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sabato 8 aprile 2023

DESCENDIT AD INFERI: IL SABATO SANTO


Nel Triduo pasquale, a volte, si pone attenzione quasi esclusivamente al Venerdì santo e alla Domenica di resurrezione, ma il Sabato santo risulta quasi una sorta di vuoto, una semplice attesa della Domenica (il giorno dopo il sabato). In realtà il Sabato santo è un giorno fondamentale del Triduo pasquale, anzi, è proprio nel Sabato santo che avviene quello sconvolgimento atteso da secoli e secoli. Quando il Simbolo apostolico riporta «discéndit ad inferi» (discese agli inferi), il riferimento è ad una realtà ben precisa. Infatti, nell’ Ufficio delle Letture di oggi, è riportata un’antica «Omelia sul Sabato santo»:

Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi. Certo egli va a cercare il primo padre, come la pecorella smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell’ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva che si trovano in prigione. Il Signore entrò da loro portando le armi vittoriose della croce. Appena Adamo, il progenitore, lo vide, percuotendosi il petto per la meraviglia, gridò a tutti e disse: «Sia con tutti il mio Signore». E Cristo rispondendo disse ad Adamo: «E con il tuo spirito». E, presolo per mano, lo scosse, dicendo: «Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà. […] Sorgi, allontaniamoci di qui. Il nemico ti fece uscire dalla terra del paradiso. Io invece non ti rimetto più in quel giardino, ma ti colloco sul trono celeste. Ti fu proibito di toccare la pianta simbolica della vita, ma io, che sono la vita, ti comunico quello che sono. Ho posto dei cherubini che come servi ti custodissero. Ora faccio sì che i cherubini ti adorino quasi come Dio, anche se non sei Dio. Il trono celeste è pronto, pronti e agli ordini sono i portatori, la sala è allestita, la mensa apparecchiata, l’eterna dimora è addobbata, i forzieri aperti. In altre parole, è preparato per te dai secoli eterni il regno dei cieli».

Non ci sarebbe altro da aggiungere, nonostante l’omelia non sia stata riportata interamente, ma è possibile qualche commento.

Anzitutto è questo il significato di quel meraviglio affresco dell’ἀνάστασις (anastasis) – è l’immagine sopra, scelta per l’articolo – che si trova nella Chiesa di San Salvatore in Chora (Instanbul), dal momento che Cristo, vero Dio e vero uomo, ha compiuto quella redenzione che anche i «giusti» che furono prima di Lui attendevano. Le due persone che nell’affresco si trovano a destra e a sinistra di Cristo, che le prende per mano, sono i progenitori Adamo ed Eva, portati via da quel soggiorno dei morti che va sotto il nome ebraico di Shéol, corrispondente a quello che in greco si chiama ade (cfr. Fil 2,10; At 2,24; Ef 4,9; Ap 1,18). Circa lo Shéol, il noto Dizionario di Teologia Biblica diretto da Xavier Leon-Dufour (e altri) riporta:

Il defunto «non è più» (Sal 39,14; Giob 7,8.21; 7,10): prima impressione di inesistenza, perché l’oltretomba sfugge alle prese dei viventi. Nelle credenze primitive, conservate a lungo dal VT [Vecchio Testamento], la morte non è tuttavia un annientamento totale. Mentre il corpo è deposto in una fossa sotterranea, qualcosa del defunto, un’ombra, sussiste nello šeol. Ma questi inferi sono concepiti in modo molto rudimentale: un buco spalancato, un pozzo profondo, un luogo di silenzio (Sal 115,17), di perdizione, di tenebre, di dimenticanza (Sal 88,12 s; Giob 17,13). Ivi tutti i morti radunati partecipano alla stessa misera sorte (Giob 3,13-19; Is 14,9 s), anche se vi sono gradi nella loro ignominia (Ez 32,17-32). […] Tale è la prospettiva desolante che la morte apre all’uomo per il giorno in cui dev’essere «riunito ai suoi padri» (Gen 49,29). Qui le immagini non fanno che dare una forma concreta ad impressioni spontanee che sono universali ed a cui si limitano ancora molti dei nostri contemporanei (pp. 642-643).

