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sabato 23 dicembre 2023

IL PRESEPE E IL PASTORE

 


In questo clima natalizio, pieno di difficoltà e di avversità nei confronti della fede cristiana, il presepe (o presepio) è ancora presente. Non si tratta di cadere nel solito vittimismo, ma semplicemente di constatare alcune dinamiche estranee a ciò che dovrebbe essere rappresentato dal presepe. Procediamo per gradi.

Anzitutto pare importante soffermarsi sulla parola presepe, che nelle sue origini latine rimanda alla «mangiatoia», alla «stalla», alla «dimora», al «recinto» e/o anche al luogo in cui si verificavano cose non buone. Pertanto, se la parola presepe viene adoperata per indicare la famosa rappresentazione della Natività, la quale inizia per la prima volta con san Francesco d’Assisi (a Greccio nel 1223), non può da questo non scaturire una domanda fondamentale: quale sarebbe il senso del presepe? Non solo, in quanto vi sarebbe una seconda domanda, forse più importante della prima: per quale motivo il presepe rappresenta la Natività?

Le risposte sono – o dovrebbero essere – immediate: il senso del presepe è la professione di fede nei confronti della incarnazione del Verbo e il contesto della Natività rimanda alla vita divina che il Verbo, assumendo natura umana, ci ha concesso di partecipare per mezzo della Redenzione. Questo dovrebbe essere, in ultimo, il senso del Natale. Certo, poiché il fine del Natale è la Pasqua di passione, morte e resurrezione di Cristo. Occorre parlare di quella vita che Dio ci ha concesso, in quanto tutti, prima o poi, dovremo morire. E poi? O vi è la vita eterna o il nulla – ma il nulla è totalmente inesprimibile –, non ci sono altre vie, per cui non possiamo tergiversare sull’argomento. Insomma, mi pare di scorgere il senso del Natale, in maniera molto incisiva, nelle parole dell’orazione delle lodi del 22 dicembre:

O Dio, che nella venuta del tuo Figlio hai risollevato l’uomo dal dominio del peccato e della morte, concedi a noi, che professiamo la fede nella sua incarnazione, di partecipare alla sua vita immortale.

In questa orazione vi sono elementi sui quali si potrebbero svolgere approfondimenti quasi senza fine, per cui non è possibile neanche pensare di farlo in questo piccolo spazio. Tuttavia, è importante individuarli: venuta del Figlio; peccato; morte; professione di fede; incarnazione; partecipazione; vita immortale. Per quanto riguarda i motivi dell’Incarnazione, sia dalla prospettiva biblica sia da quella magisteriale, rimando al mio articolo risalente al 2022 (clicca qui).

Ciò su cui vorrei soffermarmi in questa sede riguarda il rapporto tra il Natale e la figura del Pastore – il riferimento è principalmente a Dio –, per poi procedere col riportare alcune dinamiche, verificatesi in questi giorni, totalmente avulse dalla visione cristiana. Tra i prossimi articoli ve ne sarà uno sulla data del 25 dicembre nella cristianità antica, in quanto ancora oggi, in molti libri, si afferma la presunta sostituzione da parte della Chiesa della festività pagana del Sol Invictus istituita da Aureliano nel 274 d.C. Ma non è così, lo dimostrano fonti della cristianità antica che puntualmente non vengono riportate.

La figura del pastore, oltre ad essere determinante nel mondo biblico, fu ed è una realtà di fatto. Già Abele divenne pastore di greggi (cfr. Gen 4,2)[1] e così Abramo (cfr. Gen 13,2) e il resto della discendenza. Ora, se da una parte il pastore deve condurre al sicuro il suo gregge, proteggerlo dai pericoli e dalle bestie feroci (cfr. 1 Sam 17,34-37), dall’altra si piega verso il suo gregge per sostenerlo per non lasciarlo perire (cfr. Gen 33,13-14). Bisogna ricordare che a quel tempo il bestiame era prezioso, soprattutto per il popolo di Israele, continuamente in cammino e avente come risorsa proprio il bestiame. Pertanto, se il gregge non poteva fare a meno del pastore, neanche quest’ultimo poteva fare a meno del suo gregge. Senza procedere con tantissimi altri esempi, emergono alcuni tratti caratteristi del rapporto tra il pastore e il suo gregge, primo fra tutti quel rapporto di conoscenza intima di entrambi, che non è possibile comprendere se ci si pone al di fuori di tale rapporto.

Piccolo ma importante dettaglio: chi vive nei paesi circondati da campagne, come chi scrive, ha la possibilità di notare ancora oggi questo rapporto che vi è tra pastore e gregge. Quando egli chiama le sue pecore, con un verso o con un fischio, le pecore lo riconoscono in mezzo a tanti altri versi e in mezzo a tanti altri fischi. Questo intimo rapporto di conoscenza vi è solo tra il pastore e il suo gregge, non al di fuori di tale «recinto», ossia non al di fuori di tale «presepe». Ed ecco che con il nostro presepe riconosciamo Colui che è il Pastore (cfr. Mi 5,1-3; Lc 15,3-7: 19,10; Mt 15,24; Eb 13,20-21), Colui che è venuto a donare quella vita eterna che non è altro che la partecipazione alla Sua vita divina. Il Pastore, Cristo, il Verbo incarnato è venuto per rigenerarci, mediante la Redenzione – in tal caso Cristo non solo è il Pastore ma anche la Vittima (cfr. Eb 9,11-14; Gv 10,11-18) –, per quella eredità incorruttibile che non finirà mai (cfr. 1Pt 1,4). Ma Cristo parla di ovile/recinto (cfr. Gv 10,16), nel quale dovranno rientrare tutte quelle pecore che ancora si trovano fuori, per avere così un solo gregge e un solo Pastore. Ecco il «presepe», ossia la rappresentazione di quella mangiatoia e di quel recinto che sono del Pastore che è venuto per condurre le Sue pecore verso la Vita. Ma le pecore devono mangiare, perché il viaggio è lungo, oltre ad aver bisogno di tante altre cose. Proprio per questo il Pastore ci ha lasciato i sacramenti e come cibo l’Eucaristia, ossia il Pastore stesso. A questo punto il presepe in quanto tale non può non rimandarci alla Chiesa.

