Infatti, ciò che gli Apostoli per mandato di Cristo predicarono, dopo, per ispirazione dello Spirito Santo, fu dagli stessi e da uomini della loro cerchia tramandato in scritti, come fondamento della fede, cioè l’Evangelo quadriforme, secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni (Conc. Vat. II, Dei Verbum; cfr. Ireneo di Lione, Adversus haereses, III, 11,8: PG 7,885). In questo estratto vi sono tantissimi elementi, ma che per evidenti motivi di estensione non è possibile sviluppare.

[2] Appare così in questa frase un’allusione all’antica Tenda dell’Incontro, dimora di Dio fra gli israeliti durante la loro peregrinazione per il deserto, nella prima epoca di Israele (Es 33,7-10), e rimpiazzata più tardi dal santuario di Gerusalemme (2Sam 7,1-13; 1Re 5,15-19; 6,1ss.). Quella presenza di Dio è ormai sostituita da questa: la tenda di Dio, il luogo dove egli abita in mezzo agli uomini, è un uomo, una «carne» (J.Mateos – J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni. Analisi linguistica e commento esegetico, Cittadella Editrice, Assisi 20165,p.63).

[3] Ireneo di Lione, Adversus haereses, III, 19,1: PG 7,939.

[4] Atanasio di Alessandria, De Incarnatione, 54,3: PG 25,192.

[5] Tommaso d’Aquino, Officium de festo corporis Christi, Ad Matutinas, In primo Nocturno, Lectio 1.

[6] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 389.

[7] È insegnamento ormai della Chiesa quello riguardante i doni preternaturali (integrità, immortalità, impassibilità, scienza infusa) e il dono soprannaturale (grazia santificante), come riportato nel Catechismo Maggiore di san Pio X, n. 57. L’armonia che vi fu in questo stato di grazia e la partecipazione alla vita divina è chiamata «santità originale» (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 375).

[8] Tommaso d’Aquino, Compendio di teologia, I, cc. 198-200.


mercoledì 29 giugno 2022

29 GIUGNO - SOLENNITA' DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

 



In questo giorno in cui si celebra la solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, due figure estremamente determinanti per la Chiesa, occorre riportare alcuni brani biblici che certamente esprimono tale grandezza.

 

«Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen» (2Tm 4,6-8.17-18).

 

Il brano è tratto dalla seconda lettera a Timoteo, la quale è definita da alcuni studiosi come deuterocanonica o discussa. Sebbene le lettere di san Paolo, ossia il «corpus paulinum», si trovi già nel «Canone Muratori/muratoriano» (sec. II d.C.), vi sono alcune lettere sulle quali sono condotti studi accurati per valutare una sorta di canonicità discussa e/o indiscussa. Dal momento che il canone biblico definitivo è stato stabilito nel Concilio di Trento (1545-1563), e tale canone è appunto normativo per il fedele, la ricerca biblica non può non continuare. Da ricordare il fatto che è la Tradizione divino apostolica ad illuminare sulla canonicità dei testi sacri, non una decisione arbitraria. Cos’è la Tradizione apostolica? Lo dice chiaramente la costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione, ossia la Dei Verbum:

«Cristo Signore […] ordinò agli Apostoli che l’Evangelo, prima promesso per mezzo dei Profeti e da Lui adempiuto e promulgato di persona, come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale lo predicassero a tutti, comunicando i doni divini. Ciò venne fedelmente eseguito, tanto dagli Apostoli, i quali nella predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalle labbra, dalla frequentazione e dalle opere di Cristo, sia ciò che avevano imparato per suggerimento dello Spirito Santo, quanto da quegli Apostoli e da uomini della loro cerchia, i quali, per ispirazione dello Spirito Santo, misero in scritto l’annunzio della salvezza. Gli Apostoli poi, affinché l’Evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono come loro successori i Vescovi, ad essi “affidando il loro proprio posto di maestri”. […] Pertanto, la predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva esser conservata con successione continua fino alla fine dei tempi» (nn. 7-8).

 

Ciò è estremamente importante, soprattutto perché questa «trasmissione» è anche liturgica, come attesta lo stesso san Paolo nel racconto dell’istituzione dell’Eucaristia: «Io ho ricevuto dal Signore quello che vi ho trasmesso: che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito […]» (1Cor 11,23).

