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domenica 31 marzo 2024

E VIDE E CREDETTE: L'EVENTO CHE HA CAMBIATO IL MONDO


 

Il giorno di Pasqua si manifesta in tutta la sua portata, in tutto il suo fascino anche a coloro che si dichiarano non credenti o che professano altre fedi. Sì, inevitabilmente il giorno di Pasqua rimanda a qualcosa. Ma a cosa? Ad una rinascita interiore o all’augurio che le cose possano andare meglio? Ad un giorno trascorso in compagnia tra balli e risate? Tutte cose lecite e buone, ci mancherebbe, ma la Pasqua del Signore è altro. Non che le cose di contorno non vadano bene, ma occorre afferrare il contenuto dell’evento pasquale ed è possibile farlo. Chiedo la pazienza di leggere l’articolo interamente.

In realtà la vera fede nasce dal sepolcro, da quel medesimo sepolcro nel quale era stato posto il corpo di Gesù di Nazaret, il corpo di colui che fino a poco tempo prima si era presentato come «la Vita» (Ego sum via, et veritas, et vita. Nemo venit ad Patrem, nisi per me, come si legge in Gv 14,6-7). Domanda: in che modo la morte può riguardare colui che si è presentato come la Vita? O meglio, per essere più taglienti: in che modo «il Vivente» può andare incontro alla morte? Come può «il Vivente» ridursi all’essere «morente»? La riposta è che Gesù ha la potestà di porre/dare la sua vita e di riprendersela (cfr. Gv 10,17-18), in tal modo il Vivente conobbe la morte non perché la morte ebbe potestà su di lui, ma perché Gesù il Cristo ebbe potestà sulla morte, colui che è vivente nei secoli dei secoli (cfr. Ap 1,18). Ed ecco un aspetto fondamentale sia dal punto di vista teologico sia metafisico: la morte non potrebbe «esserci» se mancasse quel bene verso il quale la morte si dirige per morderlo, per logorarlo, per esaurirlo. La morte, che di per sé tende al non essere, nella constatazione dei fatti essa in qualche modo è, ossia esiste. Come mai? Ebbene l’esistenza della morte è secondaria e subordinata all’esistenza del bene fontale senza il quale la morte non potrebbe esserci: la vita. In questo caso la vita in quanto tale non basta, dacché vita e morte si oppongono, nonostante il primato spetti sempre alla vita. In questo caso la risposta non risiede nella vita, ma nel Vivente, in colui che è la sua stessa vita – noi non siamo la nostra vita – e che ha la potestà di donarla e riprendersela.

Ma ora cerchiamo di concentrarci sul quel sepolcro dal quale è nato tutto e che ha cambiato sia la vita sia la morte.

Troppe volte si sente dire che «il sepolcro fu trovato vuoto»; «il corpo non c’era più, il sepolcro era vuoto»; «le donne andarono al sepolcro, ma lo trovarono vuoto» ecc. In realtà alcuni ‘studiosi’ affermano che il messaggio della resurrezione sarebbe soprattutto ‘teologico’, per cui il senso sarebbe ‘teologico’ e in tal modo il brano evangelico di Gv 20,1-9 andrebbe letto… Ma cosa vuol dire che il messaggio è teologico? Vuol dire che tale messaggio è scollegato con la realtà storica? Di cosa stiamo parlando? Queste posizioni non sono teologiche, ma anti-teologiche. La teologia, in quanto scientia fidei, deve necessariamente poggiare sulla storia dell’uomo, nonostante la sua origine non sia puramente umana (rimando agli articoli sulla fede che si trovano nel blog). Questo modo di procedere è anti-divino e anti-umano, e la prova è che il Lógos di Dio si è fatto carne, ha assunto natura umana. Il messaggio teologico deve necessariamente trovare riscontro nella storia dell’uomo, altrimenti il medesimo messaggio non avrebbe senso. La teologia è cosa seria, così come la filosofia, per cui bisogna ponderare bene le parole prima di proferirle. Semmai non si prestasse attenzione all’equilibro di ciò che la fede in quanto tale comporta, si rischierebbe di cadere in alcuni eccessi: razionalismo, storicismo, fideismo, deismo. Ma questi sono eccessi e come tali sono sbagliati. Una caratteristica fondamentale del concetto di «rivelazione» è quella della doppia valenza di soprannaturale e naturale, per cui Dio agisce nei confronti dell’uomo e lo fa lasciando, in qualche modo, le sue tracce.

Parlare in quei modi della resurrezione, con tutto il rispetto, vuol dire parlare del «vuoto», ossia del «nulla», e di conseguenza nullificare la resurrezione. Come può Dio, il quale ci conosce più di ogni altro, aver affidato il messaggio fondamentale della fede cristiana al «vuoto»? Il testo evangelico si esprime chiaramente: il sepolcro non era vuoto! Occorre indagare su quegli elementi che il Vangelo secondo Giovanni riporta con chiarezza disarmante e che non è possibile ignorare. Se lo facessimo ci prederemmo l’ammonizione di Pietro, che riguarda non solo le lettere paoline ma tutta la Scrittura: in essere ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina (2Pt 3,16).

Non è possibile analizzare in dettaglio il brano evangelico di Gv 20,1-9, dal momento che richiederebbe troppo spazio, ma bisogna insistere sul fatto che tale brano riporta «tracce storiche» della resurrezione del Cristo. In modo particolare vorrei concentrarmi su alcuni elementi: le fasce, il sudario, il verbo «vedere». Ovviamente vi sono tanti altri elementi, ma la scelta di questi tre è stata doverosa. Al riguardo, nonostante molti studiosi si siano soffermati su questi elementi (Giuseppe Ghiberti, Xavier Leon-Dufour, Rudolf Schnackenburg, Giuseppe Segalla e altri), ritengo che alla ricerca del biblista don Antonio Persili debba spettare la giusta attenzione, dal momento che lo studioso mette in luce aspetti che in molti lavori mancano. Con ciò non si vuol porre Persili al di sopra degli altri, assolutamente no, ma semplicemente richiamare l’attenzione ad una ricerca della quale, purtroppo, non se ne parla mai e che invece meriterebbe non poca attenzione per precisione e capacità di analisi (A. Persili, Sulle tracce del Cristo risorto. Con Pietro e Giovanni testimoni oculari, Edizioni Centro Poligrafico Romano, Tivoli 1988).

