In questo giorno in cui si celebra la solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, due figure estremamente determinanti per la Chiesa, occorre riportare alcuni brani biblici che certamente esprimono tale grandezza.
«Quanto a me, il mio
sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere
le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho
conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore,
giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti
coloro che attendono con amore la sua manifestazione. Il Signore però mi è
stato vicino e mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la
proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili: e così fui
liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi
salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen»
(2Tm 4,6-8.17-18).
Il brano è tratto dalla
seconda lettera a Timoteo, la quale è definita da alcuni studiosi come
deuterocanonica o discussa. Sebbene le lettere di san Paolo, ossia il «corpus
paulinum», si trovi già nel «Canone Muratori/muratoriano» (sec. II d.C.), vi
sono alcune lettere sulle quali sono condotti studi accurati per valutare una
sorta di canonicità discussa e/o indiscussa. Dal momento che il canone biblico
definitivo è stato stabilito nel Concilio di Trento (1545-1563), e tale canone
è appunto normativo per il fedele, la ricerca biblica non può non continuare. Da
ricordare il fatto che è la Tradizione divino apostolica ad illuminare
sulla canonicità dei testi sacri, non una decisione arbitraria. Cos’è la Tradizione
apostolica? Lo dice chiaramente la costituzione dogmatica sulla Divina
Rivelazione, ossia la Dei Verbum:
«Cristo Signore […] ordinò
agli Apostoli che l’Evangelo, prima promesso per mezzo dei Profeti e da Lui
adempiuto e promulgato di persona, come la fonte di ogni verità salutare e di
ogni regola morale lo predicassero a tutti, comunicando i doni divini. Ciò venne
fedelmente eseguito, tanto dagli Apostoli, i quali nella predicazione orale,
con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalle
labbra, dalla frequentazione e dalle opere di Cristo, sia ciò che avevano
imparato per suggerimento dello Spirito Santo, quanto da quegli Apostoli e da
uomini della loro cerchia, i quali, per ispirazione dello Spirito Santo, misero
in scritto l’annunzio della salvezza. Gli Apostoli poi, affinché l’Evangelo si
conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono come loro successori
i Vescovi, ad essi “affidando il loro proprio posto di maestri”. […] Pertanto,
la predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati,
doveva esser conservata con successione continua fino alla fine dei tempi» (nn.
7-8).
Ciò è estremamente
importante, soprattutto perché questa «trasmissione» è anche liturgica, come
attesta lo stesso san Paolo nel racconto dell’istituzione dell’Eucaristia: «Io
ho ricevuto dal Signore quello che vi ho trasmesso: che il Signore Gesù, nella
notte in cui fu tradito […]» (1Cor 11,23).
Tornando alla seconda
lettera a Timoteo – le due lettere a Timoteo e quella a Tito sono chiamate «lettere
pastorali» –, si ritiene che risalga verso la fine dei giorni terreni dell’Apostolo,
ossia durante la prigionia romana tra il 61 e il 63 d.C. San Paolo dice esplicitamente
che ha conservato la fede (τὴν
πίστιν τετήρηκα). Di quale fede sta parlando? Certamente si
tratta di una fede non naturale, ma soprannaturale, quella chiameremmo «virtù
teologale». Si tratta di fermezza nel credere, di uno stato di adesione (πίστις,
che rimanda all’ebraico אמן), che in tal caso non è possibile senza l’aiuto
di Dio. Ciò mostra che la fede deve essere vissuta, o meglio,
vivere ciò che si crede mediante la fede, per cui occorre esercitarla e
conservarla intatta. Ma ecco il passo importante, ossia il fatto che il
Signore gli è stato vicino e gli ha dato forza. Sì, perché credere
soprannaturalmente e combattere per ciò che si crede in tal modo, non risiede
nelle sole forze umane, ma nell’aiuto divino. Questo esige una risposta, una
collaborazione umana, dal momento che la «fede» in quanto tale consta dell’aspetto
divino e dell’aspetto umano. Pertanto, non è possibile continuare con le solite
espressioni, come del tipo: «beato te che credi; beato te che hai la fede…».
Cioè?
Circa la fede intesa
anche biblicamente si può cliccare qui.
Ci sarebbe tanto altro da
scrivere, bisogna fare il collegamento con un altro brano biblico, che vede
come protagonista san Pietro:
«Essendo giunto Gesù
nella regione di Cesarèa di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente chi
dice che sia il Figlio dell’uomo?” Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista,
altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Voi chi dite
che io sia?”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio
vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il
sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu
sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi
non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e
tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che
scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,13-19).
Tale brano è fondamentale
dal punto di vista ecclesiastico e ci sarebbero tantissime cose da scrivere al
riguardo, cosa che sarà fatta doverosamente in altra sede, ma per il momento
occorre sottolineare il tratto di continuità col brano precedente. In tal caso,
alla domanda che Gesù rivolge a tutti i discepoli, solo san Pietro risponde, e
lo fa correttamente. La riposta di san Pietro non deriva dalle forze umane, ma
da quella divina che lo ha portato ad affermare che Gesù è il Cristo, il
Figlio del Dio vivente. Riconoscere Gesù come il Cristo, ossia come il
Messia, aveva una portata immensa per quel tempo. La parola greca Χριστὸς traduce l’ebraico משיח,
che vuol dire «unto», ma che in questo caso sta ad indicare «l’Unto» del
Signore per eccellenza. Dal momento che san Pietro ha riconosciuto Gesù come l’Unto
per eccellenza, lo ha riconosciuto come il Messia. Non solo, in quanto ciò non
lo ha fatto da sé, ma in seguito alla rivelazione del Padre che sta nei
cieli. Poiché la «fede» opera sulla potenza intellettiva, così da poter
condurre l’intelletto umano a conoscere e a credere ciò che lo supera, la
rivelazione del Padre ha permesso a san Pietro di conoscere soprannaturalmente,
in modo tale da riconoscere in Gesù il Messia, il Cristo, l’Unto di Dio. Ciò
che è importante, e san Pietro lo testimonia, è che la fede soprannaturale derivante
dalla grazia suppone la natura umana, non si sostituisce ad essa né l’annulla.
Pure in questo caso traspare il doppio aspetto della «fede»:
divino e umano (et-et), così come precisamente riporta il Catechismo della
Chiesa Cattolica:
Quando san Pietro confessa che Gesù è il Cristo, il
Figlio del Dio vivente, Gesù gli dice: «Né la carne né il sangue te l’hanno
rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (Mt 16,17). La fede è un dono di
Dio, una virtù soprannaturale da lui infusa. «Perché si possa prestare questa
fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre, e gli aiuti
interiori dello Spirito Santo, il quale muove il cuore e lo rivolga a Dio, apra
gli occhi della mente, e dia “a tutti dolcezza nel consentire e nel credere
alla verità”» (n. 153). È impossibile credere senza la grazia e gli aiuti
interiori dello Spirito Santo. Non è però meno vero che credere è un atto
autenticamente umano. Non è contrario né alla libertà né all’intelligenza dell’uomo
far credito a Dio e aderire alle verità da lui rivelate. Anche nelle relazioni
umane non è contrario alla nostra dignità credere a ciò che altre persone ci
dicono di sé e delle loro intenzioni, e far credito alle loro promesse […].
Nella fede, l’intelligenza e la volontà umane cooperano con la grazia divina
(nn. 154-155).
Tutto ciò è enormemente espresso nei santi Apostoli
Pietro e Paolo, vere e proprie colonne portanti della Chiesa di Dio.