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giovedì 31 agosto 2023

RECENSIONE DEL LIBRO "L'ADESIONE DIABOLICA. UNA SFIDA ANTICA FRA DANNAZIONE E SALVEZZA" DEL PROF. ALBERTO CASTALDINI


 

Alberto Castaldini, L’adesione diabolica. Una sfida antica fra dannazione e salvezza, Sugarco Edizioni, Milano 2023

Recensione a cura di Gabriele Cianfrani

 

Il libro che ho il piacere di recensire, dedicato al grande esorcista e Servo di Dio P. Candido Amantini (1914-1992), è “L’adesione diabolica. Una sfida antica fra dannazione e salvezza” del Prof. Alberto Castaldini[1], che conosco personalmente e al quale va la mia stima e la mia gratitudine per un lavoro come questo. Sì, perché il Prof. Castaldini pone in luce alcuni aspetti antropologici – e non solo – di grande importanza, chiamati in causa a fronteggiare quell’azione diabolica nei confronti della quale, purtroppo ma molto spesso, si finisce per assecondarla, o meglio, per «aderirvi». Questo aspetto risulta centrale e lo si capisce già dal primo capitolo: La libertà spezzata. È proprio dalla libertà, che viene talmente piegata da «spezzarsi», che tutto ha inizio.

È importante, soprattutto per lo smarrimento odierno su temi come quello trattato dal Prof. Castaldini, dato che quando si parla del Maligno il riferimento non è ad una realtà impersonale, ma certamente personale, dal momento che il Maligno è un angelo caduto e come tutti gli angeli (buoni e cattivi) è una «persona»: omne subsistens in natura rationali vel intellectuali est persona (Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, IV, c. 35). Ciò emerge chiaramente sia dalla prefazione di don Silvio Zonin (esorcista della diocesi di Verona) sia dall’introduzione dell’Autore.

Ora, la libertà dell’uomo, che come facoltà spirituale rientra nella sua costituzione ontologica, conobbe il primo ostacolo con i progenitori Adamo ed Eva. Senza svolgere particolari approfondimenti, è possibile notare che alla domanda del serpente (cfr. Gen 3,1) la donna risponde inserendo il «non toccare» (cfr. Gen 3,3), ossia inserisce del suo al divieto divino, acconsentendo al serpente, per poi ritrovarsi con la libertà piegata, o meglio, spezzata. Tale stato poteva essere sanato soltanto dal rinnovamento della creazione in Cristo, come risulta dall’epilogo del libro (Per una creazione rinnovata in Cristo), che concede la partecipazione alla natura divina (cfr. 2Pt 1,4) per mezzo della gratia gratum faciens conferita sacramentalmente, a partire dal sacramento del Battesimo (cfr. Gal 3,27).

