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domenica 21 agosto 2022

PROFESSIONE DI FEDE: IL CREDERE DI UNO, IL CREDERE DI MOLTI


 

Nel nostro linguaggio vi sono alcune parole che inevitabilmente godono di importanza maggiore rispetto ad altre. Vi sono parole che rimandano alla propria identità, parole che esprimono ciò che noi siamo e ciò a cui tendiamo. Tra queste ve ne sono alcune molto precise, che esprimono pienamente l’identità cristiana (cattolica), ossia le parole del «Credo», del «Simbolo degli Apostoli» o del «Simbolo Niceno-Costantinopolitano». Nel contesto liturgico si tratta di quel momento, importantissimo, che è la «professione di fede».

Cerchiamo di riportare, in modo generale, la struttura della Messa (le singole parti), chiamata anche Celebrazione Eucaristica e in altri modi. Lo si farà seguendo l’Ordinamento Generale del Messale Romano (OGMR), che si può trovare facilmente sul sito www.vatican.va.

 

A) Riti di introduzione

            - L’introito

            - Saluto all’altare e al popolo radunato

            - Atto penitenziale

            - Kyrie eleison

            - Gloria

            - Colletta

 

B) Liturgia della Parola

            - Il silenzio

            - Le letture bibliche

            - Il salmo responsoriale

            - L’acclamazione prima della lettura del Vangelo

            - L’omelia

            - La professione di fede

            - La preghiera universale

 

C) Liturgia eucaristica

            - La preparazione dei doni

            - L’orazione sulle offerte

            - La Preghiera eucaristica

            - Riti di Comunione

            - Preghiera del Signore

            - Rito della pace

            - Frazione del pane

            - Comunione

 

D) Riti di conclusione

 

È chiaro che ogni momento liturgico richiederebbe di essere trattato, per cui si rimanda direttamente all’OGMR, il quale è davvero uno strumento da utilizzare per la guida e per l’approfondimento liturgico.

Ciò che in questa sede interessa è la «professione di fede». Vediamo come si esprime l’OGMR:

 

67. Il simbolo, o professione di fede, ha come fine che tutto il popolo riunito risponda alla parola di Dio, proclamata nella lettura della sacra Scrittura e spiegata nell’omelia; e perché, recitando la regola della fede, con una formula approvata per l’uso liturgico, torni a meditare e professi i grandi misteri della fede, prima della loro celebrazione nell’Eucaristia.

68. Il simbolo deve essere cantato o recitato dal sacerdote insieme con il popolo nelle domeniche e nelle solennità; si può dire anche in particolari celebrazioni più solenni.

Circa il «simbolo» in sé si rimanda all’articolo scritto in merito (qui).

L’attenzione si sposta sul fatto che la professione di fede ha come fine che tutto il popolo riunito risponda alla parola di Dio, proclamata nella lettura della sacra Scrittura e sul fatto che il popolo stesso professi i grandi misteri della fede. Non solo, dal momento che ciò deve essere fatto prima della loro celebrazione nell’Eucaristia.

Ovviamente, poiché nell’Eucaristia tutto si compendia, dato che l’Eucaristia è fonte e apice di tutta la vita cristiana (Conc. Vat. II, Lumen gentium, n. 11), per cui non è possibile dirigersi «intenzionalmente» verso ciò che non si conosce; e se non vi è conoscenza non può esservi neanche l’adesione, il credere, la professione di fede. Pertanto, occorre che la professione di fede sia fatta prima della celebrazione nell’Eucaristia.

Non è il caso di sollevare polemiche, ma fin troppo spesso si assiste ad un atteggiamento a dir poco dissacrante nei confronti dell’Eucaristia, senza contare la quasi totale trascuratezza nei confronti dei sacramenti in generale.

Ora, giunto il momento della professione di fede, ognuno la esprime singolarmente. Ma ciò resta confinato in questa singolarità? Viene in mente un passo del libro dell’Esodo:

 

Al terzo mese dall'uscita degli Israeliti dalla terra d'Egitto, nello stesso giorno, essi arrivarono al deserto del Sinai. Levate le tende da Refidìm, giunsero al deserto del Sinai, dove si accamparono; Israele si accampò davanti al monte. Mosè salì verso Dio, e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: "Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: "Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all'Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatto venire fino a me. Ora, se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa". Queste parole dirai agli Israeliti". Mosè andò, convocò gli anziani del popolo e riferì loro tutte queste parole, come gli aveva ordinato il Signore. Tutto il popolo rispose insieme e disse: "Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!". Mosè tornò dal Signore e riferì le parole del popolo. Il Signore disse a Mosè: "Ecco, io sto per venire verso di te in una densa nube, perché il popolo senta quando io parlerò con te e credano per sempre anche a te" (Es 19,1-9).