Tutto questo non è estraneo a noi uomini, non può esserlo, dal momento che il Verbo (il Figlio) ha assunto «natura umana». Le azioni divine ci superano infinitamente, non riusciremo mai a comprenderle del tutto, ma si possono capire, sono intelligibili. Come potremmo rispondere alla voce del Pastore se la Sua voce ci risultasse estranea? Il problema non risiede nel Pastore, ma in quella parte del gregge che volontariamente si è allontanata e continua ad allontanarsi, ascoltando non più il Pastore ma la voce che si frappone tra il Pastore e il gregge. Da ciò ne consegue l’incomprensione più assoluta e la totale estraneità del Natale. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, o meglio, ascoltare.

Ora, in questi giorni il presepe e la festa del Natale hanno subìto delle violenze non indifferenti, che non è il caso di riportare interamente. Eliminare la festa del Natale per favorire una festa che non ha né testa né coda – alla faccia della coerenza! –, occorre dirlo, vuol dire non aver capito nulla del Natale. Inoltre, il fatto che si affermi che il Natale consista solo nella pace, nella gioia e serenità e altre cose di questo tipo, mi fa concludere che vi è quella riduzione alla pura orizzontalità della dimensione umana, con la perdita della verticalità, del piano divino e del motivo per il quale il Verbo si è incarnato. Per essere ancora più incisivi, spesse volte nel Natale si perde di vista l’incarnazione del Verbo, con la conseguenza dell’annullamento implicito del Natale. Non a caso oggi si parla della difesa dei valori cristiani dal punto di vista «culturale». Va bene, ma il soggetto che fa cultura è l’uomo, per cui la difesa della sola dimensione culturale, per quanto sia apprezzabile, implica il velato disgregamento di ciò che si vuole difendere. Tutto questo rimanda alla distinzione, oggi ormai persa, tra l’essere e l’agire, tra la speculazione e la pratica, tra il piano verticale e il piano orizzontale, che sarà oggetto di un prossimo articolo.

Per concludere, la violenza sul presepe rimanda quella sorta inclusivismo cieco – attenzione, non si tratta di inclusione, il limite è sottile! – che comporta in maniera paradossale l’esclusivismo. Mi spiego. Aggiungere elementi estranei alla rappresentazione della Natività vuol dire intaccare, ancor prima del piano divino, il piano della natura umana. Propendere per l’inclusivismo cieco, come oggi accade spesso, vuol dire condurre l’uomo verso la dissoluzione della sua stessa natura, con perdita della sua identità. Ma è proprio questo il punto! Non ci può essere azione/grazia divina sull’uomo se non vi è la natura umana che può accoglierla. Dove agirebbe l’azione/grazia divina? I sacerdoti dovrebbero ricordare che gratia supponit naturam (la grazia suppone la natura), non la distrugge, ma la eleva e la porta verso il suo compimento. La vera inclusione, se si vuole parlare di ciò, risiede nella stessa incarnazione del Verbo, il quale ha scelto di incarnarsi in quel particolare contesto, con la Beata Vergine Maria e san Giuseppe.

Per cortesia, non nascondiamoci dietro quella ‘pastorale’ di cui si parla tanto, ma che alla fine risulta totalmente anonima. E l’anonimato deriva dal fatto che sul Verbo incarnato se ne parla in maniera disincarnata. Forse sarò un po' spietato e mi dispiacerebbe se qualcuno si offendesse, ma non confondiamo la «pastorale» con la «pastorizia».

Santo Natale  

 

Gabriele Cianfrani



[1] Per quanto riguarda le abbreviazioni bibliche presenti in questo articolo: Gen = Genesi; 1Sam = Primo libro di Samuele; Mi = Michea; Mt = Vangelo secondo Matteo; Lc = Vangelo secondo Luca; Gv = Vangelo secondo Giovanni; Eb = Lettera agli Ebrei; 1Pt = Prima lettera di Pietro. 


 


sabato 6 maggio 2023

TUTTO E' STATO FATTO PER MEZZO DI LUI


 

Nelle librerie e su Internet è disponibile il mio libro pubblicato pochi giorni fa dalla Tau Editrice: 

Tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Discorso sulla fede e sulla realtà (2023).

 

Dalla quarta di copertina:

Il lavoro si presenta come la riflessione dell’autore su alcuni temi riguardanti il percorso di vita cristiano. Il tutto prende spunto da due passi della Scrittura: «tutto è stato fatto per mezzo di lui» (Gv 1,3) e «[…] pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15). Pertanto, lo scopo è quello della testimonianza riflessiva circa alcuni contenuti della fede cristiana (cattolica), in modo che vi siano confronti tematici, cercando di porre in evidenza la linea del Magistero della Chiesa ed esprimendo che il senso ultimo si trova nel Verbo di Dio.


Estratto dalla prefazione del Prof. Carmelo Pandolfi:

Di ou tà pánta egéneto – per quem omnia facta sunt canta il Simbolo ripetendo il Prologo di Giovanni. Gabriele Cianfrani – lo sappiamo – sente visceralmente la densità del Lógos, tanto che sta pensando ad uno studio sulla convergenza tra lógos ed esse (tomista). 

Ma qui il lavoro non scende a tali profondità e si mantiene al livello di quella che, una volta, si chiamava Apologetica.