Passando in rassegna alcuni punti, il Prof. Castaldini pone in evidenza il fatto che l’«adesione» diabolica, per essere tale, non può non coinvolgere l’intelletto e la volontà. Infatti, nel primo capitolo egli scrive: «[…] in cui la tentazione viene perfezionata dalla volontà umana in iniziative che penetrano e si radicano nel vissuto concreto, quotidiano, abituale, proprio e altrui» (p. 36). In questo passo emerge un aspetto molto importante, ossia che la tentazione del Maligno non si pone in maniera totalmente estranea all’essere umano, altrimenti non vi sarebbe adesione alcuna, ma si radica nel vissuto, e se si radica nel vissuto vuol dire che si radica in ciò che la volontà umana cerca per sua natura: il bene. Infatti, se l’oggetto della volontà è il bene conosciuto, ossia il bene presentato come tale dall’intelletto, la volontà è disposta naturalmente ad aderirvi. Ma se questo bene venisse falsamente presentato come tale, ossia un male sotto le sembianze di bene, allora occorrerebbe una seria valutazione che chiami in causa l’agire morale, incluso il dinamismo delle virtù, che implica sia la potenza dell’intelletto sia quella della volontà. Ciò permette che un bene sia conosciuto e riconosciuto come tale. Tuttavia, come ben scrive l’Autore, spesse volte nel cooperatore di iniquità si confonde ogni criterio di discernimento. Ed ecco che dal punto di vista psichico e morale, la fragilità umana – spesse volte evocata come una vera e propria scusa… – non esonera l’uomo dal suo agire morale. Se è vero, come è vero, che agere sequitur esse, all’«adesione» diabolica segue un vero e proprio «assoggettamento», dal momento che viene coartato il vero agire libero dell’uomo, per cedere il passo alla negazione della libertà umana, ergo alla negazione dell’essere: «[…] poiché il diavolo, ribellandosi, negò l’essere, e con esso sconvolse l’armonia della creazione oltre a negare Dio, se stesso e gli uomini» (p. 40). Ora, tra i vari aspetti che il Prof. Castaldini evidenzia, ve ne sono alcuni e tutti di estrema importanza: la deformazione della intelligenza dei demòni, pur conservando quella volontà che continuamente aderisce al male (cfr. pp. 41-42); la falsa mistica come ricerca irrequieta che vuole trasformare l’uomo, cercando di elevarlo in modo illusorio decretando la sua rovina, facendo a meno di Dio (cfr. p. 49); l’adesione alle tenebre che giunge al cuore della questione antropologica situandosi nel nucleo ontologico dell’uomo (cfr. p.52); l’immaginazione creatrice che si riscontra nel mondo dell’occulto e che tende ad una vera e propria autodivinizzazione, subordinando a ciò anche la Rivelazione divina (cfr. 60-61) ed altri. Tra i vari aspetti ritengo particolarmente importante soffermare l’attenzione su quello relativo alla «soggezione/assoggettamento» conseguente alla «adesione». Lungi dal voler presentare il male come una sorta di algoritmo senza volto, come tante volte capita di constatare nell’epoca odierna, che ha quasi perso il concetto del volto (cfr. p. 121) e di conseguenza dell’identità, ergo della personalità, non vi sarebbe adesione diabolica se mancassero gli atteggiamenti attivo e cooperante, ossia volontario (cfr. p. 82). Cosa comporterebbe l’adesione alla proposta del Maligno? Non solo ciò che si definisce «peccato», ma un progressivo deterioramento ontologico. Certamente, non si mette in discussione l’immortalità dell’anima intellettiva, ossia l’anima umana – ovvio! –, ma certamente l’uomo, considerato nella sua totalità di anima e corpo, nonostante sia chiamato da Dio alla perfezione eterna, può incorrere nella più grande imperfezione, ossia la dannazione eterna. Se Dio è l’Essere per sé sussistente che partecipa l’essere alle creature, e l’essere come atto è la perfezione di tutte le perfezioni, l’incontro eterno con Dio comporta il compimento della perfezione umana, e sul piano soprannaturale comporta la piena partecipazione alla Bontà divina – già la grazia santificante agisce soprannaturalmente sul piano ontologico. Non solo, ma sia l’intelletto umano sia la volontà umana troveranno in Dio il pieno appagamento, Colui che solo può appagare in pienezza l’essere umano, essendo Egli somma Verità e somma Bontà. Tutto ciò corrisponde ad una vera e propria perfezione ontologica della creatura umana.

Al contrario, l’adesione diabolica, che non può non includere il moto della volontà verso l’oggetto diabolicamente presentato, mira a condurre ad una vera e propria dipendenza morale dal demonio, tale da provare una sorta di gusto del peccato (cfr. p. 80). Ciò si riscontra nell’opposizione tra «virtù» e «vizi». Ed ecco che l’agire morale, in quanto tale, non può prescindere né dall’intelletto né dalla volontà, infatti, l’Apostolo dice: […] lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto (Rm 12,2). Si noti l’ordine adoperato dall’Apostolo: pensiero – volontà. Il discernimento avviene sul piano intellettivo e successivamente subentra quello volitivo. Ma come l’intelletto presenta alla volontà il suo oggetto, così la stessa volontà muove l’intelletto e le due facoltà s’incontrano sul campo della libertà. Come riporta il Catechismo della Chiesa Cattolica: la libertà è il potere, radicato nella ragione e nella volontà, di agire o di non agire, di fare questo o quello, di porre così da se stessi azioni deliberate. Grazie al libero arbitrio ciascuno dispone di sé. La libertà è nell’uomo una forza di crescita e di maturazione nella verità e nella bontà. La libertà raggiunge la sua perfezione quando è ordinata a Dio, nostra beatitudine (n. 1731).

Nell’«adesione» diabolica è proprio la libertà ad essere coartata, impedendo alla creatura umana di raggiungere la sua perfezione in Dio, sfociando in quell’assoggettamento che non è altro che il risultato di un’adesione continua, scegliendo di partecipare al mysterium iniquitatis, e ciò volontariamente, fino a subire una certa conformazione a quest’ultimo.

