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domenica 31 marzo 2024

E VIDE E CREDETTE: L'EVENTO CHE HA CAMBIATO IL MONDO


 

Il giorno di Pasqua si manifesta in tutta la sua portata, in tutto il suo fascino anche a coloro che si dichiarano non credenti o che professano altre fedi. Sì, inevitabilmente il giorno di Pasqua rimanda a qualcosa. Ma a cosa? Ad una rinascita interiore o all’augurio che le cose possano andare meglio? Ad un giorno trascorso in compagnia tra balli e risate? Tutte cose lecite e buone, ci mancherebbe, ma la Pasqua del Signore è altro. Non che le cose di contorno non vadano bene, ma occorre afferrare il contenuto dell’evento pasquale ed è possibile farlo. Chiedo la pazienza di leggere l’articolo interamente.

In realtà la vera fede nasce dal sepolcro, da quel medesimo sepolcro nel quale era stato posto il corpo di Gesù di Nazaret, il corpo di colui che fino a poco tempo prima si era presentato come «la Vita» (Ego sum via, et veritas, et vita. Nemo venit ad Patrem, nisi per me, come si legge in Gv 14,6-7). Domanda: in che modo la morte può riguardare colui che si è presentato come la Vita? O meglio, per essere più taglienti: in che modo «il Vivente» può andare incontro alla morte? Come può «il Vivente» ridursi all’essere «morente»? La riposta è che Gesù ha la potestà di porre/dare la sua vita e di riprendersela (cfr. Gv 10,17-18), in tal modo il Vivente conobbe la morte non perché la morte ebbe potestà su di lui, ma perché Gesù il Cristo ebbe potestà sulla morte, colui che è vivente nei secoli dei secoli (cfr. Ap 1,18). Ed ecco un aspetto fondamentale sia dal punto di vista teologico sia metafisico: la morte non potrebbe «esserci» se mancasse quel bene verso il quale la morte si dirige per morderlo, per logorarlo, per esaurirlo. La morte, che di per sé tende al non essere, nella constatazione dei fatti essa in qualche modo è, ossia esiste. Come mai? Ebbene l’esistenza della morte è secondaria e subordinata all’esistenza del bene fontale senza il quale la morte non potrebbe esserci: la vita. In questo caso la vita in quanto tale non basta, dacché vita e morte si oppongono, nonostante il primato spetti sempre alla vita. In questo caso la risposta non risiede nella vita, ma nel Vivente, in colui che è la sua stessa vita – noi non siamo la nostra vita – e che ha la potestà di donarla e riprendersela.

Ma ora cerchiamo di concentrarci sul quel sepolcro dal quale è nato tutto e che ha cambiato sia la vita sia la morte.

Troppe volte si sente dire che «il sepolcro fu trovato vuoto»; «il corpo non c’era più, il sepolcro era vuoto»; «le donne andarono al sepolcro, ma lo trovarono vuoto» ecc. In realtà alcuni ‘studiosi’ affermano che il messaggio della resurrezione sarebbe soprattutto ‘teologico’, per cui il senso sarebbe ‘teologico’ e in tal modo il brano evangelico di Gv 20,1-9 andrebbe letto… Ma cosa vuol dire che il messaggio è teologico? Vuol dire che tale messaggio è scollegato con la realtà storica? Di cosa stiamo parlando? Queste posizioni non sono teologiche, ma anti-teologiche. La teologia, in quanto scientia fidei, deve necessariamente poggiare sulla storia dell’uomo, nonostante la sua origine non sia puramente umana (rimando agli articoli sulla fede che si trovano nel blog). Questo modo di procedere è anti-divino e anti-umano, e la prova è che il Lógos di Dio si è fatto carne, ha assunto natura umana. Il messaggio teologico deve necessariamente trovare riscontro nella storia dell’uomo, altrimenti il medesimo messaggio non avrebbe senso. La teologia è cosa seria, così come la filosofia, per cui bisogna ponderare bene le parole prima di proferirle. Semmai non si prestasse attenzione all’equilibro di ciò che la fede in quanto tale comporta, si rischierebbe di cadere in alcuni eccessi: razionalismo, storicismo, fideismo, deismo. Ma questi sono eccessi e come tali sono sbagliati. Una caratteristica fondamentale del concetto di «rivelazione» è quella della doppia valenza di soprannaturale e naturale, per cui Dio agisce nei confronti dell’uomo e lo fa lasciando, in qualche modo, le sue tracce.