Non c'è dubbio che una apologetica razionalistica, elencatica e difensiva abbia in certa misura fallito. È anche vero che la reazione – la mancanza di Apologetica – ha fallito anche essa, perché ha prodotto un banale «volemose bene», offensivo del Bene stesso.

La soluzione sta dentro il mistero stesso del Lógos che è Gesù Cristo, nel senso che la dogmatica stessa è apologetica. La bellezza del dogma si difende da se stessa e va solo mostrata, come numero primo inderivato e autoconvincente. Come l’originalità assoluta di quel brano, quello lì, di Mozart. Così ha insegnato, e praticato lungo tutta la sua «Gloria», la teologia più bella e insieme colta fra i Moderni: quella di Balthasar.


P.S. Chiederei, a chi decidesse di acquistarlo, di contattarmi - anche tramite l'indirizzo email che si trova a pagina 316 -, dal momento che è in corso l'elaborazione dell'Errata Corrige in riferimento alle pagine 66 e 67, in modo da poterla inviare tramite email.


domenica 16 aprile 2023

LA CANONIZZAZIONE E LE SUE IMPLICAZIONI

aprile 16, 2023 Posted by Gabriele Cianfrani , , , No comments


 

Ciò che sta emergendo sul caso legato alla scomparsa di Emanuela Orlandi, caso che sarebbe stato meglio risolvere in passato, non è una novità. È giusto ed è doveroso che il fratello, Pietro Orlandi, si batta per far chiarezza su quanto è accaduto alla sorella. Avrei fatto lo stesso se ne avessi avuta una: senza risparmiarmi. Tuttavia, una persona canonizzata è stata coinvolta in tutto questo, e si tratta di san Giovanni Paolo II.

Ora, senza andare per le lunghe, dove risiederebbe il problema? Non è possibile chiamare in causa una persona canonizzata? Bisogna difendere senza esclusione l’una e l’altra posizione? Il Vaticano nasconde qualcosa? Si tratta di cose «insabbiate» dal Vaticano per scopi sconosciuti? Ah, si tenga presente che il nuovo film su Don Gabriele Pietro Amorth uscito pochi giorni fa (L’esorcista del Papa, aprile 2023), il cui protagonista è il noto attore Russel Crowe, ha poco a che vedere con Don Amorth (leggere qui il comunicato dell’AIE sul trailer) ed è sconvolgente leggere i soliti commenti.

Pertanto, questo articolo non vuole essere né la difesa cieca di una parte o dell’altra né il solito calderone di «slogan», come oggi si verifica per tanti argomenti. Purtroppo molti titoli di giornali, oltre al contenuto, rasentano il ridicolo. Non affermo questo per una particolare avversione nei confronti dei giornalisti, anzi, ne conosco alcuni che sono tali con l’iniziale maiuscola e che possono essere definiti come veri ministri dell’informazione, ma quello che si apprende attraversi i mezzi di comunicazione di massa è… Lasciamo perdere.

Il rispetto per la sofferenza di una persona che chiede giustizia per la sorella o il rispetto per una persona come Karol Wojtyła vanno al di là di tutto questo clima nauseante. Lo scopo del presente articolo è quello di rispondere alle tante voci che si stanno sollevando in merito al caso in questione, in maniera facile, forse fin troppo… In che modo? Riportando ciò che occorre per la «canonizzazione» di una persona. Attenzione: strettamente parlando canonizzazione e santificazione non sono sinonimi, la prima avviene con la dovuta proclamazione, la seconda avviene col Battesimo (Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1212-1284), nonostante il titolo di Santo o Santa segua la canonizzazione.

È pazzesco che volino parole a destra e a manca, col risultato di agitare le acque ma senza giungere alla conclusione. Molti giornalisti, con i loro mezzi, da quel che è stato dichiarato hanno strumentalizzato alcune parole e hanno fatto sì che queste colpissero la persona di Giovanni Paolo II. Certo, la strumentalizzazione c'è stata, ma non si può strumentalizzare ciò che non esiste, per cui le parole sono state pronunciate. Ovviamente, bisogna fare notizia! Sfortunatamente non fanno altro che cadere nel ridicolo, oltre a manifestare orgogliosamente una certa «ignoranza». Sì, si tratta di ignoranza nel vero senso della parola: ignorare, derivante da ignarus, vuol dire «non sapere», «trascurare», «sottovalutare», così come leggo dal Dizionario etimologico della Rusconi. Ebbene non sanno cosa occorre perché una persona possa essere canonizzata dalla Chiesa Cattolica, se lo sapessero non agiterebbero così tanto le acque. Ripeto, non si tratta di nessuno schieramento, ma solo di cercare di far capire che alcune notizie potrebbero essere risparmiate, le quali non giovano né a chi cerca chiarezza né a chi viene accusato. Occorre ripeterlo, dal momento che oggi bisogna stare attenti anche al respiro.

Pertanto, questo sarà l’articolo più facile che abbia mai scritto, poiché riporterà le procedure per la «canonizzazione», che viene dalla parola «canone» (in greco κανών, che in tal caso vuol dire regola, norma, modello) e che vuol dire «inserire nel canone», ossia in quell’elenco che riconosce pienamente quanto riportato nella costituzione apostolica Divinus Perfectionis Magister (circa la nuova legislazione per le cause dei santi), risalente a Giovanni Paolo II, della quale Papa Francesco ha modificato alcuni articoli. Il testo è abbastanza lungo e spero che il lettore avrà la pazienza di leggerlo, poiché ne vale la pena. Ecco il testo della Divinus Perfectionis Magister, che prendo dal sito vatican.va, della quale è messo a disposizione anche il formato PDF:

 

***

Il Maestro divino della perfezione e il modello, Cristo Gesù, che insieme al Padre e allo Spirito Santo «unico santo», amò la Chiesa come una sposa e diede se stesso per lei, per santificarla e renderla gloriosa ai suoi occhi. Pertanto, dato il precetto a tutti i suoi discepoli, affinché imitassero la perfezione del Padre, inviò lo Spirito Santo su tutti, che li muova internamente, affinché amino Dio di tutto cuore, e affinché si amino reciprocamente, allo stesso modo in cui lui li amò. I seguaci di Cristo - come si esorta attraverso il Concilio Vaticano II - chiamati e giustificati in Gesù Cristo, non secondo le loro opere ma secondo il disegno e la grazia di lui, nel Battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò veramente santi.