Quale sarebbe il punto di partenza? Il Prof. Castaldini parla di stupidità metafisica (p. 65) nel rifiuto della propria creaturalità e di conseguenza nel rifiuto del progetto divino. È tutto concatenato, dacché Dio ha creato l’uomo per un progetto soprannaturale e l’uomo «aderisce» a tale progetto accettando, anzitutto, la propria creaturalità.

Oggi più che mai è necessario il ritorno ad una sana metafisica, anzitutto di stampo tomista, anziché chiudersi in quell’antropocentrismo falsamente presentato come bene per l’uomo, ma che in realtà continua imperterrito nell’estromissione di Dio dalla storia dell’uomo.

Ora, il rifiuto di Dio comporta il rifiuto della somma Bontà conseguente al rifiuto della propria creaturalità, nella convinzione di poter fare a meno, ontologicamente, di Colui che è (Es 3,14). Un rifiuto del genere implica la tendenza al non essere, nella negazione dell’essere, e non a caso il Maligno è colui che nega soprattutto ciò che il Creatore ha elargito sin dal principio: l’essere. La negazione dell’essere equivale alla negazione non solo di se stessi ma anche di Dio, con la differenza che Dio non può essere negato e non corre il rischio della dannazione, l’uomo sì, dacché con l’«adesione» diabolica si assoggetta a colui che è irreversibilmente dannato e che tende a negare anche se stesso pur di negare Dio Creatore. E in tal caso la conformazione al mysterium iniquitatis diventa così grande da propendere, addirittura, per la contraddizione, estranea persino a Dio. Ma il Verbo incarnato ha mostrato anche questo, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori (Lc 2,35). Ancora una volta la Beata Vergine, inseparabile dal Figlio eterno del Padre e sempre piena dello Spirito Santo, è il modello perfetto della perfezione umana corrisposta al progetto di Dio.

Un ringraziamento al Prof. Castaldini per aver messo in luce, nel suo libro, quello che a questo punto sembra essere l’aspetto più importante: la dipendenza ontologica e antropologica dell’uomo da Colui che è l’Essere per sé sussistente e sommamente Persona, offuscate dall’azione del Maligno, ma che dal riconoscimento di tale dipendenza creaturale dipende la salvezza o la dannazione.



[1] Laureato in Giurisprudenza e dottore di ricerca in Filosofia, è docente universitario, membro associato della Facoltà di Teologia Greco-Cattolica dell’Università Babeş-Bolyai di Cluj, in Transilvania, dove insegna filosofia e teologia della storia. Dal 2006 al 2010 ha diretto l’Istituto Italiano di Cultura di Bucarest e ha ricoperto l’incarico di addetto culturale dell’Ambasciata d’Italia in Romania. Collabora come esperto con l’Associazione Internazionale Esorcisti (AIE).


mercoledì 30 agosto 2023

CENNI DI ERMENEUTICA BIBLICA (parte 2)

 


Nel precedente articolo (clicca qui) è stato riportato che l’interpretazione autentica, sulla base della Dei Verbum n. 10, è quell’ufficio riservato al solo Magistero della Chiesa. Tuttavia, potrebbe sorgere una domanda: se tale ufficio è riservato al Magistero, quale sarebbe il compito degli studiosi?

Una domanda del tutto legittima, infatti, gli studiosi sono molto importanti in quanto preparano ciò su cui il Magistero si esprimerà, qualora lo ritenesse opportuno. È possibile notare tanti lavori di eminenti studiosi del campo biblico, con approfondimenti e commenti, e questi studi sono fondamentali non solo per la ricerca biblica, ma perché offrono il materiale per eventuali interventi magisteriali – da non dimenticare che il contenuto del Magistero è la fede e la morale (fides et mores). Seguendo il Discorso di San Giovanni Paolo II del 23 aprile 1993 riportato dalla Pontificia Commissione Biblica (L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa):

 