La versione che Persili prende in considerazione è ovviamente quella greca, per cui egli si sofferma sui vocaboli greci per poi proporre una traduzione strettamente letterale di Gv 20,1-9, ma nel nostro caso ci soffermeremo dal versetto 5 al versetto 9.

Per quanto riguarda le fasce (τὰ ὀθόνια/tà othónia), che non bisogna confondere con la sindone (infatti, in Mt 27,59 si trova il riferimento σινδών/sindόn), queste avvolgevano interamente il lenzuolo di lino (sindone) e il discepolo che arrivò prima di Simon Pietro le vide che giacevano distese. Il fatto che giacessero distese vuol dire che non vi era più il corpo come sostegno. Inoltre, la sepoltura di Gesù non avvenne come quella di Lazzaro, per il fatto che il corpo di Gesù aveva versato molto sangue e la fasciatura avvenne interamente, senza lasciare aperture. Ecco le parole di Persili:

«le “fasce distese” costituiscono la prima traccia della risurrezione: era infatti assolutamente impossibile che il corpo di Gesù fosse uscito dalle fasce, semplicemente rianimato, o che fosse stato asportato, sia da amici che da nemici, senza svolgere le fasce o, comunque, senza manometterle in qualche maniera. Questa traccia sarebbe stata sufficiente per credere nella risurrezione, ma nel sepolcro v’era una traccia più sorprendente, che Pietro ebbe la ventura di vedere per primo: la posizione del sudario» (p. 145).

Il sudario (καὶ τὸ σουδάριον/kaì tò soudárion = e il sudario) non era né un lenzuolo né un panno mortuario, ma un fazzoletto che serviva per asciugare il sudore. Il sudario che Pietro vide era quello posto fuori e si trovava sul capo di Gesù e fuori le fasce (cfr. Gv 20,7), non quello che si trovava all’interno e che non era visibile. Qui il discorso si complica, per cui bisogna stare calmi e cercare di mantenere un certo equilibrio. La traduzione corrente è questa: «[…] e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non era per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte». In latino risulta questo: «[…] et sudarium, quod fuerat super caput eius, non cum linteaminibus positum, sed separatim involutum in unum locum». Persili propende, per quanto riguarda «in unum locum», con la traduzione «nello stesso luogo» o «nella stessa posizione». Ora, il problema risiede tra le fasce e il sudario. Entrambi gli elementi avevano il corpo di Gesù come supporto in quanto avvolgevano il suo corpo, ma le fasce furono trovate in un modo e il sudario in un altro. Inoltre, il famoso luogo a parte in cui sarebbe stato trovato il sudario, piegato e col significato di «tornerò», anche se avesse una qualche corrispondenza nei costumi ebraici, in questo caso è fuori contesto.

Il verbo vedere nel Vangelo secondo Giovanni ha molte sfumature, ormai note agli studiosi del Quarto Vangelo, che sono fondamentali per capire il tipo di «sguardo». In modo particolare Giovanni usa tre verbi nello stesso brano (Gv 20,1-9) e li utilizza in tal modo: per Maria di Magdala «καὶ βλέπει/kaì blépei»; per Simon Pietro «καὶ θεωρεῖ/kaì theoreî»; per il discepolo amato «καὶ εἶδεν/kaì eîden». In italiano vuol dire «e vide», senza cogliere le sfumature determinanti che l’evangelista ha volutamente lasciato. Il punto è che il «vedere», in questo caso, inizia da quello della vista corporea per andare a quella dell’intelletto. Ed ecco che la fede in quanto tale poggia sull’intelletto. Leggiamo la spiegazione di Persili:

Con il verbo «blépei» Giovanni vuol dire che non vede tutto, ma scorge qualcosa, che gli fa iniziare il cammino della fede. […] Quando Pietro giunge al sepolcro, entra e rimane in contemplazione «theoreî» dello spettacolo che le fasce e il sudario offrono, ma non ne comprende il messaggio. […] Infine Giovanni entrò nel sepolcro e non appena osservò le fasce distese e soprattutto il sudario rialzato, comprese immediatamente che esse costituivano le tracce lasciate dalla risurrezione del corpo di Gesù, e credette. Per esprimere questo vedere con intelligenza, Giovanni usa il verbo «kaì eîden», accompagnato dal verbo della fede «καὶ ἐπίστευσεν/haì epísteusen»; Giovanni «vide, comprese e credette» (pp. 169-170).

A questo punto credo sia giunto il momento della traduzione proposta da Persili in merito al brano evangelico di Gv 20,1-9:

(Maria di Magdala) corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”. Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, scorge le fasce distese, ma non entrò. Giunge intento anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entra nel sepolcro e contempla le fasce distese (afflosciate, vuote, non manomesse), e il sudario, che era sul capo di lui, non con le fasce disteso, ma al contrario avvolto (rimasto nella posizione di avvolgimento, perciò rialzato ma non sostenuto nell’interno, perché vuoto) in una posizione unica (straordinaria, eccezionale, perché contro la legge di gravità). Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti (pp. 161-162).

