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lunedì 19 dicembre 2022

ET VERBUM CARO FACTUM EST, ET HABITAVIT IN NOBIS

 


Così si legge nel Vangelo secondo Giovanni (1,14), ossia che «il Verbo si fece carne/carne si fece, e venne ad abitare in noi», proprio quel Verbo, quel Lógos per mezzo del quale tutto fu fatto e senza di lui non fu fatto nulla di ciò che è stato fatto (1,3). Alcuni studi evidenziano che sarebbe meglio propendere per un’altra traduzione: «e il Lógos carne si fece e si accampò/si attendò fra noi» (Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν), e ciò con evidenti riferimenti alla «tenda» (σκηνή, skēné) di Es 33,7-11:

Mosè ad ogni tappa prendeva la tenda e la piantava fuori dell’accampamento, lontano dall’accampamento, e l’aveva chiamata tenda del convegno. Chiunque ricercava il Signore usciva verso la tenda del convegno, che era fuori dell’accampamento. Quando Mosè usciva verso la tenda, tutto il popolo si alzava e ognuno stava all’entrata della propria tenda e seguiva Mosè con lo sguardo finché entrava nella tenda. Quando Mosè entrava nella tenda, la colonna di nube scendeva e stava all’ingresso della tenda; ed Egli parlava a Mosè. Tutto il popolo vedeva la colonna di nube che stava all’entrata della tenda: tutto il popolo si alzava e ognuno si prostrava all’ingresso della propria tenda. Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con il suo vicino: poi tornava all’accampamento.

Il richiamo al passo biblico sopra riportato è di estrema importanza, dal momento che la «tenda» indicava la presenza di Dio, o meglio, la dimora di Dio in mezzo al popolo d’Israele nel deserto (cfr. anche Es 25-26). La colonna di nube è una chiara allusione alla presenza di Dio in quel momento, e non a caso il riferimento alla potenza dell’Altissimo che coprirà con la sua ombra la Beata Vergine si riscontra nell’annuncio dell’angelo celeste. L’autore del quarto Vangelo conosceva benissimo la Scrittura (a quel tempo la Legge e Profeti)[1], per cui bisogna considerare sempre questo dato. Infatti, se a quel tempo la dimora di Dio presso il popolo d’Israele era rappresentata dalla «tenda del convegno», con l’incarnazione del Lógos il salto è enorme: Dio è ormai presente in mezzo al suo popolo stabilmente, dal momento che ha assunto natura umana, ossia carne si fece.[2] Ciò è collegato, ovviamente, con il sacrificio sulla croce, che è lo scopo della venuta della seconda Persona della Santissima Trinità. Al riguardo, risulta particolarmente importante quanto è riportato nel Catechismo della Chiesa Cattolica, ossia il motivo dell’incarnazione del Verbo:

n. 456: con il Credo niceno-costantinopolitano rispondiamo confessando: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo»;

n. 457: il Verbo si è fatto carne per salvarci riconciliandoci con Dio: è Dio «che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10). «Il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo» (1Gv 4,14). «Egli è apparso per togliere i peccati» (1Gv 3,5);

n. 458: il Verbo si è fatto carne perché noi così conoscessimo l’amore di Dio: «In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita per lui» (1Gv 4,9). «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16);

n. 459: il Verbo si è fatto carne per essere nostro modello di santità: «Prendete il mio giogo su di voi e imparate da me…» (Mt 11,29). «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). E il Padre, sul monte della trasfigurazione, comanda: «Ascoltatelo» (Mc 9,7). In realtà, egli è il modello delle beatitudini e la norma della Legge nuova: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 15,12). Questo amore implica l’effettiva offerta di se stessi alla sua sequela;

n. 460: il Verbo si è fatto carne perché diventassimo «partecipi della natura divina» (2Pt 1,4): «Infatti, questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, Figlio dell’uomo: perché l’uomo, entrando in comunione con Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio»[3]; «Infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio»[4]; «Unigenitus […] Dei Filius, Suae divinitatis volens nos esse participes, naturam nostram assumpsit, ut homines deos faceret factus homo – L’unigenito […] Figlio di Dio, volendo che noi fossimo partecipi della sua divinità, assunse la nostra natura, affinché, fatto uomo, facesse gli uomini dei».[5]

Questi sono, in breve, i motivi che rispondono alla domanda: perché il Verbo si è fatto carne?