 

Tornando alla seconda lettera a Timoteo – le due lettere a Timoteo e quella a Tito sono chiamate «lettere pastorali» –, si ritiene che risalga verso la fine dei giorni terreni dell’Apostolo, ossia durante la prigionia romana tra il 61 e il 63 d.C. San Paolo dice esplicitamente che ha conservato la fede (τὴν πίστιν τετήρηκα). Di quale fede sta parlando? Certamente si tratta di una fede non naturale, ma soprannaturale, quella chiameremmo «virtù teologale». Si tratta di fermezza nel credere, di uno stato di adesione (πίστις, che rimanda all’ebraico אמן), che in tal caso non è possibile senza l’aiuto di Dio. Ciò mostra che la fede deve essere vissuta, o meglio, vivere ciò che si crede mediante la fede, per cui occorre esercitarla e conservarla intatta. Ma ecco il passo importante, ossia il fatto che il Signore gli è stato vicino e gli ha dato forza. Sì, perché credere soprannaturalmente e combattere per ciò che si crede in tal modo, non risiede nelle sole forze umane, ma nell’aiuto divino. Questo esige una risposta, una collaborazione umana, dal momento che la «fede» in quanto tale consta dell’aspetto divino e dell’aspetto umano. Pertanto, non è possibile continuare con le solite espressioni, come del tipo: «beato te che credi; beato te che hai la fede…». Cioè?

Circa la fede intesa anche biblicamente si può cliccare qui.

Ci sarebbe tanto altro da scrivere, bisogna fare il collegamento con un altro brano biblico, che vede come protagonista san Pietro:

 

«Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarèa di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?” Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Voi chi dite che io sia?”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,13-19).

 

Tale brano è fondamentale dal punto di vista ecclesiastico e ci sarebbero tantissime cose da scrivere al riguardo, cosa che sarà fatta doverosamente in altra sede, ma per il momento occorre sottolineare il tratto di continuità col brano precedente. In tal caso, alla domanda che Gesù rivolge a tutti i discepoli, solo san Pietro risponde, e lo fa correttamente. La riposta di san Pietro non deriva dalle forze umane, ma da quella divina che lo ha portato ad affermare che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Riconoscere Gesù come il Cristo, ossia come il Messia, aveva una portata immensa per quel tempo. La parola greca Χριστὸς traduce l’ebraico משיח, che vuol dire «unto», ma che in questo caso sta ad indicare «l’Unto» del Signore per eccellenza. Dal momento che san Pietro ha riconosciuto Gesù come l’Unto per eccellenza, lo ha riconosciuto come il Messia. Non solo, in quanto ciò non lo ha fatto da sé, ma in seguito alla rivelazione del Padre che sta nei cieli. Poiché la «fede» opera sulla potenza intellettiva, così da poter condurre l’intelletto umano a conoscere e a credere ciò che lo supera, la rivelazione del Padre ha permesso a san Pietro di conoscere soprannaturalmente, in modo tale da riconoscere in Gesù il Messia, il Cristo, l’Unto di Dio. Ciò che è importante, e san Pietro lo testimonia, è che la fede soprannaturale derivante dalla grazia suppone la natura umana, non si sostituisce ad essa né l’annulla.

Pure in questo caso traspare il doppio aspetto della «fede»: divino e umano (et-et), così come precisamente riporta il Catechismo della Chiesa Cattolica:

Quando san Pietro confessa che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente, Gesù gli dice: «Né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (Mt 16,17). La fede è un dono di Dio, una virtù soprannaturale da lui infusa. «Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre, e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muove il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia “a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità”» (n. 153). È impossibile credere senza la grazia e gli aiuti interiori dello Spirito Santo. Non è però meno vero che credere è un atto autenticamente umano. Non è contrario né alla libertà né all’intelligenza dell’uomo far credito a Dio e aderire alle verità da lui rivelate. Anche nelle relazioni umane non è contrario alla nostra dignità credere a ciò che altre persone ci dicono di sé e delle loro intenzioni, e far credito alle loro promesse […]. Nella fede, l’intelligenza e la volontà umane cooperano con la grazia divina (nn. 154-155).

 

Tutto ciò è enormemente espresso nei santi Apostoli Pietro e Paolo, vere e proprie colonne portanti della Chiesa di Dio.



Gabriele Cianfrani