Ora, vi sarebbero tanti altri elementi su cui soffermarsi (il giardino; la figura di Maria di Magdala; il suo iniziale non riconoscimento di Gesù e il successivo riconoscimento in seguito alla pronuncia del nome; il terzo giorno; il giorno dopo il sabato; i due che stanno da una parte e dall’altra della pietra sepolcrale; il lenzuolo chiamato «sindone» e tanti altri), ma credo di essermi dilungato già troppo per un articolo. Lo scopo è stato quello di utilizzare il preciso studio di Persili per mettere in luce un dato fondamentale: Cristo è risorto e ha lasciato le tracce della sua resurrezione. Occorre soltanto mettersi alla ricerca delle tracce a partire dal testo. Ed ecco che il contenuto teologico si radica fortemente nella dimensione storica per andare oltre la dimensione storica. Il sepolcro non era vuoto, ma pieno delle tracce della resurrezione.

Gabriele Cianfrani


PS. Il video sotto, tratto dal film "The Passion", potrebbe rendere l'idea.

https://www.youtube.com/watch?v=VLTzQXNcxmk

sabato 23 dicembre 2023

IL PRESEPE E IL PASTORE

 


In questo clima natalizio, pieno di difficoltà e di avversità nei confronti della fede cristiana, il presepe (o presepio) è ancora presente. Non si tratta di cadere nel solito vittimismo, ma semplicemente di constatare alcune dinamiche estranee a ciò che dovrebbe essere rappresentato dal presepe. Procediamo per gradi.

Anzitutto pare importante soffermarsi sulla parola presepe, che nelle sue origini latine rimanda alla «mangiatoia», alla «stalla», alla «dimora», al «recinto» e/o anche al luogo in cui si verificavano cose non buone. Pertanto, se la parola presepe viene adoperata per indicare la famosa rappresentazione della Natività, la quale inizia per la prima volta con san Francesco d’Assisi (a Greccio nel 1223), non può da questo non scaturire una domanda fondamentale: quale sarebbe il senso del presepe? Non solo, in quanto vi sarebbe una seconda domanda, forse più importante della prima: per quale motivo il presepe rappresenta la Natività?

Le risposte sono – o dovrebbero essere – immediate: il senso del presepe è la professione di fede nei confronti della incarnazione del Verbo e il contesto della Natività rimanda alla vita divina che il Verbo, assumendo natura umana, ci ha concesso di partecipare per mezzo della Redenzione. Questo dovrebbe essere, in ultimo, il senso del Natale. Certo, poiché il fine del Natale è la Pasqua di passione, morte e resurrezione di Cristo. Occorre parlare di quella vita che Dio ci ha concesso, in quanto tutti, prima o poi, dovremo morire. E poi? O vi è la vita eterna o il nulla – ma il nulla è totalmente inesprimibile –, non ci sono altre vie, per cui non possiamo tergiversare sull’argomento. Insomma, mi pare di scorgere il senso del Natale, in maniera molto incisiva, nelle parole dell’orazione delle lodi del 22 dicembre:

O Dio, che nella venuta del tuo Figlio hai risollevato l’uomo dal dominio del peccato e della morte, concedi a noi, che professiamo la fede nella sua incarnazione, di partecipare alla sua vita immortale.

In questa orazione vi sono elementi sui quali si potrebbero svolgere approfondimenti quasi senza fine, per cui non è possibile neanche pensare di farlo in questo piccolo spazio. Tuttavia, è importante individuarli: venuta del Figlio; peccato; morte; professione di fede; incarnazione; partecipazione; vita immortale. Per quanto riguarda i motivi dell’Incarnazione, sia dalla prospettiva biblica sia da quella magisteriale, rimando al mio articolo risalente al 2022 (clicca qui).

Ciò su cui vorrei soffermarmi in questa sede riguarda il rapporto tra il Natale e la figura del Pastore – il riferimento è principalmente a Dio –, per poi procedere col riportare alcune dinamiche, verificatesi in questi giorni, totalmente avulse dalla visione cristiana. Tra i prossimi articoli ve ne sarà uno sulla data del 25 dicembre nella cristianità antica, in quanto ancora oggi, in molti libri, si afferma la presunta sostituzione da parte della Chiesa della festività pagana del Sol Invictus istituita da Aureliano nel 274 d.C. Ma non è così, lo dimostrano fonti della cristianità antica che puntualmente non vengono riportate.

La figura del pastore, oltre ad essere determinante nel mondo biblico, fu ed è una realtà di fatto. Già Abele divenne pastore di greggi (cfr. Gen 4,2)[1] e così Abramo (cfr. Gen 13,2) e il resto della discendenza. Ora, se da una parte il pastore deve condurre al sicuro il suo gregge, proteggerlo dai pericoli e dalle bestie feroci (cfr. 1 Sam 17,34-37), dall’altra si piega verso il suo gregge per sostenerlo per non lasciarlo perire (cfr. Gen 33,13-14). Bisogna ricordare che a quel tempo il bestiame era prezioso, soprattutto per il popolo di Israele, continuamente in cammino e avente come risorsa proprio il bestiame. Pertanto, se il gregge non poteva fare a meno del pastore, neanche quest’ultimo poteva fare a meno del suo gregge. Senza procedere con tantissimi altri esempi, emergono alcuni tratti caratteristi del rapporto tra il pastore e il suo gregge, primo fra tutti quel rapporto di conoscenza intima di entrambi, che non è possibile comprendere se ci si pone al di fuori di tale rapporto.