Dio sceglie in ogni tempo un gran numero di questi che, seguendo più da vicino l'esempio di Cristo, offrano una gloriosa testimonianza del Regno dei cieli con lo spargimento del sangue o con l'esercizio eroico delle virtù.

Invero la Chiesa, che fin dagli inizi della religione cristiana ha sempre creduto che gli Apostoli e i Martiri siano con noi strettamente uniti in Cristo, li ha celebrati con particolare venerazione insieme con la beata Vergine Maria e i santi Angeli, e ha implorato piamente l'aiuto della loro intercessione. A questi in breve tempo si aggiunsero altri che avevano imitato più da vicino la verginità e povertà di Cristo, e infine tutti gli altri, che il singolare esercizio delle virtù cristiane e i carismi divini raccomandavano alla pia devozione e imitazione dei fedeli.

Considerando la vita di quelli che hanno fedelmente seguito Cristo, per una tale insolita ragione siamo incitati a ricercare la Città futura e ci è insegnata una via sicurissima attraverso la quale, tra le vicende del mondo, possiamo arrivare alla perfetta unione con Cristo o, per dir meglio, alla santità, secondo lo stato e la condizione propria di ciascuno.

Senza dubbio, avendo una tal moltitudine di testimoni, attraverso i quali Dio si fa presente a noi e ci parla, siamo attirati con grande forza a guardare il Regno suo nei cieli. La Sede Apostolica, accogliendo i segni e la voce del suo Signore col massimo timore e docilità, da tempi immemorabili, per il gravoso compito affidatole di insegnare, santificare e reggere il Popolo di Dio, offre all'imitazione dei fedeli, alla venerazione e all'invocazione gli uomini e le donne insigni per lo splendore della carità e di tutte le altre virtù evangeliche e dopo aver condotto i debiti accertamenti, dichiara con un solenne atto di canonizzazione che essi sono Santi o Sante.

L'Ordinamento delle cause di canonizzazione, che il Nostro predecessore Sisto V affidò alla Congregazione dei Sacri Riti da lui stesso fondata, è stato sviluppato nel corso dei tempi da sempre nuove norme, soprattutto ad opera di Urbano VIII, che Prospero Lambertini (poi divenuto Benedetto XIV), raccogliendo anche esperienze del tempo passato, lasciò ai posteri nell'opera intitolata Beatificazione dei Servi di Dio e canonizzazione dei Beati, e che rimase come regola per quasi due secoli presso la Sacra Congregazione dei Riti. Norme di tal genere infine furono raccolte essenzialmente nel Codice di Diritto Canonico, pubblicato nell'anno 1917.

Ma poiché il progresso delle discipline storiche, che ha fatto grandi passi nel nostro tempo, ha mostrato la necessità di arricchire la competente Commissione di uno strumento di lavoro più adeguato, per rispondere meglio ai postulati dell'arte critica, il nostro predecessore Pio XI con la Lettera apostolica «Già da qualche tempo» (Motu proprio) pubblicata il 6 febbraio 1930, istituì presso la Sacra Congregazione dei Riti la «Sezione storica» e le affidò lo studio delle cause «storiche». Il 4 gennaio 1939 lo stesso Pontefice fece pubblicare le Norme da osservare nell'istruire processi ordinari sulle cause storiche, con le quali rese di fatto superfluo il processo «apostolico», così che nelle cause «storiche» unico divenne il processo con autorità ordinaria.

Paolo VI poi, con la Lettera apostolica «Sanctitas clarior» del 19 marzo 1967, stabilì che, anche nelle cause più recenti, si facesse un unico processo per quanto riguarda l'istruzione, cioè per raccogliere le prove, che il Vescovo istruisce, previo permesso tuttavia della Santa Sede. Il medesimo Pontefice con la costituzione apostolica «Sacra Congregazione dei Riti» dell'8 maggio 1969, in luogo della Sacra Congregazione dei Riti istituì due nuovi Dicasteri, ad uno dei quali affidò l'incarico di dare un assetto al Culto divino, all'altro quello di trattare le cause dei santi; in questa stessa occasione mutò alquanto l'ordine di procedere nelle medesime.

Dopo le più recenti esperienze, infine, ci è parso opportuno di rivedere la via di istruzione delle cause e dare un ordinamento alla stessa Congregazione per le cause dei Santi, per venire incontro alle esigenze degli studiosi e ai desideri dei nostri fratelli nell'Episcopato, che hanno più volte sollecitato l'agilità del modo di procedere, mantenendo tuttavia ferma la sicurezza delle investigazioni in una questione di tanta gravità. Crediamo inoltre, privilegiando la dottrina della collegialità proposta dal Concilio Vaticano II, che sia assolutamente opportuno che gli stessi Vescovi si sentano maggiormente uniti alla Sede Apostolica nella trattazione delle cause dei santi.

Per il futuro dunque, abrogate tutte le leggi di qualsiasi genere in materia, abbiamo stabilito che si debbano osservare le norme che seguono.