«Desidero oggi mettere in risalto alcuni aspetti dell’insegnamento di queste due Encicliche [Providentissimus Deus di Leone XIII e Divino afflante Spiritu di Pio XII] e la validità permanente del loro orientamento attraverso circostanze mutevoli al fine di poter meglio beneficiare del loro contributo. In primo luogo, si nota fra questi due documenti un’importante differenza. Si tratta della parte polemica – o, più precisamente, apologetica – delle due Encicliche. Infatti, l’una e l’altra manifestano la preoccupazione di rispondere agli attacchi contro l’interpretazione cattolica della Bibbia ma questi attacchi non andavano nella stessa direzione. La Providentissimus Deus, da una parte, vuole soprattutto proteggere l’interpretazione cattolica della Bibbia dagli attacchi della scienza razionalista; dall’altra, la Divino afflante Spiritu si preoccupa piuttosto di difendere l’interpretazione cattolica dagli attacchi che si oppongono all’utilizzazione della scienza da parte degli esegeti e che vogliono imporre un’interpretazione non scientifica, cosiddetta «spirituale», delle Sacre Scritture. Questo cambiamento radicale della prospettiva era dovuto, evidentemente, alle circostanze. La Providentissimus Deus fu pubblicata in un’epoca segnata da forti polemiche contro la fede della Chiesa. L’esegesi liberale forniva a queste polemiche un sostegno importante, poiché essa utilizzava tutte le risorse delle scienze, dalla critica testuale alla geologia, passando per la filologia, la critica letteraria, la storia delle religioni, l’archeologia e altre discipline ancora. Al contrario, la Divino afflante Spiritu venne pubblicata poco tempo dopo una polemica del tutto differente, condotta, soprattutto in Italia, contro lo studio scientifico della Bibbia. Nell’uno e nell’altro caso, la reazione del Magistero fu significativa, poiché, invece di attenersi a una riposta puramente difensiva, esso andava a fondo del problema e manifestava così – notiamolo subito – la fede della Chiesa nel mistero dell’Incarnazione. […] Costatiamo così che, nonostante la grande diversità delle difficoltà da affrontare, le due Encicliche si riuniscono perfettamente a livello più profondo. Esse rifiutano, sia l’una che l’altra, la rottura tra l’umano e il divino, tra la ricerca scientifica e lo sguardo della fede, fra il senso letterale e il senso spirituale. Esse si mostrano su quel punto pienamente in armonia con il mistero dell’Incarnazione».

 

Dalle parole di San Giovanni Paolo II si capisce quanto la ricerca scientifica nel campo biblico sia incoraggiata! E questo incoraggiamento è rivolto a tutti gli studiosi del campo, in modo particolare agli esegeti. È la posizione espressa dalla Dei Verbum:

 

È compito degli esegeti contribuire secondo queste norme alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della Sacra Scrittura, fornendo i dati previi, dai quali si maturi il giudizio della Chiesa. Quanto, infatti, è stato qui detto sul modo di interpretare la Scrittura, è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e mistero di conservare e interpretare la parola di Dio (n.12).

 

Chiarita l’importanza determinante degli studiosi anche per i successivi compiti del Magistero, è doveroso passare, brevemente, alla esposizione delle tre grandi parti della ermeneutica biblica, come ricordato dall’articolo precedente (qui): la noematica (da νόημα = pensiero), ossia l’analisi dei vari sensi della Scrittura; l’euristica (da εὑρίσκειν = trovare), ossia l’insegnamento per trovare i sensi della Scrittura; la proforistica (da προφέρειν = proferire, enunziare), ossia il modo di esporre il senso così trovato e per l’uso della Chiesa. Il testo di riferimento sarà sempre L. Moraldi I.M.C. – S. Lyonnet S.J. (ed.), Introduzione alla Bibbia. Corso sistematico di studi biblici, I. Introduzione generale, Marietti, Torino 1960. In questa sede si prenderà in esame la noematica, mentre l’euristica e la proforistica saranno trattate nel prossimo articolo.

Per quanto riguarda la noematica, e partendo dal senso letterale, è possibile strutturare nel modo seguente.

 

Senso letterale

a) a seconda dei termini usati:         

- proprio (l’utilizzo delle parole nel loro significato originale);

- improprio (l’utilizzo delle parole in maniera figurata, ma con una certa attinenza col significato della parola originaria: «l’agnello di Dio», in riferimento a Cristo).

Il senso letterale improprio presenta altre divisioni:

paragone: confronto di due termini mediante qualche particella similitudinaria, i termini sono presi in senso proprio («come un agnello davanti a chi lo tosa»);

metafora: confronto di due termini ma con verbo «essere», non con particella similitudinaria, e i termini sono preso in senso figurato («[Cristo è] l’agnello di Dio»);

parabola: sviluppo del paragone, con termini presi in senso proprio;

allegoria: sviluppo della metafora, con termini presi in senso figurato o traslato.