Ora, è chiaro che il riferimento principale è quello circa la salvezza degli uomini nella riconciliazione con Dio, ma la partecipazione alla natura divina, che meriterebbe di essere trattata in altra sede, ha la sua «fondamentale» importanza. Tuttavia, oltre ai peccati in genere, la questione che non può essere persa di vista è quella della colpa di origine, ossia del peccato originale. Infatti, intaccare la rivelazione sul peccato originale vuol dire attentare al mistero di Cristo.[6]

La conseguenza estrema del peccato originale – vi sarebbe da esporre in che modo l’uomo fu creato e in quale stato, per capire pienamente – è stata la «morte»:

Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità e lo ha fatto a immagine della propria natura; ma per invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza quanti sono del suo numero (Sap 2,23-24).

Non bisogna incorrere nell’errore di una sorta di immortalità naturale, poiché l’uomo, come ogni essere vivente sottoposto al movimento (generazione-corruzione) è mortale. L’immortalità – e ciò che ne sarebbe scaturito – era conferita nello stato di grazia da Dio stesso[7], il quale stato consentiva la perfetta armonia tra l’anima e il corpo (giustizia originale). Con la colpa d’origine questa armonia venne meno e la conseguenza più dura fu l’esperienza della morte, non solo fisica. Ora, per non andare nel sottile, sono chiare le parole di Cristo in riferimento alla morte e cosa questa abbia a che fare con la sua venuta:

Le dice Gesù: «Tuo fratello risorgerà». Gli risponde Marta: «So che risorgerà nella risurrezione all’ultimo giorno». Le disse Gesù: «Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se morisse, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai. Credi tu a ciò?». Gli dice: «Sì, Signore. Io ho creduto che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, quello che deve venire nel mondo» (Gv 11,23-27).

Il contesto è quello della risurrezione di Lazzaro. Ebbene, in ultimo, Cristo è venuto per ristabilire quella vita che è la piena comunione con Dio, l’accesso alla patria celeste, perso anzitutto col peccato d’origine e concesso nuovamente da Cristo stesso per mezzo del suo sacrificio. Al riguardo, è certamente illuminante quanto riportato nel Catechismo Romano (Tridentino):

n. 48: in realtà se tutti gli uomini muoiono nel primo [Adamo], tutti sono richiamati a vita nel secondo [Cristo]. E come Adamo è stato il padre del genere umano nell’ordine di natura, così Gesù Cristo è per tutti l’autore della grazia e della gloria (Rom. V,14). Parimente si può stabilire un’analogia fra la Vergine Madre, seconda Eva, e la prima […]. Avendo creduto alle lusinghe del serpente (Gen. III,6), Eva attirò sul genere umano la maledizione e la morte; avendo Maria creduto all’annuncio dell’angelo, fece sì che la bontà di Dio ridonasse agli uomini benedizione e vita. A causa di Eva nasciamo figli della collera (Efes. II,3); ma da Maria ricevemmo Gesù Cristo, per merito del quale siamo rigenerati come figli della grazia;

n.51: mentre mediteranno tutto ciò, i fedeli non dimenticheranno che Dio volle sottostare all’umile fragilità della nostra carne, affinché il genere umano fosse innalzato al più alto livello della dignità.

Questi testi sono molto chiari. Pertanto, il Lógos si è incarnato principalmente per ciò e continua ad essere presente per mezzo della Chiesa, suo corpo mistico. In che modo? Principalmente attraverso i «sacramenti» e soprattutto con la santa «Eucaristia».