Parlare in quei modi della resurrezione, con tutto il rispetto, vuol dire parlare del «vuoto», ossia del «nulla», e di conseguenza nullificare la resurrezione. Come può Dio, il quale ci conosce più di ogni altro, aver affidato il messaggio fondamentale della fede cristiana al «vuoto»? Il testo evangelico si esprime chiaramente: il sepolcro non era vuoto! Occorre indagare su quegli elementi che il Vangelo secondo Giovanni riporta con chiarezza disarmante e che non è possibile ignorare. Se lo facessimo ci prederemmo l’ammonizione di Pietro, che riguarda non solo le lettere paoline ma tutta la Scrittura: in essere ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina (2Pt 3,16).

Non è possibile analizzare in dettaglio il brano evangelico di Gv 20,1-9, dal momento che richiederebbe troppo spazio, ma bisogna insistere sul fatto che tale brano riporta «tracce storiche» della resurrezione del Cristo. In modo particolare vorrei concentrarmi su alcuni elementi: le fasce, il sudario, il verbo «vedere». Ovviamente vi sono tanti altri elementi, ma la scelta di questi tre è stata doverosa. Al riguardo, nonostante molti studiosi si siano soffermati su questi elementi (Giuseppe Ghiberti, Xavier Leon-Dufour, Rudolf Schnackenburg, Giuseppe Segalla e altri), ritengo che alla ricerca del biblista don Antonio Persili debba spettare la giusta attenzione, dal momento che lo studioso mette in luce aspetti che in molti lavori mancano. Con ciò non si vuol porre Persili al di sopra degli altri, assolutamente no, ma semplicemente richiamare l’attenzione ad una ricerca della quale, purtroppo, non se ne parla mai e che invece meriterebbe non poca attenzione per precisione e capacità di analisi (A. Persili, Sulle tracce del Cristo risorto. Con Pietro e Giovanni testimoni oculari, Edizioni Centro Poligrafico Romano, Tivoli 1988).

La versione che Persili prende in considerazione è ovviamente quella greca, per cui egli si sofferma sui vocaboli greci per poi proporre una traduzione strettamente letterale di Gv 20,1-9, ma nel nostro caso ci soffermeremo dal versetto 5 al versetto 9.

Per quanto riguarda le fasce (τὰ ὀθόνια/tà othónia), che non bisogna confondere con la sindone (infatti, in Mt 27,59 si trova il riferimento σινδών/sindόn), queste avvolgevano interamente il lenzuolo di lino (sindone) e il discepolo che arrivò prima di Simon Pietro le vide che giacevano distese. Il fatto che giacessero distese vuol dire che non vi era più il corpo come sostegno. Inoltre, la sepoltura di Gesù non avvenne come quella di Lazzaro, per il fatto che il corpo di Gesù aveva versato molto sangue e la fasciatura avvenne interamente, senza lasciare aperture. Ecco le parole di Persili:

«le “fasce distese” costituiscono la prima traccia della risurrezione: era infatti assolutamente impossibile che il corpo di Gesù fosse uscito dalle fasce, semplicemente rianimato, o che fosse stato asportato, sia da amici che da nemici, senza svolgere le fasce o, comunque, senza manometterle in qualche maniera. Questa traccia sarebbe stata sufficiente per credere nella risurrezione, ma nel sepolcro v’era una traccia più sorprendente, che Pietro ebbe la ventura di vedere per primo: la posizione del sudario» (p. 145).