Nonostante vi sia molto da indagare sullo Shéol e soprattutto svolgere un confronto sull’oltretomba con altre religioni, cosa che in parte Leon-Dufour fa, si riporta il superamento dello Shéol grazie alla potenza divina:

Non è in potere dell’uomo salvare se stesso dalla morte: occorre la grazia di Dio, che solo è per natura il vivente. Quando perciò il potere della morte si manifesta sull’uomo, in qualsiasi modo, egli non può che rivolgere a Dio un appello (Sal 6,5; 13,4; 116,3). Allora, se è giusto, può nutrire la speranza che Dio «non abbandonerà la sua anima allo sheol» (Sal 16,10), «libererà la sua anima dagli artigli dello sheol» (Sal 49, 16). Una volta guarito o salvato dal pericolo, renderà grazie a Dio per averlo liberato dalla morte (Sal 18,17; 30; Giona 2,7; Is 38,17), perché appunto di una tale liberazione avrà fatto l’esperienza concreta. Ancor prima che le prospettive della sua fede abbiano superato i limiti della vita presente, egli saprà così che la potenza divina prevale su quella della morte e dello sheol: primo germe di una speranza che si evolverà infine in una prospettiva di immortalità. […] D’altronde la rivelazione, ancor prima di aprire a tutti simili prospettive, aveva illuminato di nuova luce l’enigma della morte dei giusti, attestandone la fecondità. Il fatto che il giusto per eccellenza, il servo di Jahve, sia colpito a morte e «strappato via dalla terra dei viventi», non è privo di significato: la sua morte è un sacrificio espiatorio offerto volontariamente per i peccati degli uomini; con essa si compie il disegno di Dio (Is 53,8-12). Si svela così in anticipo il tratto più misterioso dell’economia della salvezza, che la storia di Gesù porrà in atto. […] Fino a Cristo e senza di lui, c’era il regno della morte; Cristo viene e, con la sua morte, trionfa della morte stessa; da questo istante la morte cambia senso per la nuova umanità che muore con Cristo per vivere con lui eternamente (pp. 646-647).

Questo il breve percorso biblico fino ad arrivare al momento decisivo, ossia il Sabato santo. Da precisare che ciò non sarebbe stato possibile se l’incarnazione del Verbo non fosse avvenuta così com’è avvenuta, ossia l’unione ipostatica, sulla quale si tornerà in altra sede. Il discorso sull’unione ipostatica è così importante da determinare tutto il resto, oltre alla corretta comprensione di tanti fatti. La corretta comprensione dell’incarnazione evita tanti problemi che ultimamente sono emersi nuovamente, ai quali è possibile rispondere con chiarimenti risalenti a molti secoli fa. Uno dei problemi, ad esempio, riguarda la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, in riferimento alla quale si dice: «è venuto Gesù»; «ora Gesù si è trasformato nel pane e nel vino»; «adesso Gesù è venuto dal Cielo ed è nell’ostia». Non è così e un’impostazione simile sminuirebbe enormemente ciò che avviene nella conversione del pane e del vino, poiché sono questi elementi a «convertirsi», ma ciò rimanda ad un altro lavoro.