 

Precisando che questo passo biblico presenta elementi tali da non poterli nemmeno accennare, a causa della loro vastità, oltre a rintracciare passi biblici accostabili, è comunque possibile prenderne alcuni. Non a caso li ritroviamo nella prima lettera di Pietro e nel libro dell’Apocalisse:

 

Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa. Un tempo voi eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio; un tempo eravate esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia (1Pt 2,9-10);

 

"Tu sei degno di prendere il libro
e di aprirne i sigilli,
perché sei stato immolato
e hai riscattato per Dio, con il tuo sangue,
uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione,
e hai fatto di loro, per il nostro Dio,
un regno e sacerdoti,
e regneranno sopra la terra" (Ap 5,9-10).

 

Tralasciando altri passi biblici e ricerche particolari (es. se il sacerdozio stesso sia regale o se il sacerdozio risulti accanto al regno, o se il regno sia costituito da sacerdoti, in questo caso il riferimento sarebbe soprattutto al sacerdozio battesimale), emerge il contesto «ecclesiale», per cui risalta il famoso passo del Vangelo secondo Matteo:

 

E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa [καὶ ἐπὶ ταύτῃ τῇ πέτρᾳ οἰκοδομήσω μου τὴν ἐκκλησίαν – et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam] e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa (Mt 16,18).

 

Ed ecco che Pietro non può essere considerato scisso dalla ἐκκλησία (ekklēsía), ossia dalla Chiesa e viceversa. Così come Mosè non può essere considerato scisso dal popolo d’Israele e viceversa, dal momento che l’evento del Sinai è fondante, in quanto al capitolo successivo (c. 20) Dio pronuncia le sue parole (nel contesto dell’Alleanza) e Mosè parla al popolo comunicando le parole (דְּבָרִים) di Dio (Cfr. Es 20,18-21). Ma il fondamento ultimo non è né Mosè né Pietro, bensì Dio, e il Verbo è consostanziale al Padre ed è da prima che Abramo fosse (Cfr. Gv 8,58). Colui che fonda la Chiesa è Dio stesso, poiché è «sua»!

Dacché la parola ἐκκλησία (ekklēsía) viene adoperata per tradurre quella ebraica קהל (qahal), la parola Chiesa vuol dire «chiamata di Dio», «convocazione da parte di Dio». Non è l’uomo che prende l’iniziativa, ma Dio.

Ora, precisando che la parola «liturgia» deriva da λέιτον (leiton) έργον (ergon), che significa «opera pubblica» (dal latino publicum opus), il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) riporta quanto segue:

 

«Io credo»: è la fede della Chiesa professata personalmente da ogni credente, soprattutto al momento del Battesimo. «Noi crediamo»: è la fede della Chiesa confessata dai Vescovi riuniti in Concilio, o, più generalmente, dall’assemblea liturgica dei credenti. «Io credo»: è anche la Chiesa, nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire: «Io credo», «Noi crediamo» (CCC, n. 167).

 

 

Pertanto, quell’«io credo» è sempre inserito nel «noi crediamo», per il semplice fatto che quell’«io» rientra nel «noi» che è il popolo di Dio che Dio stesso ha convocato e che si chiama «Chiesa». La professione di fede riguarda il singolo inserito nella comunità dei credenti, nel popolo di Dio, in quella proprietà particolare che si chiama «Chiesa».

 

Per questo motivo la vera e sola identità del cristiano (cattolico) risiede nella professione di fede, la quale non può non essere oggetto di meditazione e riflessione. Sarebbe davvero urgente richiamare l’attenzione sulle parole della professione di fede, sulle parole del Credo (Apostolico e/o Niceno-Costantinopolitano). Al riguardo, si cercherà di scrivere altri articoli sul Credo, attingendo dal bellissimo commento di san Tommaso d’Aquino al medesimo, oltre all’atto di fede e alla sua ragionevolezza. 



Gabriele Cianfrani 

 


martedì 16 agosto 2022

CAUSALITA' FINALE O FINE CASUALE? UNA QUESTIONE IMPERITURA

 



La questione imperitura circa la «causalità finale» o il «fine casuale» sembra essere davvero tale, dal momento che ancora oggi si propongono dibattiti al riguardo, i quali risultano non poco interessanti. Ma bisogna riconoscere che rispetto al passato si verifica una certa propensione ad accogliere la seconda posizione, ossia il «fine casuale», nel senso che l’esistenza, non solo umana, non abbia «un fine» ma semplicemente «una fine».