Il sudario (καὶ τὸ σουδάριον/kaì tò soudárion = e il sudario) non era né un lenzuolo né un panno mortuario, ma un fazzoletto che serviva per asciugare il sudore. Il sudario che Pietro vide era quello posto fuori e si trovava sul capo di Gesù e fuori le fasce (cfr. Gv 20,7), non quello che si trovava all’interno e che non era visibile. Qui il discorso si complica, per cui bisogna stare calmi e cercare di mantenere un certo equilibrio. La traduzione corrente è questa: «[…] e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non era per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte». In latino risulta questo: «[…] et sudarium, quod fuerat super caput eius, non cum linteaminibus positum, sed separatim involutum in unum locum». Persili propende, per quanto riguarda «in unum locum», con la traduzione «nello stesso luogo» o «nella stessa posizione». Ora, il problema risiede tra le fasce e il sudario. Entrambi gli elementi avevano il corpo di Gesù come supporto in quanto avvolgevano il suo corpo, ma le fasce furono trovate in un modo e il sudario in un altro. Inoltre, il famoso luogo a parte in cui sarebbe stato trovato il sudario, piegato e col significato di «tornerò», anche se avesse una qualche corrispondenza nei costumi ebraici, in questo caso è fuori contesto.

Il verbo vedere nel Vangelo secondo Giovanni ha molte sfumature, ormai note agli studiosi del Quarto Vangelo, che sono fondamentali per capire il tipo di «sguardo». In modo particolare Giovanni usa tre verbi nello stesso brano (Gv 20,1-9) e li utilizza in tal modo: per Maria di Magdala «καὶ βλέπει/kaì blépei»; per Simon Pietro «καὶ θεωρεῖ/kaì theoreî»; per il discepolo amato «καὶ εἶδεν/kaì eîden». In italiano vuol dire «e vide», senza cogliere le sfumature determinanti che l’evangelista ha volutamente lasciato. Il punto è che il «vedere», in questo caso, inizia da quello della vista corporea per andare a quella dell’intelletto. Ed ecco che la fede in quanto tale poggia sull’intelletto. Leggiamo la spiegazione di Persili:

Con il verbo «blépei» Giovanni vuol dire che non vede tutto, ma scorge qualcosa, che gli fa iniziare il cammino della fede. […] Quando Pietro giunge al sepolcro, entra e rimane in contemplazione «theoreî» dello spettacolo che le fasce e il sudario offrono, ma non ne comprende il messaggio. […] Infine Giovanni entrò nel sepolcro e non appena osservò le fasce distese e soprattutto il sudario rialzato, comprese immediatamente che esse costituivano le tracce lasciate dalla risurrezione del corpo di Gesù, e credette. Per esprimere questo vedere con intelligenza, Giovanni usa il verbo «kaì eîden», accompagnato dal verbo della fede «καὶ ἐπίστευσεν/haì epísteusen»; Giovanni «vide, comprese e credette» (pp. 169-170).

A questo punto credo sia giunto il momento della traduzione proposta da Persili in merito al brano evangelico di Gv 20,1-9:

(Maria di Magdala) corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”. Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, scorge le fasce distese, ma non entrò. Giunge intento anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entra nel sepolcro e contempla le fasce distese (afflosciate, vuote, non manomesse), e il sudario, che era sul capo di lui, non con le fasce disteso, ma al contrario avvolto (rimasto nella posizione di avvolgimento, perciò rialzato ma non sostenuto nell’interno, perché vuoto) in una posizione unica (straordinaria, eccezionale, perché contro la legge di gravità). Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti (pp. 161-162).

Ora, vi sarebbero tanti altri elementi su cui soffermarsi (il giardino; la figura di Maria di Magdala; il suo iniziale non riconoscimento di Gesù e il successivo riconoscimento in seguito alla pronuncia del nome; il terzo giorno; il giorno dopo il sabato; i due che stanno da una parte e dall’altra della pietra sepolcrale; il lenzuolo chiamato «sindone» e tanti altri), ma credo di essermi dilungato già troppo per un articolo. Lo scopo è stato quello di utilizzare il preciso studio di Persili per mettere in luce un dato fondamentale: Cristo è risorto e ha lasciato le tracce della sua resurrezione. Occorre soltanto mettersi alla ricerca delle tracce a partire dal testo. Ed ecco che il contenuto teologico si radica fortemente nella dimensione storica per andare oltre la dimensione storica. Il sepolcro non era vuoto, ma pieno delle tracce della resurrezione.