Tornando al Sabato santo, il Catechismo della Chiesa Cattolica riporta:

La Scrittura chiama inferi, Shéol o ̔Αιδην il soggiorno dei morti dove Cristo morto è disceso, perché quelli che vi si trovano sono privati della visione di Dio. Tale infatti è, nell’attesa del Redentore, la sorte di tutti i morti, cattivi o giusti; il che non vuol dire che la loro sorte sia identica, come dimostra Gesù nella parabola del povero Lazzaro accolto nel «seno di Abramo». «Furono appunto le anime di questi giusti in attesa del Cristo a essere liberate da Gesù disceso all’inferno». Gesù non è disceso agli inferi per liberare i dannati né per distruggere l’inferno della dannazione, ma per liberare i giusti che l’avevano preceduto. «La Buona Novella è stata annunciata anche ai morti…» (1Pt 4,6). La discesa agli inferi è il pieno compimento dell’annunzio evangelico della salvezza. È la fase ultima della missione messianica di Gesù, fase condensata nel tempo ma immensamente ampia nel suo reale significato e estensione dell’opera redentrice a tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, perché tutti coloro i quali sono salvati sono stati resi partecipi della redenzione (CCC, nn. 633-634).

Da questo si capisce che il Sabato santo non è un giorno di «vuoto» o una «semplice attesa», ma il pieno compimento della redenzione. Inoltre, il Catechismo Romano (o Tridentino) riporta notevoli precisazioni:

Con queste parole [discese all’inferno] riconosciamo che, in quel tempo, la medesima persona di Gesù Cristo fu nell’inferno e giacque nel sepolcro, il che non deve sorprendere. Infatti, come spesso abbiamo ripetuto, sebbene l’anima fosse uscita dal corpo, tuttavia la divinità non si separò mai né dall’anima né dal corpo. […] Qui il vocabolo in questione [inferno] vuole significare quelle nascoste sedi, in cui stanno le anime di coloro che non hanno conseguito la beatitudine celeste. La Sacra Scrittura offre molteplici esempi di questo uso. In san Paolo leggiamo: In nome di Gesù, ogni ginocchio si curvi, in cielo, in terra, nell’inferno (Filipp. II, 10). Negli Atti degli Apostoli, san Pietro assicura che Gesù Cristo N. S. risuscitò, dopo aver superato i dolori dell’inferno (Atti II, 24). Tali sedi non son tutte del medesimo genere. Una è quella prigione tenebrosa e orribile, nella quale le anime dei dannati giacciono in un fuoco perpetuo e inestinguibile, insieme agli spiriti immondi. In questo significato abbiamo i termini equivalenti di geenna, abisso, inferno propriamente detto. In secondo luogo c’è la sede del fuoco purgante, soffrendo nel quale, per un determinato tempo, le anime dei giusti subiscono l’espiazione, onde possano salire alla patria eterna, chiusa a ogni ombra di colpa. […] Una terza sede è quella in cui le anime dei santi furono ospitate prima della venuta di Gesù Cristo N. S. Esse vi dimorarono quietamente, immuni da ogni pena, alimentate dalla beatifica speranza della redenzione. […] Gesù Cristo scendendo nell’inferno liberò appunto le anime di questi giusti, aspettanti il Salvatore nel seno di Abramo. […] Tutti vi erano penetrati prigionieri; egli invece, libero e vincitore fra morti, vi entrò per debellare i demòni, dai quali essi erano tenuti prigionieri a causa della colpa originale. […] Così fu compiuta la promessa fatta al buon ladrone: Oggi sarai con me in paradiso (Luc. XXIII, 43). Questa liberazione dei buoni era stata molto tempo innanzi predetta da Osea con queste parole: O morte, io sarò la tua morte; o inferno, io sarò la tua distruzione (Os. XIII, 14); e dal Profeta Zaccaria: Per te, a causa del sangue del tuo patto, io ritirerò i tuoi prigionieri dalla fossa senz’acqua (Zac. IX, 11); nonché dal passo dell’Apostolo: Egli ha spogliato i principati e le potestà, offrendoli a spettacolo e trionfando di loro (Col. II,15).

Per concludere, sui passi sopra riportati occorrerebbe riflettere, ma soprattutto si capisce che Gesù, durante il Sabato, non stava «dormendo», ma stava salvando il mondo.


Gabriele Cianfrani  

 

1 commento:

  1. Complimenti, un testo scritto in maniera eccellente e molto comprensibile.

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