1. Ai Vescovi diocesani o alle autorità ecclesiastiche e agli altri equiparati nel diritto, entro i confini della loro giurisdizione, sia d'ufficio, sia su istanza dei singoli fedeli o di legittime aggregazioni e dei loro procuratori, compete il diritto di investigare circa la vita, le virtù o il martirio e fama di santità o martirio, i miracoli asseriti, e, se è il caso, l'antico culto del Servo di Dio, del quale viene chiesta la canonizzazione.

2. In ricerche di tal genere il Vescovo proceda secondo le Norme particolari da stabilirsi dalla Sacra Congregazione per le Cause dei Santi, in questo ordine:

1) Richieda al postulatore della causa, nominato legittimamente dal promotore, una accurata informazione sulla vita del Servo di Dio, e si faccia contemporaneamente da quello accuratamente illustrare i motivi che sembrano richiedere una causa di canonizzazione.

2) Se il Servo di Dio ha pubblicato suoi scritti, il Vescovo li faccia esaminare dai censori teologici.

3) Se non si è trovato nulla in tali scritti contro la fede e la morale, allora il Vescovo faccia esaminare gli altri scritti inediti (lettere, diari, ecc.) e tutti i documenti, che in qualunque modo riguardino la causa, da persone adatte allo scopo, che, dopo aver compiuto il loro compito con scrupolosità, devono stendere una relazione sugli accertamenti fatti.

4) Se da quanto fatto finora il Vescovo riterrà nella sua prudenza che si possa procedere oltre, faccia interrogare i testimoni addotti dal postulatore e gli altri che d'ufficio devono essere chiamati secondo il rito. Se poi fosse urgente l'esame dei testimoni per non perdere la possibilità di avere le prove, devono essere interrogati anche se non è ancora stata terminata l'indagine sui documenti.

5) La ricerca sui miracoli asseriti si faccia separatamente dall'indagine sulle virtù o sul martirio.

6) Terminate le indagini, si trasmettano tutti gli atti in duplice copia alla Sacra Congregazione, insieme a un esemplare dei libri del Servo di Dio esaminati dai censori teologici con il relativo giudizio. Il Vescovo inoltre deve aggiungere una dichiarazione sull'osservanza dei decreti di Urbano VIII sul non culto.

3. E' compito della Sacra Congregazione per le Cause dei Santi, presieduta dal Cardinale Prefetto, con l'aiuto del Segretario, di fare ciò che concerne la canonizzazione dei Servi di Dio, sia assistendo i Vescovi nell'istruire le cause con il consiglio e le istruzioni, sia studiando a fondo le cause, sia infine pronunziandosi con il voto. Alla Congregazione spetta ancora di decidere su tutte quelle cose che si riferiscono all'autenticità e alla conservazione delle reliquie.

4. E' compito del Segretario: 1) curare le relazioni con gli esterni, in particolare con i Vescovi che istruiscono le cause; 2) partecipare alle discussioni in merito alla causa, portando il voto nella Congregazione dei Padri Cardinali e dei Vescovi; 3) stendere la relazione sui voti dei Cardinali e dei Vescovi, da consegnare al Sommo Pontefice.

5. Nell'adempiere al suo compito il Segretario è aiutato dal Sottosegretario, a cui spetta in particolare di vedere se sono state osservate le prescrizioni di legge nell'istruzione delle cause, ed è aiutato anche da un congruo numero di Ufficiali minori.

6. Per lo studio delle cause presso la Sacra Congregazione c'è il Collegio dei Relatori, presieduto dal Relatore generale.

7. E' compito dei singoli Relatori:

1) studiare le cause loro affidate con i cooperatori esterni e preparare le «Positiones super virtutibus et martyrio»;
2) illustrare per scritto tutti i chiarimenti storici, se sono stati richiesti dai Consultori;
3) partecipare come esperti, senza diritto di voto, alla riunione dei teologi.

8. Ci sarà in particolare uno dei Relatori che avrà l'incarico di occuparsi a fondo della «Positio super miraculis», che parteciperà alla riunione dei medici e al Congresso dei teologi.

9. Il Relatore generale, che presiede la riunione dei Consultori storici, è aiutato da alcuni Collaboratori nei suoi studi.

10. Presso la Sacra Congregazione c'è un «Promotor fidei» o Prelato teologo, che ha il seguente compito: 1) presiedere il Congresso dei teologi, in cui ha diritto di voto; 2) preparare la relazione sullo stesso Congresso; 3) partecipare alla Congregazione dei Padri Cardinali e dei Vescovi come esperto, senza tuttavia diritto di voto. Per una o un'altra causa, se sarà necessario, dal Cardinale Prefetto potra essere nominato un «Promotor» fidei che faccia al caso.

11. Per trattare le cause dei Santi sono a disposizione Consultori, chiamati da diverse parti, con specifica esperienza, chi in campo storico, chi in campo teologico.

12. Per l'esame delle guarigioni, che vengono presentate come miracoli, si tiene presso la Sacra Congregazione una commissione di medici.

13. Dopo che il Vescovo ha inviato a Roma tutti gli atti e i documenti riguardanti la causa nella Sacra Congregazione per le Cause Santi si proceda in tal modo:

1) Innanzitutto il Sottosegretario esamina attentamente se nelle inchieste fatte dal Vescovo sono state osservate tutte le norme di legge e riferisce nel Congresso ordinario sull'esito dell'esame.

2) Se il Congresso giudicherà che la causa è stata istruita secondo le norme di legge, stabilirà di affidarla a uno dei Relatori; il Relatore, a sua volta, aiutato da un Cooperatore esterno, farà la «Positio super virtutibus vel super martyrio», secondo le regole della critica agiografica.

3) Nelle cause antiche e in quelle recenti, la cui indole particolare richiederà il giudizio del Relatore generale, la «Positio», una volta stesa, dovrà essere sottoposta all'esame dei Consultori esperti specifici della materia, perché esprimano il voto sul suo valore scientifico sulla sufficienza all'effetto. In singoli casi la Sacra Congregazione può affidare la «Positio» anche ad altri studiosi, non compresi nel numero dei Consultori.