Gabriele Cianfrani


PS. Il video sotto, tratto dal film "The Passion", potrebbe rendere l'idea.

https://www.youtube.com/watch?v=VLTzQXNcxmk

sabato 8 aprile 2023

DESCENDIT AD INFERI: IL SABATO SANTO


Nel Triduo pasquale, a volte, si pone attenzione quasi esclusivamente al Venerdì santo e alla Domenica di resurrezione, ma il Sabato santo risulta quasi una sorta di vuoto, una semplice attesa della Domenica (il giorno dopo il sabato). In realtà il Sabato santo è un giorno fondamentale del Triduo pasquale, anzi, è proprio nel Sabato santo che avviene quello sconvolgimento atteso da secoli e secoli. Quando il Simbolo apostolico riporta «discéndit ad inferi» (discese agli inferi), il riferimento è ad una realtà ben precisa. Infatti, nell’ Ufficio delle Letture di oggi, è riportata un’antica «Omelia sul Sabato santo»:

Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi. Certo egli va a cercare il primo padre, come la pecorella smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell’ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva che si trovano in prigione. Il Signore entrò da loro portando le armi vittoriose della croce. Appena Adamo, il progenitore, lo vide, percuotendosi il petto per la meraviglia, gridò a tutti e disse: «Sia con tutti il mio Signore». E Cristo rispondendo disse ad Adamo: «E con il tuo spirito». E, presolo per mano, lo scosse, dicendo: «Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà. […] Sorgi, allontaniamoci di qui. Il nemico ti fece uscire dalla terra del paradiso. Io invece non ti rimetto più in quel giardino, ma ti colloco sul trono celeste. Ti fu proibito di toccare la pianta simbolica della vita, ma io, che sono la vita, ti comunico quello che sono. Ho posto dei cherubini che come servi ti custodissero. Ora faccio sì che i cherubini ti adorino quasi come Dio, anche se non sei Dio. Il trono celeste è pronto, pronti e agli ordini sono i portatori, la sala è allestita, la mensa apparecchiata, l’eterna dimora è addobbata, i forzieri aperti. In altre parole, è preparato per te dai secoli eterni il regno dei cieli».

Non ci sarebbe altro da aggiungere, nonostante l’omelia non sia stata riportata interamente, ma è possibile qualche commento.

Anzitutto è questo il significato di quel meraviglio affresco dell’ἀνάστασις (anastasis) – è l’immagine sopra, scelta per l’articolo – che si trova nella Chiesa di San Salvatore in Chora (Instanbul), dal momento che Cristo, vero Dio e vero uomo, ha compiuto quella redenzione che anche i «giusti» che furono prima di Lui attendevano. Le due persone che nell’affresco si trovano a destra e a sinistra di Cristo, che le prende per mano, sono i progenitori Adamo ed Eva, portati via da quel soggiorno dei morti che va sotto il nome ebraico di Shéol, corrispondente a quello che in greco si chiama ade (cfr. Fil 2,10; At 2,24; Ef 4,9; Ap 1,18). Circa lo Shéol, il noto Dizionario di Teologia Biblica diretto da Xavier Leon-Dufour (e altri) riporta:

Il defunto «non è più» (Sal 39,14; Giob 7,8.21; 7,10): prima impressione di inesistenza, perché l’oltretomba sfugge alle prese dei viventi. Nelle credenze primitive, conservate a lungo dal VT [Vecchio Testamento], la morte non è tuttavia un annientamento totale. Mentre il corpo è deposto in una fossa sotterranea, qualcosa del defunto, un’ombra, sussiste nello šeol. Ma questi inferi sono concepiti in modo molto rudimentale: un buco spalancato, un pozzo profondo, un luogo di silenzio (Sal 115,17), di perdizione, di tenebre, di dimenticanza (Sal 88,12 s; Giob 17,13). Ivi tutti i morti radunati partecipano alla stessa misera sorte (Giob 3,13-19; Is 14,9 s), anche se vi sono gradi nella loro ignominia (Ez 32,17-32). […] Tale è la prospettiva desolante che la morte apre all’uomo per il giorno in cui dev’essere «riunito ai suoi padri» (Gen 49,29). Qui le immagini non fanno che dare una forma concreta ad impressioni spontanee che sono universali ed a cui si limitano ancora molti dei nostri contemporanei (pp. 642-643).