Per concludere, le parole del Doctor Angelicus risultano alquanto limpide:

Benché il primo peccato del progenitore abbia infettato tutta la natura umana, questa al contrario non ha potuto essere riparata per la sua penitenza o per qualsiasi merito. È chiaro infatti che la penitenza di Adamo o qualsiasi altro suo merito fu un atto della persona singola; ora, l’atto di un individuo non ha alcuna influenza su tutta la natura della specie [umana]. […] Quindi il merito singolare di Adamo, o di qualsiasi altro puro uomo, non ha potuto essere sufficiente per reintegrare tutta la natura umana. Che poi per un atto singolo del primo uomo sia stata viziata tutta la natura umana avvenne per accidens, in quanto, privato lui dello stato di innocenza, [l’innocenza] non poteva attraverso di lui derivare negli altri. […] ora, la grazia non si acquista con i meriti, ma è concessa gratuitamente da Dio: perciò, come il primo uomo ebbe all’inizio la giustizia originale non per proprio merito, ma per un dono divino, così molto meno la poté meritare mediante la penitenza, o compiendo qualsiasi altra opera, dopo il peccato. […] Era dunque conveniente che Dio si facesse uomo, così che uno solo potesse nello stesso tempo riparare e soddisfare. Ed è questa la causa della divina incarnazione che viene indicata dall’Apostolo quando afferma: «Cristo Gesù è venuto in questo mondo per salvare i peccatori» [1Tm 1,9-11].[8]

Insomma, quello del Natale è senza dubbio un tempo di dolcezza, di vicinanza, di luce, di calore – anche se la stagione è quella invernale –, di regali ecc. Ma è bene ribadire che qualora mancasse il riferimento a Cristo, o meglio, «al» Cristo, tutto ciò non avrebbe alcun senso… Nemmeno uno. Con il Cristo e in riferimento a Lui, tutto raggiunge il senso ultimo. Pertanto, in questa novena di Natale, il mio augurio è che si possa certamente ritrovare l’unità e la pace, ma in Cristo, il quale dà la pace ma non come la dà il mondo, e che si riscopra la vita cristiana scaturita dai sacramenti, ultimamente così poco considerati e che invece sono il prolungamento di Cristo in mezzo a noi, in mezzo alla sua Chiesa.


Gabriele Cianfrani                          



[1] In merito alla «questione dell’autore» del quarto Vangelo vi sono diverse posizioni da parte di studiosi di notevole spessore (Martin Hengel, Raymond Edward Brown, Xavier Leon-Dufour, Rudolf Schnackenburg e altri), per cui non è possibile neanche accennare alla quesitone. La modesta opinione di chi scrive rimanda alla origine apostolica dei quattro Vangeli, da intendere come riporta la Dei Verbum: la Chiesa ha  sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i quattro Vangeli siano di origine apostolica. Infatti, ciò che gli Apostoli per mandato di Cristo predicarono, dopo, per ispirazione dello Spirito Santo, fu dagli stessi e da uomini della loro cerchia tramandato in scritti, come fondamento della fede, cioè l’Evangelo quadriforme, secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni (Conc. Vat. II, Dei Verbum; cfr. Ireneo di Lione, Adversus haereses, III, 11,8: PG 7,885). In questo estratto vi sono tantissimi elementi, ma che per evidenti motivi di estensione non è possibile sviluppare.

[2] Appare così in questa frase un’allusione all’antica Tenda dell’Incontro, dimora di Dio fra gli israeliti durante la loro peregrinazione per il deserto, nella prima epoca di Israele (Es 33,7-10), e rimpiazzata più tardi dal santuario di Gerusalemme (2Sam 7,1-13; 1Re 5,15-19; 6,1ss.). Quella presenza di Dio è ormai sostituita da questa: la tenda di Dio, il luogo dove egli abita in mezzo agli uomini, è un uomo, una «carne» (J.Mateos – J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni. Analisi linguistica e commento esegetico, Cittadella Editrice, Assisi 20165,p.63).

[3] Ireneo di Lione, Adversus haereses, III, 19,1: PG 7,939.

[4] Atanasio di Alessandria, De Incarnatione, 54,3: PG 25,192.

[5] Tommaso d’Aquino, Officium de festo corporis Christi, Ad Matutinas, In primo Nocturno, Lectio 1.

[6] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 389.

[7] È insegnamento ormai della Chiesa quello riguardante i doni preternaturali (integrità, immortalità, impassibilità, scienza infusa) e il dono soprannaturale (grazia santificante), come riportato nel Catechismo Maggiore di san Pio X, n. 57. L’armonia che vi fu in questo stato di grazia e la partecipazione alla vita divina è chiamata «santità originale» (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 375).

[8] Tommaso d’Aquino, Compendio di teologia, I, cc. 198-200.