4) La «Positio» (con i voti scritti dei Consultori storici e con gli ulteriori chiarimenti del Relatore, se saranno necessari) sarà consegnata ai Consultori teologi, che esprimeranno il voto sul merito della causa; è loro compito, insieme al «Promotor fidei», studiare tanto a fondo la causa fino a che sia stato completato l'esame delle questioni teologiche controverse, qualora ve ne siano, prima che si arrivi alla discussione nel Congresso specifico.

5) I voti definitivi dei Consultori teologi, insieme alle conclusioni stese dal «Promotor fidei», saranno affidate al giudizio dei Cardinali e dei Vescovi.

14. Sui miracoli la Congregazione giudica con il seguente criterio:

1) I miracoli asseriti, sui quali il Relatore incaricato di ciò prepara la «Positio», sono esaminati nella riunione degli esperti (se si tratta di guarigioni, nella riunione dei medici); i voti e le conclusioni degli esperti sono esposti in una accurata relazione.

2) In secondo luogo si devono discutere i miracoli nello specifico Congresso dei teologi; e infine nella Congregazione dei Padri Cardinali e dei Vescovi.

15. Il parere dei Padri Cardinali e dei Vescovi viene riferito al Sommo Pontefice, al quale solo compete il diritto di decretare il culto pubblico ecclesiastico del Servo Di Dio.

16. Nelle singole cause di canonizzazione, il cui giudizio per il momento dipenda dalla Sacra Congregazione, la stessa Sacra Congregazione stabilirà, con un decreto particolare, il modo di procedere oltre, nell'osservanza tuttavia di questa nuova legge.

17. Le norme stabilite con questa Nostra costituzione cominciano ad entrare in vigore da oggi. Vogliamo che queste norme e prescrizioni siano valide ed efficaci ora e per il futuro, non essendo in opposizione, fin dove è necessario, con le Costituzioni e gli ordinamenti apostolici fatti dai nostri predecessori, e le altre prescrizioni degne anche di particolare menzione e deroga.

Roma, San Pietro, 25 gennaio 1983, V anno del nostro Pontificato.

***

Il motu proprio Maiorem hac dilectionem (2017) con cui Papa Francesco ha modificato alcuni articoli, è possibile leggerlo cliccando sul titolo del motu proprio. Inoltre, per quanto riguarda le Norme da osservarsi nelle inchieste diocesane nelle cause dei santi, è possibile leggerle cliccando sul titolo. Nel motu proprio Maiorem hac dilectionem di Papa Francesco, sono riportate alcune modifiche sia alla Divinus Perfectionis Magister sia alle Normae servandae in inquisitionibus ab Episcopis facendis in Causis Sanctorum (Norme da osservarsi nelle inchieste diocesane nelle cause dei santi).

Dopo tutte queste informazioni, è ovvio che alcune notizie giornalistiche cadano nel ridicolo, e mi pare strano che gli addetti ai lavori non rispondano come dovrebbero. Senza contare che la Chiesa, anche per coloro che avanzano posizioni avverse, ha dimostrato sempre la sua meticolosità, a volte anche esagerata. Ora, è chiaro che chi scrive non potrà mai accettare certe voci su san Giovanni Paolo II, prima di tutto perché è canonizzato, poi perché la canonizzazione richiede tutto ciò che è stato riportato. Se si provasse a leggere ciò che san Giovanni Paolo II ha scritto, ci si renderebbe conto di quanto sia stato importante il suo studio dal punto di vista antropologico e dell’amore coniugale. La questione merita di essere affrontata diversamente, senza l’utilizzo di quei mezzi che già di per sé, a volte, sono sospetti. Allora sarebbe il caso che alcune testate giornalistiche vagliassero bene le notizie, prima di dare l’impressione che queste mirino solo ad agitare le acque, sì, ma della pozzanghera. Potrebbe insinuarsi il pensiero che queste notizie mirino proprio a raggiungere uno scopo che non è affatto quello della ἀλήθεια. E di notizie sparate in questo modo, sinceramente, ne ho le scatole piene… E non solo io.

 

Gabriele Cianfrani

 


 

Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio, "Maiorem hac dilectionem", dell'11 luglio 2017, con la quale Papa Francesco ha introdotto una nuova fattispecie nell'iter di beatificazione e canonizzazione, 'l'offerta della vita'

Gli articoli seguenti della Costituzione Apostolica Divinus Perfectionis Magister di Giovanni Paolo II sono così modificati:

Art. 1:

Ai Vescovi diocesani, agli Eparchi e a quanti ad essi sono equiparati dal diritto, nell’ambito della loro giurisdizione, sia d'ufficio, sia ad istanza dei singoli fedeli o di legittime associazioni e dei loro rappresentanti, compete il diritto di investigare circa la vita, le virtù, l’offerta della vita o il martirio e la fama di santità, di offerta della vita o di martirio, sui presunti miracoli, ed eventualmente, sul culto antico del Servo di Dio, di cui si chiede la canonizzazione”.

Art. 2,5:

L’Inchiesta sui presunti miracoli si faccia separatamente da quella sulle virtù, sull’offerta della vita o sul martirio.

Art. 7,1:

“studiare le cause loro affidate con i collaboratori esterni e preparare le Positiones sulle virtù, sull’offerta della vita o sul martirio”.

Art. 13,2:

Se il Congresso giudicherà che la causa è stata istruita secondo le norme di legge, stabilirà di affidarla a uno dei Relatori; il Relatore, a sua volta, aiutato da un collaboratore esterno, farà la Positio sulle virtù, sull’offerta della vita o sul martirio, secondo le regole della critica agiografica”.