Nonostante vi sia molto da indagare sullo Shéol e soprattutto svolgere un confronto sull’oltretomba con altre religioni, cosa che in parte Leon-Dufour fa, si riporta il superamento dello Shéol grazie alla potenza divina:

Non è in potere dell’uomo salvare se stesso dalla morte: occorre la grazia di Dio, che solo è per natura il vivente. Quando perciò il potere della morte si manifesta sull’uomo, in qualsiasi modo, egli non può che rivolgere a Dio un appello (Sal 6,5; 13,4; 116,3). Allora, se è giusto, può nutrire la speranza che Dio «non abbandonerà la sua anima allo sheol» (Sal 16,10), «libererà la sua anima dagli artigli dello sheol» (Sal 49, 16). Una volta guarito o salvato dal pericolo, renderà grazie a Dio per averlo liberato dalla morte (Sal 18,17; 30; Giona 2,7; Is 38,17), perché appunto di una tale liberazione avrà fatto l’esperienza concreta. Ancor prima che le prospettive della sua fede abbiano superato i limiti della vita presente, egli saprà così che la potenza divina prevale su quella della morte e dello sheol: primo germe di una speranza che si evolverà infine in una prospettiva di immortalità. […] D’altronde la rivelazione, ancor prima di aprire a tutti simili prospettive, aveva illuminato di nuova luce l’enigma della morte dei giusti, attestandone la fecondità. Il fatto che il giusto per eccellenza, il servo di Jahve, sia colpito a morte e «strappato via dalla terra dei viventi», non è privo di significato: la sua morte è un sacrificio espiatorio offerto volontariamente per i peccati degli uomini; con essa si compie il disegno di Dio (Is 53,8-12). Si svela così in anticipo il tratto più misterioso dell’economia della salvezza, che la storia di Gesù porrà in atto. […] Fino a Cristo e senza di lui, c’era il regno della morte; Cristo viene e, con la sua morte, trionfa della morte stessa; da questo istante la morte cambia senso per la nuova umanità che muore con Cristo per vivere con lui eternamente (pp. 646-647).

Questo il breve percorso biblico fino ad arrivare al momento decisivo, ossia il Sabato santo. Da precisare che ciò non sarebbe stato possibile se l’incarnazione del Verbo non fosse avvenuta così com’è avvenuta, ossia l’unione ipostatica, sulla quale si tornerà in altra sede. Il discorso sull’unione ipostatica è così importante da determinare tutto il resto, oltre alla corretta comprensione di tanti fatti. La corretta comprensione dell’incarnazione evita tanti problemi che ultimamente sono emersi nuovamente, ai quali è possibile rispondere con chiarimenti risalenti a molti secoli fa. Uno dei problemi, ad esempio, riguarda la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, in riferimento alla quale si dice: «è venuto Gesù»; «ora Gesù si è trasformato nel pane e nel vino»; «adesso Gesù è venuto dal Cielo ed è nell’ostia». Non è così e un’impostazione simile sminuirebbe enormemente ciò che avviene nella conversione del pane e del vino, poiché sono questi elementi a «convertirsi», ma ciò rimanda ad un altro lavoro.