Il simbolo, che si riscontra nella Scrittura, a differenza del tipo (da cui la lettura tipologica), svolge la funzione di significare qualcos’altro; il tipo ha ragione di essere anche in se stesso e non esclusivamente in altro.

 

b) a seconda dell’intenzione dell’autore:       

- esplicito: ciò che risulta a prima vista dalle parole;

- implicito: ciò che risulta nascosto nelle parole o nella totalità del testo;

- pieno: ciò che si riferisce ordinariamente a Dio, senza sorpassare il senso letterale, ma comunque al di sopra della portata dell’agiografo, ossia lo scrittore sacro (ad esempio, il passo di Is 7,14 non parla di una «vergine», ma di una «giovane donna», e il richiamo di tale passo in Mt 1,23 sostituisce la «giovane donna» con la «vergine», dando senso pieno a quel passo di Is 7,14);

- eminente: ciò che si dice in modo eminente di uno della collettività, in maniera tale che quella eminenza coinvolga la stessa collettività (ad esempio, la discendenza della donna o la discendenza di Davide, ossia la parte buona degli uomini o della casa/dinastia di Davide).

 

Per quanto riguarda il senso spirituale, la Pontificia Commissione Biblica è chiara:

 

come regola generale, possiamo definire il senso spirituale, compreso secondo la fede cristiana, il senso espresso dai testi biblici quando vengono letti sotto l’influsso dello Spirito Santo nel contesto del mistero pasquale di Cristo e della vita nuova che ne risulta. Questo contesto esiste effettivamente. Il Nuovo Testamento riconosce in esso il compimento delle Scritture. È perciò normale rileggere le Scritture alla luce di questo nuovo contesto, quello della vita nello Spirito. […] Contrariamente a un’opinione corrente, non c’è necessaria distinzione tra questi due sensi [letterale e spirituale]. […] Quando c’è una distinzione, il senso spirituale non può mai essere privato dei rapporti con il senso letterale che ne rimane la base indispensabile; diversamente, non si potrebbe parlare di «compimento» della Scrittura. […] Il senso spirituale non è da confondere con le interpretazioni soggettive dettate dall’immaginazione o dalla speculazione intellettuale. Esso scaturisce dalla relazione del testo con certi dati reali che non gli sono estranei, l’evento pasquale e la sua inesauribile fecondità, che costituiscono il vertice dell’intervento divino nella storia di Israele, a vantaggio di tutta l’umanità (L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, pp. 74-75).

 

Il senso spirituale, che in alcuni testi si trova come senso tipico, si divide in:

- allegorico (da non confondere con l’allegoria del senso letterale improprio): ha per oggetto Cristo o la Chiesa;

- tropologico o morale: riguarda una lezione concernente la morale;

- anagogico: ha per oggetto le cose riguardanti la vita futura.

 

Quella riportata è una breve esposizione di ciò che riguarda la noematica, dal momento che vi sarebbero da fare altri approfondimenti, ma per questo si rimanda ai testi specifici. Tuttavia, non è possibile impoverire il senso letterale, come purtroppo avviene spesso, col risultato della mancata comprensione del testo biblico. Quello letterale è il senso più articolato! Si consiglia vivamente ciò che scrive san Tommaso d’Aquino in Summa Theologiae, I, q. 1 a. 10, in cui anche l’historia, l’aetiologia e l’analogia ad unum litteralem sensum pertinet. Inoltre, per concludere, spesse volte si accusa Origene († 254 d.C. ca.) di aver «spiritualizzato» troppo la Scrittura. In realtà Origene, che è stato tra i massimi esegeti della storia della Chiesa – basta leggere il suo commento al Padre Nostro –, distingueva tre tipi di lettura in base alla concezione antropologica. Egli distingueva, antropologicamente, tra somatici, psichici e pneumatici, per cui abbiamo: somatico/letterale (proprio) – psichico/morale – pneumatico/allegorico (letterale improprio e/o tipologico). Pare che egli intendesse dire che non tutti i passi della Scrittura godano di senso letterale «proprio» (somatico o corporeo), e in questo aveva perfettamente ragione (cfr. L. Moraldi I.M.C. – S. Lyonnet S.J. (ed.), Introduzione alla Bibbia. Corso sistematico di studi biblici, I. Introduzione generale, Marietti, Torino 1960, p. 182). Pertanto, Origene non è un Padre della Chiesa per precisi motivi, va bene, ma alcune posizioni ostinatamente contro di lui dovrebbero essere riviste.