Piccolo ma importante dettaglio: chi vive nei paesi circondati da campagne, come chi scrive, ha la possibilità di notare ancora oggi questo rapporto che vi è tra pastore e gregge. Quando egli chiama le sue pecore, con un verso o con un fischio, le pecore lo riconoscono in mezzo a tanti altri versi e in mezzo a tanti altri fischi. Questo intimo rapporto di conoscenza vi è solo tra il pastore e il suo gregge, non al di fuori di tale «recinto», ossia non al di fuori di tale «presepe». Ed ecco che con il nostro presepe riconosciamo Colui che è il Pastore (cfr. Mi 5,1-3; Lc 15,3-7: 19,10; Mt 15,24; Eb 13,20-21), Colui che è venuto a donare quella vita eterna che non è altro che la partecipazione alla Sua vita divina. Il Pastore, Cristo, il Verbo incarnato è venuto per rigenerarci, mediante la Redenzione – in tal caso Cristo non solo è il Pastore ma anche la Vittima (cfr. Eb 9,11-14; Gv 10,11-18) –, per quella eredità incorruttibile che non finirà mai (cfr. 1Pt 1,4). Ma Cristo parla di ovile/recinto (cfr. Gv 10,16), nel quale dovranno rientrare tutte quelle pecore che ancora si trovano fuori, per avere così un solo gregge e un solo Pastore. Ecco il «presepe», ossia la rappresentazione di quella mangiatoia e di quel recinto che sono del Pastore che è venuto per condurre le Sue pecore verso la Vita. Ma le pecore devono mangiare, perché il viaggio è lungo, oltre ad aver bisogno di tante altre cose. Proprio per questo il Pastore ci ha lasciato i sacramenti e come cibo l’Eucaristia, ossia il Pastore stesso. A questo punto il presepe in quanto tale non può non rimandarci alla Chiesa.

Tutto questo non è estraneo a noi uomini, non può esserlo, dal momento che il Verbo (il Figlio) ha assunto «natura umana». Le azioni divine ci superano infinitamente, non riusciremo mai a comprenderle del tutto, ma si possono capire, sono intelligibili. Come potremmo rispondere alla voce del Pastore se la Sua voce ci risultasse estranea? Il problema non risiede nel Pastore, ma in quella parte del gregge che volontariamente si è allontanata e continua ad allontanarsi, ascoltando non più il Pastore ma la voce che si frappone tra il Pastore e il gregge. Da ciò ne consegue l’incomprensione più assoluta e la totale estraneità del Natale. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, o meglio, ascoltare.

Ora, in questi giorni il presepe e la festa del Natale hanno subìto delle violenze non indifferenti, che non è il caso di riportare interamente. Eliminare la festa del Natale per favorire una festa che non ha né testa né coda – alla faccia della coerenza! –, occorre dirlo, vuol dire non aver capito nulla del Natale. Inoltre, il fatto che si affermi che il Natale consista solo nella pace, nella gioia e serenità e altre cose di questo tipo, mi fa concludere che vi è quella riduzione alla pura orizzontalità della dimensione umana, con la perdita della verticalità, del piano divino e del motivo per il quale il Verbo si è incarnato. Per essere ancora più incisivi, spesse volte nel Natale si perde di vista l’incarnazione del Verbo, con la conseguenza dell’annullamento implicito del Natale. Non a caso oggi si parla della difesa dei valori cristiani dal punto di vista «culturale». Va bene, ma il soggetto che fa cultura è l’uomo, per cui la difesa della sola dimensione culturale, per quanto sia apprezzabile, implica il velato disgregamento di ciò che si vuole difendere. Tutto questo rimanda alla distinzione, oggi ormai persa, tra l’essere e l’agire, tra la speculazione e la pratica, tra il piano verticale e il piano orizzontale, che sarà oggetto di un prossimo articolo.

Per concludere, la violenza sul presepe rimanda quella sorta inclusivismo cieco – attenzione, non si tratta di inclusione, il limite è sottile! – che comporta in maniera paradossale l’esclusivismo. Mi spiego. Aggiungere elementi estranei alla rappresentazione della Natività vuol dire intaccare, ancor prima del piano divino, il piano della natura umana. Propendere per l’inclusivismo cieco, come oggi accade spesso, vuol dire condurre l’uomo verso la dissoluzione della sua stessa natura, con perdita della sua identità. Ma è proprio questo il punto! Non ci può essere azione/grazia divina sull’uomo se non vi è la natura umana che può accoglierla. Dove agirebbe l’azione/grazia divina? I sacerdoti dovrebbero ricordare che gratia supponit naturam (la grazia suppone la natura), non la distrugge, ma la eleva e la porta verso il suo compimento. La vera inclusione, se si vuole parlare di ciò, risiede nella stessa incarnazione del Verbo, il quale ha scelto di incarnarsi in quel particolare contesto, con la Beata Vergine Maria e san Giuseppe.

Per cortesia, non nascondiamoci dietro quella ‘pastorale’ di cui si parla tanto, ma che alla fine risulta totalmente anonima. E l’anonimato deriva dal fatto che sul Verbo incarnato se ne parla in maniera disincarnata. Forse sarò un po' spietato e mi dispiacerebbe se qualcuno si offendesse, ma non confondiamo la «pastorale» con la «pastorizia».

Santo Natale  

 

Gabriele Cianfrani



[1] Per quanto riguarda le abbreviazioni bibliche presenti in questo articolo: Gen = Genesi; 1Sam = Primo libro di Samuele; Mi = Michea; Mt = Vangelo secondo Matteo; Lc = Vangelo secondo Luca; Gv = Vangelo secondo Giovanni; Eb = Lettera agli Ebrei; 1Pt = Prima lettera di Pietro. 


 


venerdì 8 dicembre 2023

NESSUNO METTE DEL VINO NUOVO IN OTRI VECCHI: L'IMMACOLATA CONCEZIONE


 

Quella dell’8 dicembre, dal 1854, risulta essere la solennità della Immacolata concezione della Beata Vergine Maria. Per quale motivo dal 1854? Perché l’8 dicembre 1854 Papa Pio IX proclamò tale dogma con la bolla Ineffabilis Deus (per leggerla interamente cliccare qui). I dogmi mariani sono complessivamente quattro: Maternità divina (431 d.C.); verginità perpetua (553 d.C.); immacolata concezione (1854); assunzione in Cielo in anima e corpo (1950).