Non si tratta di giochi di parole, o meglio, si tratta di considerare le parole per l’importanza che hanno, soprattutto quando si tratta di argomenti che richiedono una terminologia ben precisa. L’uso improprio di tante parole o lo scorretto accostamento di precise parole ha condotto ad una vera e propria confusione nella comunicazione, non è il caso di nasconderlo. Si richiedono esempi? Nessun problema: «abbiamo creato un’azienda»; «sono tempi apocalittici»; «Tizio è più umano di Caio»; «non va bene questa speculazione»; «non è un confronto equo, è come se si confrontassero Davide e Golia [commiserando il piccolo Davide, nonostante nel racconto biblico abbia vinto proprio lui]»; «il semaforo o la chiave intelligente» ecc. Si potrebbe continuare, ma l’anomalia è evidente.

Tornando alle due posizioni della questione, ciò che potrebbe permettere di apportare chiarimenti decisivi, pare essere il discorso sulla «causalità». Tale discorso implica necessariamente il campo filosofico, in particolar modo quello metafisico, in quanto l’indagine è soprattutto metafisica, mirante alla risoluzione nelle cause ultime o prime.

Ora, il rifiuto nei confronti del discorso metafisico, spesse volte domina indisturbato. Senza fare nomi, vi sono autori che rigettano del tutto la speculazione metafisica in favore di quella che definiscono scientifica, sfociando in una vera e propria riduzione del concetto di «scienza», il quale è molto più ampio dell’esperimento. Inoltre, il rifiuto si presenta non con argomenti metafisici o, nel caso della sacra teologia, con argomenti teologici, ma con argomenti estranei ad entrambe le discipline, distorcendole tremendamente.

Molto brevemente, dal momento che il subiectum della metafisica (ciò su cui verte la ricerca) è l’ente in quanto ente (non in quanto è tale, ad esempio un gatto, ma in quanto è ente), l’indagine riguarda sia i princìpi intrinseci e costitutivi dell’ente sia i princìpi estrinseci dell’ente. La prima indagine prende il nome di resolutio secundum rationem (interna all’ente); la seconda prende il nome di resolutio secundum rem (esterna all’ente). Quando l’indagine resta confinata all’interno dell’ente si avrà la resolutio secundum rationem, ma dato che la metafisica parte da ciò che è fondato per arrivare a ciò che è fondante, ossia dall’effetto alla causa e soprattutto alla causa ultima, a ragione si può dire che è risolutiva. Pertanto, il punto di partenza è l’ente ma il punto di arrivo è il fondamento dell’ente.

L’ente si definisce come ciò che è (id quod est), per cui esercita fortemente l’essere e gode di consistenza ontologica. Quali sono le caratteristiche dell’ente? Anzitutto riscontriamo che l’ente gode di determinatezza, ossia non solo è un soggetto ma un soggetto ben preciso, il cui contenuto è appunto determinato (il gatto non è solo un animale, ma è gatto; la tigre non è solo un animale o un felino, ma è tigre). Inoltre, riscontriamo anche il fatto di essere separato, per cui l’ente non ha bisogno di altro per essere, poiché gode di autonomia ontologica. E certamente ciò che traspare con forza è  la sussistenza. Perciò, l’ente è qualcosa di sussistente, determinato, separato.

La metafisica può indagare sulla tigre, sul libro, sull’albero di ulivo ecc., considerando la tigre, il libro, l’albero di ulivo in quanto enti con le caratteristiche sopra riportate, non dal punto di vista biologico, biofisico, chimico, botanico ecc. Da ciò si evince che la ricerca si pone su altri piani e adotta un lessico diverso. Questo è importante, poiché il termine «accidente» non ha lo stesso significato in metafisica, in medicina e in musica.

A questo punto si capisce che l’indagine metafisica non mira alla scomposizione delle cose o di arricchire la tavola periodica degli elementi, bensì di giungere al fondamento dell’ente. Poiché l’ente è ciò che è, esprimendo in senso forte l’essere, la ricerca metafisica non può non guardare all’essere dell’ente, al suo fondamento, e in ultimo alla «causa» dell’essere dell’ente.

Il discorso in merito alla «causa», in merito alla «causalità», implica anzitutto la dipendenza nell’essere o nel modo di essere di ciò che è causato da ciò che è causa. Si tratta della costituzione dell’ente.

Per quel che riguarda le divisioni della causa, secondo il modo di esercizio e i generi, considerando la questione, l’attenzione si sposta sulla divisione secondo i generi. Tali sono quelli aristotelici, ripresi anche da san Tommaso d’Aquino, e sono generi supremi di causalità:

1) Causa materiale; 2) Causa formale; 3) Causa efficiente; 4) Causa finale.

Vi sarà modo di tornare su tutte le cause, ma quella che per il momento richiede attenzione è la causa finale, ossia ciò in virtù della quale una cosa viene fatta.