 

 

Gabriele Cianfrani


martedì 29 agosto 2023

CENNI DI ERMENEUTICA BIBLICA (parte 1)


 

In questi ultimi tempi fanno ritorno alcune questioni alle quali la Chiesa ha già dato risposte, in modo particolare le seguenti: come bisogna interpretare alcuni passi della Bibbia; cosa occorre per capire il senso di un preciso passo biblico; l’attendibilità del simbolismo biblico; difficoltà di alcuni passi che risulterebbero contraddittori e così via – in quest’ultimo caso occorrerebbe richiamare il tema della «ispirazione» dei testi sacri, con le dovute precisazioni anche per quel che riguarda l’essere Parola di Dio estrinsecamente (formalmente intesa) e l’essere Parola di Dio intrinsecamente (materialmente intesa). Non è un caso che quello dell’ispirazione sia uno dei temi meno compresi, quasi da risultare poco credibile, ma per il semplice motivo che non è chiaro in cosa consista l’ispirazione biblica. Ciò sarà trattato in altra sede.

Le questioni riportate sono più che legittime, e il più delle volte sono questioni che, nonostante siano già state trattate, al giorno d’oggi pare che restino ancora aperte, o meglio, che si vogliano riaprire. Inutile precisare che occorrerebbe svolgere un percorso biblico per trattare le questioni sopra riportate ed altre, ma per il momento è possibile riportare solo alcuni cenni di ermeneutica biblica. Per far ciò si prenderà come testo di riferimento il seguente: L. Moraldi I.M.C. – S. Lyonnet S.J. (ed.), Introduzione alla Bibbia. Corso sistematico di studi biblici, I. Introduzione generale, Marietti, Torino 1960. Perciò il numero di pagine che si riscontreranno si riferiranno a questo testo. Inoltre, si rimanda anche a un altro testo: Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, 2014.

Anzitutto la parola «ermeneutica» (dal greco ἑρμενευτική) riguarda quella interpretazione, quella arte interpretativa che non riguarda solo il testo biblico, ma ogni altro testo, soprattutto un testo antico. San Girolamo scriveva che «dovere del commentatore è di esporre non il pensiero proprio, ma quello di colui che egli spiega» (Ep. 48 ad Pamm., 17). Ed è proprio ciò che s’intende conseguire con l’interpretazione, che non è libera e svicolata da tutto, come una sorta di voler far dire al testo ciò che si vuole – non pochi, oggi, credono questo in merito alla Bibbia, ma non è la posizione cattolica e non è neanche corretta ermeneutica –, ma deve attenersi a criteri ben precisi:

 

l’ermeneutica in genere è quella disciplina che insegna le regole per interpretare un libro e il modo di ben applicarle, allo scopo di intenderne il vero senso, che è quello inteso dall’autore. Nell’ermeneutica biblica questo libro è la Bibbia. […] Giova avvertire subito che, siccome la S. Scrittura non è un libro come tutti gli altri, ma un libro divino-umano, vi si troveranno sensi (e quindi regole d’interpretazione) strettamente suoi particolari, oltre a quelli comuni agli altri libri (p. 177).

 

Non solo, ma bisogna tener conto sia del senso (quel determinato concetto che l’autore intende esprimere con le sue parole) sia il significato (il concetto inerente alle singole parole oggettivamente, indipendentemente dall’intenzione soggettiva dell’autore) di ciò che si vuole sottoporre alla interpretazione (cfr. p. 177). Questo è molto importante, dal momento che la Bibbia, in quanto Parola di Dio, è rivolta all’uomo ed esige di essere interpretata, spiegata – ossia togliere le pieghe facendo emergere ciò che si nasconde sotto, ma senza rimuovere i segni delle pieghe.

Precisazione doverosa: per «Parola di Dio» non bisogna intendere solo la Bibbia, ma anche la Tradizione divino apostolica – quest’ultima godrebbe di precedenza, considerata non dal punto di vista consecutivo ma dal punto di vista costitutivo –, poiché sia l’una che l’altra costituiscono le due fonti della Rivelazione divina, come riporta la Costituzione dogmatica su «La divina rivelazione» (Dei Verbum):

 

La Sacra Tradizione dunque e la Sacra Scrittura sono strettamente tra loro congiunte e comunicanti. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo una cosa sola e tendono allo stesso fine. Infatti la Sacra Scrittura è parola di Dio in quanto scritta per ispirazione dello Spirito di Dio; la Sacra Tradizione poi trasmette integralmente la parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli Apostoli, ai loro successori [i vescovi], affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano; accade così che la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura. Perciò l’una e l’altra devono essere accettate con pari sentimento di pietà e rispetto (n. 9).