Fin da ora è necessario precisare che trattare del concepimento immacolato di Maria è cosa che richiede troppo spazio, per cui non sarà possibile raggiungere quella esaustività richiesta da un tema di questa portata, ma qualche dato è possibile riportarlo. Tuttavia, se si volesse andare nel dettaglio, sarebbe necessaria almeno un’infarinatura riguardante lo stato dei progenitori prima della colpa d’origine, la stessa colpa o peccato d’origine (cos’è, come si trasmette, cosa comporta, quale rimedio sacramentale ecc.), la costituzione della natura umana, alcuni argomenti riguardanti la natura e la grazia e tante altre cose. Inoltre, è bene sapere che in passato vi sono state alcune disquisizioni teologiche che non sempre hanno condotto ad affermare il concepimento immacolato di Maria, pur mantenendo quella grande venerazione nei suoi confronti, comune a tutti i grandi teologi. Non solo, ma per quanto riguarda tali disquisizioni è stato osservato che andrebbe posta la distinzione tra conceptio e animatio e la stessa animazione intellettiva durante il Medioevo, ma questo rimanda ad un altro momento (per chi vuole leggere qualcosa sulla creazione dell’anima e in particolar modo secondo san Tommaso d’Aquino, riporto un mio lavoro al quale è possibile collegarsi cliccando qui).

Prima di procedere è importante sapere che gli ultimi due dogmi mariani sono stati proclamati considerando la duplice infallibilità magisteriale, che si divide in infallibilitas in credendo e infallibilitas in docendo: la prima (in credendo) riguarda la totalità dei fedeli (universitas fidelium: indica la Chiesa nel suo insieme, non la somma aritmetica di ogni singolo membro) «non può sbagliarsi nel credere – in credendo falli nequit» (Lumen gentium, n. 12); la seconda (in docendo) è la funzione magisteriale, affidata ai soli Pastori, che garantisca la certezza del credere, in materia di fede e morale. In tal caso il riferimento è soprattutto alla infallibilità in credendo, che si radica in quel sensus fidei che riguarda tutto il popolo di Dio, ecclesiastici e laici. In poche parole riguarda tutta la Chiesa.

A questo punto sarebbe necessario parlare di un aspetto che ultimamente, anche da parte dei cattolici, è poco compreso: la Rivelazione, ossia la Parola di Dio. Sembra strano, ma non lo è. Spesse volte si considera ‘solo’ la Sacra Scrittura come Parola di Dio, lasciando nell’oblio l’altra fonte imprescindibile, ossia la Sacra Tradizione (cfr. Lc 1,1-4; Gv 21,24-25; 2Pt 3,15-16). È un errore grossolano – oggi più o meno comprensibile –, per il semplice motivo che la Rivelazione in quanto Parola di Dio scaturisce e dalla Sacra Scrittura e dalla Sacra Tradizione, senza considerare che la Sacra Tradizione appare sia in senso ampio (per iscritto) sia in senso stretto (oralmente). La domanda sarebbe la seguente: cos’è la Sacra Tradizione? Questa domanda sarà alla base del prossimo articolo, nel quale sarà trattato il rapporto tra Sacra Scrittura e Sacra Tradizione.

Ora, il dogma dell’Immacolata concezione esprime che la Beata Vergine fu esente dalla macchia del peccato d’origine, ossia non ereditò il peccato d’origine, non per suo merito creaturale ma per l’applicazione preventiva dei meriti redentivi di Cristo, cioè preservata dalla colpa d’origine in virtù dei meriti redentivi di Cristo. Possibile obiezione: dove sta scritto? Non è vero che san Paolo ha detto che tutti hanno peccato (cfr. Rm 3,23) e che tutti, per somiglianza col peccato di Adamo, sono colpiti dalla morte e che necessitano della redenzione (cfr. Rm 5,12-14; 1Cor 15,22)? Certo, san Paolo ha riportato in maniera straordinaria quella che è riconosciuta come la dottrina del peccato d’origine e le sue conseguenze, perciò ha espresso tutto con quella finezza che gli era propria. Infatti, ciò non viene neanche minimamente scalfito con il dogma della Immacolata concezione, anzi, tale dogma avvalora il tutto. Senza riprendere il passo del Protovangelo (Gen 3,15), che permane nella sua importanza e che consta del duplice senso letterale proprio ed improprio, oltre ad altri luoghi veterotestamentari, si ritiene necessario soffermarsi su due luoghi sui quali riflettere: Lc 1,28; Lc 1,41-45.

Il primo riferimento è al verso di Lc 1,28, ossia a quel «piena di grazia» (gratia plena), che risulta essere un caso unico in tutta la Scrittura. Pertanto, occorre chiedersi cosa sia la «grazia» e come questa agisca sulla natura umana, se si vogliono comprendere quelle parole. La grazia è di per sé quel dono soprannaturale di Dio che consente alla creatura umana di partecipare della natura divina (cfr. Tt 3,7; 2Pt 1,4) e che comporta un vero e proprio rinnovamento dell’uomo (cfr. Concilio di Trento, Decreto sulla giustificazione, capitolo VII). Tale grazia che agisce sul piano ontologico è stata chiamata gratia gratum faciens o grazia santificante o grazia abituale. Si tratta di quella grazia che rende graditi a Dio in seguito al rinnovamento della creatura umana e che comporta la vera adozione divina (cfr. Gal 3,5). A questo punto san Tommaso d’Aquino direbbe che l’adozione divina è diversa da quella umana, in quanto solitamente l’uomo adotta ciò che gli è già gradito ed è già idoneo, mentre Dio, adottandoci divinamente, ci rende graditi a Lui e ci partecipa la sua beatitudine (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III, q. 23, a. 1). Pertanto, la grazia divina agisce primariamente sul piano ontologico, rinnovando interamente la creatura e rendendo la medesima partecipe della divina natura. Ma cosa sarebbe la grazia, in ultimo, se non Dio stesso? Quale sarebbe il suo rapporto con l’uomo? Sarebbe una sorta di panteismo o di emanatismo? Assolutamente no, dal momento che Dio è assolutamente semplice e tutto ciò che si manifesta al di fuori di Dio è «creato». Pertanto, nonostante l’autore della grazia sia Dio e in ultimo la medesima coincide con Dio, dal momento che viene ricevuta dalla creatura risulta essere creata. Ovviamente la partecipazione della natura divina supera infinitamente la partecipazione dell’essere, per cui bisogna ponderare bene le parole e soprattutto capire che ciò, spesse volte, supera la stessa capacità umana di comprensione.