Ora, senza andare per le lunghe e senza scrutare profondamente la causalità finale – lo si farà in altra sede –, se mancasse il «bene» non vi sarebbe causa finale, ossia non vi sarebbe azione alcuna che abbia un «fine», dal momento che il fine non può non avere carattere di «bontà». La causa finale è la causa delle cause, dacché ciò che si compie deve essere prima nell’intenzione e poi nell’esecuzione. Certo, ciò suppone la natura intellettiva che possa intendere il fine, ma anche gli altri enti – che non siano persone umane o angeliche o Dio stesso – godono di un fine naturalmente, ad esso sono diretti. Vi sono, infatti, agenti per ragione e agenti per natura. Che la rondine non si prefigga dei fini intenzionali è chiaro, ma essa è comunque diretta ad un fine – già i bellissimi nidi di rondine fanno trasparire ciò, oltre alle meravigliose api e al mondo cellulare –, così come altri enti naturali che non hanno natura intellettiva. Non vi è un’azione che abbia come fine, naturalmente o intellettualmente, il male. Certo, l’essere umano è capace di azioni malvagie, tanto malvagie che a volte non si trovano spiegazioni soddisfacenti, ma questo chiama in campo altre discipline.

Vi sarebbero altre cose da aggiungere, ma è comunque possibile considerare il «fine casuale» come alquanto fragile, poiché se vi fosse la casualità come fondamento non avremmo possibilità né di agenti per ragione né di agenti per natura, che non trova riscontro nella realtà.

Ricordo che durante una lezione del corso di laurea in professioni sanitarie, trattando alcuni aspetti di anatomia e di fisiologia umana, il professore affermò che il fine degli esseri umani consiste nella nutrizione e nella riproduzione, per fare in modo che la specie continui… Mi domando come mai in quel momento egli stesse insegnando, dal momento che l’insegnamento non rientra tra questi fini.

Non è un caso che spesse volte si parli di «ecosistema», il quale non è casuale, altrimenti non si potrebbe parlare di «sistema» nel vero senso della parola. Ma qualora si propendesse ugualmente non per la causalità ma per la casualità, questa non potrebbe esser tale se non vi fosse una causa. Ora, osservando la realtà nella quale siamo immersi, possiamo constatare che vi sono eventi casuali ed eventi che scaturiscono in seguito ad una causa ben precisa. Non solo, in quanto anche per l’essere umano è così: apro il libro per leggere un determinato argomento (intenzionale) e proprio in quel momento si strappa la pagina (non intenzionale). Lo strappo della pagina è avvenuto per caso, ossia non rientrava nella mia intenzione (praeter intentionem), ma ciò non sarebbe avvenuto se fosse mancata la causa finale, ossia la lettura dell’argomento che mi ha condotto ad aprire il libro, oltre alla causa efficiente. Questo esempio, quello dello strappo (praeter intentionem), rimanda ai modi di esercizio della causa.

Insomma, dopo tutte queste parole, la domanda è la seguente: vi è un fine o la semplice fine?

Le parole sono identiche, ma il significato è radicalmente diverso.

Semmai vi fosse una semplice fine, ci troveremmo nella totale contrarietà, dal momento che ogni essere umano – lo notiamo soprattutto nella società occidentale – si adopera per il raggiungimento di uno scopo, di un fine che va al di là di quello puramente fisiologico. Nel caso di altri enti, cioè quelli di natura non intellettiva, pur non proponendosi un fine sono comunque condotti ad un fine, vi è una sorta di indirizzamento naturale, che non è casuale! Non si tratta di riscontrare, nella realtà, eventi che si verificano in maniera ritmicamente perfetta come se ci trovassimo al Luna Park, ma l’indirizzamento ad un fine di quegli enti che non si propongono un fine intenzionale e di quegli enti si propongono un fine intenzionale.

Cosa si vuole esprimere? Si vuole esprimere che il discorso circa la causalità non è la pura concatenazione di eventi o non solo questo, ma un discorso che dovrebbe essere trattato in maniera tale da chiamare in causa altre discipline. In aggiunta, sono fermamente convinto che i drammi di oggi, siano essi umani, ecologici, sociali ecc., non potranno essere superati nella triste realtà del rifiuto del fondamento ultimo, che richiede speculazioni ben precise, scienze ben precise e che non possono essere rifiutate, pena l’impoverimento dell’uomo stesso.

Concludendo, il «fine casuale» gode di contrarietà intrinseca, poiché la mancanza di una causa comporta la mancanza del caso e la mancanza di un effetto verificatosi casualmente. La ricerca sulla causalità è quanto mai importante, ancor più la ricerca sulla «Causa prima».


Gabriele Cianfrani