 

Questo numero della Dei Verbum è molto importante e non è possibile dimenticarlo. Tuttavia, per non appesantire quella che vuole essere una breve esposizione di ciò che riguarda l’ermeneutica biblica, si rimanda a tre encicliche fondamentali per lo studio biblico: Spiritus Paraclitus di Benedetto XV (1920); Providentissimus Deus di Leone XIII (1893); Divino afflante Spiritu di Pio XII (1943), oltre che alla Dei Verbum del Concilio Vaticano II.

 

In questa sede è necessario chiarire due punti:

1) a chi spetta ufficialmente il compito d’interpretare la Scrittura;

2) come si divide il trattato sull’ermeneutica biblica.

 

Per quanto riguarda il primo punto, ci viene in soccorso la Dei Verbum:

 

l’ufficio poi d’interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa è affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo. Il quale Magistero però non è superiore alla parola di Dio ma ad essa serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato da Dio. È chiaro dunque che la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti da non potere indipendentemente sussistere, e tutti insieme, secondo il proprio modo, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime (n. 10).

 

A questo punto sorge una domanda: cosa sarebbe il Magistero della Chiesa?

Nulla di cui preoccuparsi, men che mai accingersi alla ‘interpretazione personale o privata’ della Bibbia, poiché il Magistero è quell’ufficio esercitato dai Vescovi in comunione con il Romano Pontefice (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 85), dal momento che godono della pienezza del sacramento dell’Ordine e di conseguenza della pienezza del munus docendi («Chi ascolta voi ascolta me», come si legge in Lc 10,16). Il Magistero, ossia questo particolare ufficio dei successori degli Apostoli (i vescovi) in comunione con il Successore di Pietro (il Romano Pontefice), si esprime su ciò che riguarda la fede e la morale (fides et mores) e viene solitamente distinto in due forme di esercizio: ordinario e straordinario o solenne, ma che può essere anche non solenne, e allora si chiamerà Magistero ordinario universale.

Con la forma ordinaria, s’intende il modo normale di esercitare il munus docendi della Chiesa, dei successori degli Apostoli e di Pietro – dev’essere chiaro, poiché una battuta o una risata non può essere considerata Magistero… –, alla quale forma è richiesto l’ossequio da parte del fedele.

Con la forma straordinaria, s’intende sia quell’intervento o pronunciamento magisteriale da parte del Romano Pontefice, quando emana una definizione dogmatica ex cathedra, sia la definizione di un dogma da parte di un Concilio Ecumenico. Tale è il Magistero in forma straordinaria e solenne. Nel caso non fosse solenne, si avrebbe il Magistero ordinario universale, che non è altro un modo di esercizio del Magistero straordinario. Ciò che cambia è che in tal modo si indica la continuità ininterrotta nel proporre un dato insegnamento, per cui i vescovi in comunione col Papa, nonostante dispersi per il mondo, convergono sua una particolare dottrina da proporre al popolo di Dio. Alla forma straordinaria è richiesto l’assenso di fede.

Pertanto, l’interpretazione della Scrittura spetta al Magistero della Chiesa e non è affare privato (cfr. 2Pt 1,20).

Per quanto riguarda il secondo punto, bisogna considerare che l’ermeneutica biblica si divide in tre grandi parti, ognuna delle quali si divide in altre parti: la noematica (da νόημα = pensiero), ossia l’analisi dei vari sensi della Scrittura; l’euristica (da εὑρίσκειν = trovare), ossia l’insegnamento per trovare i sensi della Scrittura; la proforistica (da προφέρειν = proferire, enunziare), ossia il modo di esporre il senso così trovato e per l’uso della Chiesa (cfr. p. 177).

È il caso di rimandare l’esposizione sulla noematica al prossimo articolo, anche perché occorrerà trattare anche del senso letterale, così tanto poco considerato e/o compreso, mentre si tratta del senso più articolato, sia per quanto riguarda i termini utilizzati sia per l’intenzione dell’autore.

 

 

Gabriele Cianfrani