Ora, dal momento che la grazia non può coabitare col peccato, e nel grembo di Maria ha assunto natura umana l’Autore della grazia, come poteva essere possibile la coabitazione di Dio e del peccato (d’origine)? Si ricordi che Dio è Trinità e che in tal caso la natura umana è stata assunta dalla Seconda Persona della Trinità (il Figlio). Ma se la colpa del peccato d’origine viene rimossa con la grazia santificante (conferita inizialmente col Battesimo) e l’angelo Gabriele saluta Maria come «piena di grazia», vuol dire che ella era già piena di Dio, ossia l’angelo non trova in lei neanche l’ombra del peccato, altrimenti non l’avrebbe salutata come «piena di grazia». A questo punto sorge un’altra domanda: come si manifesta la grazia? La riposta a tale domanda richiederebbe uno spazio notevole, ma bisogna sapere che la grazia è di per sé gratuita e in chiave biblica comprende anche l’aspetto della elezione, della scelta da parte di Dio, non per i meriti umani ma per la ricchezza della bontà divina (cfr. Dt 4,37; 7,7-8). A questo punto appare chiaro che Maria è «piena di grazia» per quei singolari meriti redentivi di Cristo – anche Maria è stata redenta, per cui non vale l’obiezione sopra riportata –, applicati ad ella preventivamente (Pio XI, Bolla Ineffabilis Deus; Concilio Vaticano II, Lumen gentium, 53), senza contare il dialogo tra Maria e l’angelo Gabriele.

Per quanto riguarda il secondo passo, Lc 1,41-45, vi sono due verità: Maria in quanto Madre del Signore e Maria in quanto dispensatrice delle grazie. Evidentemente Elisabetta saluta Maria quale madre del suo Signore, ma tale saluto segue un fatto ben preciso: la voce di Maria fa sussultare il figlio di Elisabetta che in quel momento si trovava nel suo grembo (Giovanni il Battista). Il tempo si ferma: da una parte la madre del Signore e la madre del precursore, dall’altra Cristo e Giovanni il Battista nel grembo delle relative madri. L’Autore della grazia, per mezzo della voce di Maria, raggiunge colui che sarà il suo precursore per mezzo della madre. Ed ecco che colei che era già piena di grazia porta nel suo grembo l’Autore della grazia, dal momento che ha trovato in lei quel tabernacolo che poteva permetterGli di porre la Sua tenda in mezzo a noi (cfr. Gv 1,14). Mi pare che tutto ciò emerga dai testi stessi.

Nonostante l’argomento meriterebbe di essere trattato in tutta la sua ampiezza – non è facile! –, il dogma dell’Immacolata concezione non lede quanto si legge nei passi paolini sopra riportati, dal momento che la redenzione è stata universale e anche Maria è stata redenta, ma preventivamente, come risulta dai passi lucani.

Per concludere, al di là delle ricerche teologiche, proprio colui che nutre grande odio verso la Beata Vergine affermò il suo concepimento immacolato. Nel 1823 i due domenicani P. Cassetti e P. Pignatura, dopo aver constatato la possessione diabolica di un ragazzo undicenne analfabeta dell’attuale Ariano Irpino, e dopo aver ricevuto il permesso di esorcizzarlo da parte del Vescovo, procedettero con l’esorcismo. Tuttavia, dal momento che a quel tempo si discuteva molto del concepimento immacolato di Maria – si ricordi che il dogma fu proclamato nel 1854 e nel 1858 la Beata Vergine a Lourdes lo confermò, e sulle mariofanie di Lourdes ci sarebbe tanto da dire –, i due domenicani richiesero al demonio una cosa strana, ossia di esprimersi sul concepimento immacolato di Maria mediante un sonetto con caratteristiche ben precise. Impossibile per un ragazzino analfabeta, ma forse anche qualcun altro. Bisogna sapere che l’angelo caduto non pronuncia i nomi di Gesù e di Maria e non lo fece neanche quella volta, ma ciò che venne fuori, anche se pronunciato dal demonio per bocca del ragazzino, ha il suo fascino. Attenzione: non bisogna prestare ascolto a tante cose che girano oggi, né a presunte catechesi da parte dell’angelo caduto né ad altre corbellerie, si cadrebbe nel tranello di colui ha l’intelletto deturpato, sì, ma comunque superiore all’intelletto umano. Il caso in questione fu un’eccezione e fu riconosciuto da chi era del mestiere. Pertanto, ecco il sonetto, anche se qualcuno avanza dei dubbi, ma senza fornire spiegazioni:

Vera madre son io d’un Dio ch’è Figlio

e son figlia di Lui benché sua Madre.

Ab aeterno nacqu’Egli ed è mio Figlio.

Nel tempo io nacqui e pur gli son Madre.

 

Egli è mio Creator ed è mio Figlio,

son io sua creatura e gli son Madre.

Fu prodigio divin l’esser mio Figlio

un Dio eterno e me aver per Madre.

 

L’esser quasi è comun tra Madre e Figlio,

perché l’esser dal Figlio ebbe la Madre

e l’esser dalla Madre ebbe anche il Figlio.