Tornando al Sabato santo, il Catechismo della Chiesa Cattolica riporta:

La Scrittura chiama inferi, Shéol o ̔Αιδην il soggiorno dei morti dove Cristo morto è disceso, perché quelli che vi si trovano sono privati della visione di Dio. Tale infatti è, nell’attesa del Redentore, la sorte di tutti i morti, cattivi o giusti; il che non vuol dire che la loro sorte sia identica, come dimostra Gesù nella parabola del povero Lazzaro accolto nel «seno di Abramo». «Furono appunto le anime di questi giusti in attesa del Cristo a essere liberate da Gesù disceso all’inferno». Gesù non è disceso agli inferi per liberare i dannati né per distruggere l’inferno della dannazione, ma per liberare i giusti che l’avevano preceduto. «La Buona Novella è stata annunciata anche ai morti…» (1Pt 4,6). La discesa agli inferi è il pieno compimento dell’annunzio evangelico della salvezza. È la fase ultima della missione messianica di Gesù, fase condensata nel tempo ma immensamente ampia nel suo reale significato e estensione dell’opera redentrice a tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, perché tutti coloro i quali sono salvati sono stati resi partecipi della redenzione (CCC, nn. 633-634).

Da questo si capisce che il Sabato santo non è un giorno di «vuoto» o una «semplice attesa», ma il pieno compimento della redenzione. Inoltre, il Catechismo Romano (o Tridentino) riporta notevoli precisazioni:

Con queste parole [discese all’inferno] riconosciamo che, in quel tempo, la medesima persona di Gesù Cristo fu nell’inferno e giacque nel sepolcro, il che non deve sorprendere. Infatti, come spesso abbiamo ripetuto, sebbene l’anima fosse uscita dal corpo, tuttavia la divinità non si separò mai né dall’anima né dal corpo. […] Qui il vocabolo in questione [inferno] vuole significare quelle nascoste sedi, in cui stanno le anime di coloro che non hanno conseguito la beatitudine celeste. La Sacra Scrittura offre molteplici esempi di questo uso. In san Paolo leggiamo: In nome di Gesù, ogni ginocchio si curvi, in cielo, in terra, nell’inferno (Filipp. II, 10). Negli Atti degli Apostoli, san Pietro assicura che Gesù Cristo N. S. risuscitò, dopo aver superato i dolori dell’inferno (Atti II, 24). Tali sedi non son tutte del medesimo genere. Una è quella prigione tenebrosa e orribile, nella quale le anime dei dannati giacciono in un fuoco perpetuo e inestinguibile, insieme agli spiriti immondi. In questo significato abbiamo i termini equivalenti di geenna, abisso, inferno propriamente detto. In secondo luogo c’è la sede del fuoco purgante, soffrendo nel quale, per un determinato tempo, le anime dei giusti subiscono l’espiazione, onde possano salire alla patria eterna, chiusa a ogni ombra di colpa. […] Una terza sede è quella in cui le anime dei santi furono ospitate prima della venuta di Gesù Cristo N. S. Esse vi dimorarono quietamente, immuni da ogni pena, alimentate dalla beatifica speranza della redenzione. […] Gesù Cristo scendendo nell’inferno liberò appunto le anime di questi giusti, aspettanti il Salvatore nel seno di Abramo. […] Tutti vi erano penetrati prigionieri; egli invece, libero e vincitore fra morti, vi entrò per debellare i demòni, dai quali essi erano tenuti prigionieri a causa della colpa originale. […] Così fu compiuta la promessa fatta al buon ladrone: Oggi sarai con me in paradiso (Luc. XXIII, 43). Questa liberazione dei buoni era stata molto tempo innanzi predetta da Osea con queste parole: O morte, io sarò la tua morte; o inferno, io sarò la tua distruzione (Os. XIII, 14); e dal Profeta Zaccaria: Per te, a causa del sangue del tuo patto, io ritirerò i tuoi prigionieri dalla fossa senz’acqua (Zac. IX, 11); nonché dal passo dell’Apostolo: Egli ha spogliato i principati e le potestà, offrendoli a spettacolo e trionfando di loro (Col. II,15).

Per concludere, sui passi sopra riportati occorrerebbe riflettere, ma soprattutto si capisce che Gesù, durante il Sabato, non stava «dormendo», ma stava salvando il mondo.


Gabriele Cianfrani