 


sabato 8 aprile 2023

DESCENDIT AD INFERI: IL SABATO SANTO


Nel Triduo pasquale, a volte, si pone attenzione quasi esclusivamente al Venerdì santo e alla Domenica di resurrezione, ma il Sabato santo risulta quasi una sorta di vuoto, una semplice attesa della Domenica (il giorno dopo il sabato). In realtà il Sabato santo è un giorno fondamentale del Triduo pasquale, anzi, è proprio nel Sabato santo che avviene quello sconvolgimento atteso da secoli e secoli. Quando il Simbolo apostolico riporta «discéndit ad inferi» (discese agli inferi), il riferimento è ad una realtà ben precisa. Infatti, nell’ Ufficio delle Letture di oggi, è riportata un’antica «Omelia sul Sabato santo»:

Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi. Certo egli va a cercare il primo padre, come la pecorella smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell’ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva che si trovano in prigione. Il Signore entrò da loro portando le armi vittoriose della croce. Appena Adamo, il progenitore, lo vide, percuotendosi il petto per la meraviglia, gridò a tutti e disse: «Sia con tutti il mio Signore». E Cristo rispondendo disse ad Adamo: «E con il tuo spirito». E, presolo per mano, lo scosse, dicendo: «Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà. […] Sorgi, allontaniamoci di qui. Il nemico ti fece uscire dalla terra del paradiso. Io invece non ti rimetto più in quel giardino, ma ti colloco sul trono celeste. Ti fu proibito di toccare la pianta simbolica della vita, ma io, che sono la vita, ti comunico quello che sono. Ho posto dei cherubini che come servi ti custodissero. Ora faccio sì che i cherubini ti adorino quasi come Dio, anche se non sei Dio. Il trono celeste è pronto, pronti e agli ordini sono i portatori, la sala è allestita, la mensa apparecchiata, l’eterna dimora è addobbata, i forzieri aperti. In altre parole, è preparato per te dai secoli eterni il regno dei cieli».

Non ci sarebbe altro da aggiungere, nonostante l’omelia non sia stata riportata interamente, ma è possibile qualche commento.

Anzitutto è questo il significato di quel meraviglio affresco dell’ἀνάστασις (anastasis) – è l’immagine sopra, scelta per l’articolo – che si trova nella Chiesa di San Salvatore in Chora (Instanbul), dal momento che Cristo, vero Dio e vero uomo, ha compiuto quella redenzione che anche i «giusti» che furono prima di Lui attendevano. Le due persone che nell’affresco si trovano a destra e a sinistra di Cristo, che le prende per mano, sono i progenitori Adamo ed Eva, portati via da quel soggiorno dei morti che va sotto il nome ebraico di Shéol, corrispondente a quello che in greco si chiama ade (cfr. Fil 2,10; At 2,24; Ef 4,9; Ap 1,18). Circa lo Shéol, il noto Dizionario di Teologia Biblica diretto da Xavier Leon-Dufour (e altri) riporta:

Il defunto «non è più» (Sal 39,14; Giob 7,8.21; 7,10): prima impressione di inesistenza, perché l’oltretomba sfugge alle prese dei viventi. Nelle credenze primitive, conservate a lungo dal VT [Vecchio Testamento], la morte non è tuttavia un annientamento totale. Mentre il corpo è deposto in una fossa sotterranea, qualcosa del defunto, un’ombra, sussiste nello šeol. Ma questi inferi sono concepiti in modo molto rudimentale: un buco spalancato, un pozzo profondo, un luogo di silenzio (Sal 115,17), di perdizione, di tenebre, di dimenticanza (Sal 88,12 s; Giob 17,13). Ivi tutti i morti radunati partecipano alla stessa misera sorte (Giob 3,13-19; Is 14,9 s), anche se vi sono gradi nella loro ignominia (Ez 32,17-32). […] Tale è la prospettiva desolante che la morte apre all’uomo per il giorno in cui dev’essere «riunito ai suoi padri» (Gen 49,29). Qui le immagini non fanno che dare una forma concreta ad impressioni spontanee che sono universali ed a cui si limitano ancora molti dei nostri contemporanei (pp. 642-643).

Nonostante vi sia molto da indagare sullo Shéol e soprattutto svolgere un confronto sull’oltretomba con altre religioni, cosa che in parte Leon-Dufour fa, si riporta il superamento dello Shéol grazie alla potenza divina:

Non è in potere dell’uomo salvare se stesso dalla morte: occorre la grazia di Dio, che solo è per natura il vivente. Quando perciò il potere della morte si manifesta sull’uomo, in qualsiasi modo, egli non può che rivolgere a Dio un appello (Sal 6,5; 13,4; 116,3). Allora, se è giusto, può nutrire la speranza che Dio «non abbandonerà la sua anima allo sheol» (Sal 16,10), «libererà la sua anima dagli artigli dello sheol» (Sal 49, 16). Una volta guarito o salvato dal pericolo, renderà grazie a Dio per averlo liberato dalla morte (Sal 18,17; 30; Giona 2,7; Is 38,17), perché appunto di una tale liberazione avrà fatto l’esperienza concreta. Ancor prima che le prospettive della sua fede abbiano superato i limiti della vita presente, egli saprà così che la potenza divina prevale su quella della morte e dello sheol: primo germe di una speranza che si evolverà infine in una prospettiva di immortalità. […] D’altronde la rivelazione, ancor prima di aprire a tutti simili prospettive, aveva illuminato di nuova luce l’enigma della morte dei giusti, attestandone la fecondità. Il fatto che il giusto per eccellenza, il servo di Jahve, sia colpito a morte e «strappato via dalla terra dei viventi», non è privo di significato: la sua morte è un sacrificio espiatorio offerto volontariamente per i peccati degli uomini; con essa si compie il disegno di Dio (Is 53,8-12). Si svela così in anticipo il tratto più misterioso dell’economia della salvezza, che la storia di Gesù porrà in atto. […] Fino a Cristo e senza di lui, c’era il regno della morte; Cristo viene e, con la sua morte, trionfa della morte stessa; da questo istante la morte cambia senso per la nuova umanità che muore con Cristo per vivere con lui eternamente (pp. 646-647).