 

Or, se l’esser dal Figlio ebbe la Madre

o s’ha da dir che fu macchiato il Figlio

o senza macchia s’ha da dir la Madre.[1]

 

Pertanto, nessuno mette il vino nuovo in otri vecchi, men che mai Colui che è il Pane di Vita.



 

Gabriele Cianfrani



[1] Il testo l’ho preso da F. Bamonte, La Vergine Maria e il diavolo negli esorcismi, Paoline Editoriale Libri, Milano 20105, pp. 37-38.


giovedì 31 agosto 2023

RECENSIONE DEL LIBRO "L'ADESIONE DIABOLICA. UNA SFIDA ANTICA FRA DANNAZIONE E SALVEZZA" DEL PROF. ALBERTO CASTALDINI


 

Alberto Castaldini, L’adesione diabolica. Una sfida antica fra dannazione e salvezza, Sugarco Edizioni, Milano 2023

Recensione a cura di Gabriele Cianfrani

 

Il libro che ho il piacere di recensire, dedicato al grande esorcista e Servo di Dio P. Candido Amantini (1914-1992), è “L’adesione diabolica. Una sfida antica fra dannazione e salvezza” del Prof. Alberto Castaldini[1], che conosco personalmente e al quale va la mia stima e la mia gratitudine per un lavoro come questo. Sì, perché il Prof. Castaldini pone in luce alcuni aspetti antropologici – e non solo – di grande importanza, chiamati in causa a fronteggiare quell’azione diabolica nei confronti della quale, purtroppo ma molto spesso, si finisce per assecondarla, o meglio, per «aderirvi». Questo aspetto risulta centrale e lo si capisce già dal primo capitolo: La libertà spezzata. È proprio dalla libertà, che viene talmente piegata da «spezzarsi», che tutto ha inizio.

È importante, soprattutto per lo smarrimento odierno su temi come quello trattato dal Prof. Castaldini, dato che quando si parla del Maligno il riferimento non è ad una realtà impersonale, ma certamente personale, dal momento che il Maligno è un angelo caduto e come tutti gli angeli (buoni e cattivi) è una «persona»: omne subsistens in natura rationali vel intellectuali est persona (Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, IV, c. 35). Ciò emerge chiaramente sia dalla prefazione di don Silvio Zonin (esorcista della diocesi di Verona) sia dall’introduzione dell’Autore.

Ora, la libertà dell’uomo, che come facoltà spirituale rientra nella sua costituzione ontologica, conobbe il primo ostacolo con i progenitori Adamo ed Eva. Senza svolgere particolari approfondimenti, è possibile notare che alla domanda del serpente (cfr. Gen 3,1) la donna risponde inserendo il «non toccare» (cfr. Gen 3,3), ossia inserisce del suo al divieto divino, acconsentendo al serpente, per poi ritrovarsi con la libertà piegata, o meglio, spezzata. Tale stato poteva essere sanato soltanto dal rinnovamento della creazione in Cristo, come risulta dall’epilogo del libro (Per una creazione rinnovata in Cristo), che concede la partecipazione alla natura divina (cfr. 2Pt 1,4) per mezzo della gratia gratum faciens conferita sacramentalmente, a partire dal sacramento del Battesimo (cfr. Gal 3,27).

Passando in rassegna alcuni punti, il Prof. Castaldini pone in evidenza il fatto che l’«adesione» diabolica, per essere tale, non può non coinvolgere l’intelletto e la volontà. Infatti, nel primo capitolo egli scrive: «[…] in cui la tentazione viene perfezionata dalla volontà umana in iniziative che penetrano e si radicano nel vissuto concreto, quotidiano, abituale, proprio e altrui» (p. 36). In questo passo emerge un aspetto molto importante, ossia che la tentazione del Maligno non si pone in maniera totalmente estranea all’essere umano, altrimenti non vi sarebbe adesione alcuna, ma si radica nel vissuto, e se si radica nel vissuto vuol dire che si radica in ciò che la volontà umana cerca per sua natura: il bene. Infatti, se l’oggetto della volontà è il bene conosciuto, ossia il bene presentato come tale dall’intelletto, la volontà è disposta naturalmente ad aderirvi. Ma se questo bene venisse falsamente presentato come tale, ossia un male sotto le sembianze di bene, allora occorrerebbe una seria valutazione che chiami in causa l’agire morale, incluso il dinamismo delle virtù, che implica sia la potenza dell’intelletto sia quella della volontà. Ciò permette che un bene sia conosciuto e riconosciuto come tale. Tuttavia, come ben scrive l’Autore, spesse volte nel cooperatore di iniquità si confonde ogni criterio di discernimento. Ed ecco che dal punto di vista psichico e morale, la fragilità umana – spesse volte evocata come una vera e propria scusa… – non esonera l’uomo dal suo agire morale. Se è vero, come è vero, che agere sequitur esse, all’«adesione» diabolica segue un vero e proprio «assoggettamento», dal momento che viene coartato il vero agire libero dell’uomo, per cedere il passo alla negazione della libertà umana, ergo alla negazione dell’essere: «[…] poiché il diavolo, ribellandosi, negò l’essere, e con esso sconvolse l’armonia della creazione oltre a negare Dio, se stesso e gli uomini» (p. 40). Ora, tra i vari aspetti che il Prof. Castaldini evidenzia, ve ne sono alcuni e tutti di estrema importanza: la deformazione della intelligenza dei demòni, pur conservando quella volontà che continuamente aderisce al male (cfr. pp. 41-42); la falsa mistica come ricerca irrequieta che vuole trasformare l’uomo, cercando di elevarlo in modo illusorio decretando la sua rovina, facendo a meno di Dio (cfr. p. 49); l’adesione alle tenebre che giunge al cuore della questione antropologica situandosi nel nucleo ontologico dell’uomo (cfr. p.52); l’immaginazione creatrice che si riscontra nel mondo dell’occulto e che tende ad una vera e propria autodivinizzazione, subordinando a ciò anche la Rivelazione divina (cfr. 60-61) ed altri. Tra i vari aspetti ritengo particolarmente importante soffermare l’attenzione su quello relativo alla «soggezione/assoggettamento» conseguente alla «adesione». Lungi dal voler presentare il male come una sorta di algoritmo senza volto, come tante volte capita di constatare nell’epoca odierna, che ha quasi perso il concetto del volto (cfr. p. 121) e di conseguenza dell’identità, ergo della personalità, non vi sarebbe adesione diabolica se mancassero gli atteggiamenti attivo e cooperante, ossia volontario (cfr. p. 82). Cosa comporterebbe l’adesione alla proposta del Maligno? Non solo ciò che si definisce «peccato», ma un progressivo deterioramento ontologico. Certamente, non si mette in discussione l’immortalità dell’anima intellettiva, ossia l’anima umana – ovvio! –, ma certamente l’uomo, considerato nella sua totalità di anima e corpo, nonostante sia chiamato da Dio alla perfezione eterna, può incorrere nella più grande imperfezione, ossia la dannazione eterna. Se Dio è l’Essere per sé sussistente che partecipa l’essere alle creature, e l’essere come atto è la perfezione di tutte le perfezioni, l’incontro eterno con Dio comporta il compimento della perfezione umana, e sul piano soprannaturale comporta la piena partecipazione alla Bontà divina – già la grazia santificante agisce soprannaturalmente sul piano ontologico. Non solo, ma sia l’intelletto umano sia la volontà umana troveranno in Dio il pieno appagamento, Colui che solo può appagare in pienezza l’essere umano, essendo Egli somma Verità e somma Bontà. Tutto ciò corrisponde ad una vera e propria perfezione ontologica della creatura umana.