Questo il breve percorso biblico fino ad arrivare al momento decisivo, ossia il Sabato santo. Da precisare che ciò non sarebbe stato possibile se l’incarnazione del Verbo non fosse avvenuta così com’è avvenuta, ossia l’unione ipostatica, sulla quale si tornerà in altra sede. Il discorso sull’unione ipostatica è così importante da determinare tutto il resto, oltre alla corretta comprensione di tanti fatti. La corretta comprensione dell’incarnazione evita tanti problemi che ultimamente sono emersi nuovamente, ai quali è possibile rispondere con chiarimenti risalenti a molti secoli fa. Uno dei problemi, ad esempio, riguarda la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, in riferimento alla quale si dice: «è venuto Gesù»; «ora Gesù si è trasformato nel pane e nel vino»; «adesso Gesù è venuto dal Cielo ed è nell’ostia». Non è così e un’impostazione simile sminuirebbe enormemente ciò che avviene nella conversione del pane e del vino, poiché sono questi elementi a «convertirsi», ma ciò rimanda ad un altro lavoro.

Tornando al Sabato santo, il Catechismo della Chiesa Cattolica riporta:

La Scrittura chiama inferi, Shéol o ̔Αιδην il soggiorno dei morti dove Cristo morto è disceso, perché quelli che vi si trovano sono privati della visione di Dio. Tale infatti è, nell’attesa del Redentore, la sorte di tutti i morti, cattivi o giusti; il che non vuol dire che la loro sorte sia identica, come dimostra Gesù nella parabola del povero Lazzaro accolto nel «seno di Abramo». «Furono appunto le anime di questi giusti in attesa del Cristo a essere liberate da Gesù disceso all’inferno». Gesù non è disceso agli inferi per liberare i dannati né per distruggere l’inferno della dannazione, ma per liberare i giusti che l’avevano preceduto. «La Buona Novella è stata annunciata anche ai morti…» (1Pt 4,6). La discesa agli inferi è il pieno compimento dell’annunzio evangelico della salvezza. È la fase ultima della missione messianica di Gesù, fase condensata nel tempo ma immensamente ampia nel suo reale significato e estensione dell’opera redentrice a tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, perché tutti coloro i quali sono salvati sono stati resi partecipi della redenzione (CCC, nn. 633-634).

Da questo si capisce che il Sabato santo non è un giorno di «vuoto» o una «semplice attesa», ma il pieno compimento della redenzione. Inoltre, il Catechismo Romano (o Tridentino) riporta notevoli precisazioni:

Con queste parole [discese all’inferno] riconosciamo che, in quel tempo, la medesima persona di Gesù Cristo fu nell’inferno e giacque nel sepolcro, il che non deve sorprendere. Infatti, come spesso abbiamo ripetuto, sebbene l’anima fosse uscita dal corpo, tuttavia la divinità non si separò mai né dall’anima né dal corpo. […] Qui il vocabolo in questione [inferno] vuole significare quelle nascoste sedi, in cui stanno le anime di coloro che non hanno conseguito la beatitudine celeste. La Sacra Scrittura offre molteplici esempi di questo uso. In san Paolo leggiamo: In nome di Gesù, ogni ginocchio si curvi, in cielo, in terra, nell’inferno (Filipp. II, 10). Negli Atti degli Apostoli, san Pietro assicura che Gesù Cristo N. S. risuscitò, dopo aver superato i dolori dell’inferno (Atti II, 24). Tali sedi non son tutte del medesimo genere. Una è quella prigione tenebrosa e orribile, nella quale le anime dei dannati giacciono in un fuoco perpetuo e inestinguibile, insieme agli spiriti immondi. In questo significato abbiamo i termini equivalenti di geenna, abisso, inferno propriamente detto. In secondo luogo c’è la sede del fuoco purgante, soffrendo nel quale, per un determinato tempo, le anime dei giusti subiscono l’espiazione, onde possano salire alla patria eterna, chiusa a ogni ombra di colpa. […] Una terza sede è quella in cui le anime dei santi furono ospitate prima della venuta di Gesù Cristo N. S. Esse vi dimorarono quietamente, immuni da ogni pena, alimentate dalla beatifica speranza della redenzione. […] Gesù Cristo scendendo nell’inferno liberò appunto le anime di questi giusti, aspettanti il Salvatore nel seno di Abramo. […] Tutti vi erano penetrati prigionieri; egli invece, libero e vincitore fra morti, vi entrò per debellare i demòni, dai quali essi erano tenuti prigionieri a causa della colpa originale. […] Così fu compiuta la promessa fatta al buon ladrone: Oggi sarai con me in paradiso (Luc. XXIII, 43). Questa liberazione dei buoni era stata molto tempo innanzi predetta da Osea con queste parole: O morte, io sarò la tua morte; o inferno, io sarò la tua distruzione (Os. XIII, 14); e dal Profeta Zaccaria: Per te, a causa del sangue del tuo patto, io ritirerò i tuoi prigionieri dalla fossa senz’acqua (Zac. IX, 11); nonché dal passo dell’Apostolo: Egli ha spogliato i principati e le potestà, offrendoli a spettacolo e trionfando di loro (Col. II,15).

Per concludere, sui passi sopra riportati occorrerebbe riflettere, ma soprattutto si capisce che Gesù, durante il Sabato, non stava «dormendo», ma stava salvando il mondo.


Gabriele Cianfrani