Al contrario, l’adesione diabolica, che non può non includere il moto della volontà verso l’oggetto diabolicamente presentato, mira a condurre ad una vera e propria dipendenza morale dal demonio, tale da provare una sorta di gusto del peccato (cfr. p. 80). Ciò si riscontra nell’opposizione tra «virtù» e «vizi». Ed ecco che l’agire morale, in quanto tale, non può prescindere né dall’intelletto né dalla volontà, infatti, l’Apostolo dice: […] lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto (Rm 12,2). Si noti l’ordine adoperato dall’Apostolo: pensiero – volontà. Il discernimento avviene sul piano intellettivo e successivamente subentra quello volitivo. Ma come l’intelletto presenta alla volontà il suo oggetto, così la stessa volontà muove l’intelletto e le due facoltà s’incontrano sul campo della libertà. Come riporta il Catechismo della Chiesa Cattolica: la libertà è il potere, radicato nella ragione e nella volontà, di agire o di non agire, di fare questo o quello, di porre così da se stessi azioni deliberate. Grazie al libero arbitrio ciascuno dispone di sé. La libertà è nell’uomo una forza di crescita e di maturazione nella verità e nella bontà. La libertà raggiunge la sua perfezione quando è ordinata a Dio, nostra beatitudine (n. 1731).

Nell’«adesione» diabolica è proprio la libertà ad essere coartata, impedendo alla creatura umana di raggiungere la sua perfezione in Dio, sfociando in quell’assoggettamento che non è altro che il risultato di un’adesione continua, scegliendo di partecipare al mysterium iniquitatis, e ciò volontariamente, fino a subire una certa conformazione a quest’ultimo.

Quale sarebbe il punto di partenza? Il Prof. Castaldini parla di stupidità metafisica (p. 65) nel rifiuto della propria creaturalità e di conseguenza nel rifiuto del progetto divino. È tutto concatenato, dacché Dio ha creato l’uomo per un progetto soprannaturale e l’uomo «aderisce» a tale progetto accettando, anzitutto, la propria creaturalità.

Oggi più che mai è necessario il ritorno ad una sana metafisica, anzitutto di stampo tomista, anziché chiudersi in quell’antropocentrismo falsamente presentato come bene per l’uomo, ma che in realtà continua imperterrito nell’estromissione di Dio dalla storia dell’uomo.

Ora, il rifiuto di Dio comporta il rifiuto della somma Bontà conseguente al rifiuto della propria creaturalità, nella convinzione di poter fare a meno, ontologicamente, di Colui che è (Es 3,14). Un rifiuto del genere implica la tendenza al non essere, nella negazione dell’essere, e non a caso il Maligno è colui che nega soprattutto ciò che il Creatore ha elargito sin dal principio: l’essere. La negazione dell’essere equivale alla negazione non solo di se stessi ma anche di Dio, con la differenza che Dio non può essere negato e non corre il rischio della dannazione, l’uomo sì, dacché con l’«adesione» diabolica si assoggetta a colui che è irreversibilmente dannato e che tende a negare anche se stesso pur di negare Dio Creatore. E in tal caso la conformazione al mysterium iniquitatis diventa così grande da propendere, addirittura, per la contraddizione, estranea persino a Dio. Ma il Verbo incarnato ha mostrato anche questo, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori (Lc 2,35). Ancora una volta la Beata Vergine, inseparabile dal Figlio eterno del Padre e sempre piena dello Spirito Santo, è il modello perfetto della perfezione umana corrisposta al progetto di Dio.

Un ringraziamento al Prof. Castaldini per aver messo in luce, nel suo libro, quello che a questo punto sembra essere l’aspetto più importante: la dipendenza ontologica e antropologica dell’uomo da Colui che è l’Essere per sé sussistente e sommamente Persona, offuscate dall’azione del Maligno, ma che dal riconoscimento di tale dipendenza creaturale dipende la salvezza o la dannazione.



[1] Laureato in Giurisprudenza e dottore di ricerca in Filosofia, è docente universitario, membro associato della Facoltà di Teologia Greco-Cattolica dell’Università Babeş-Bolyai di Cluj, in Transilvania, dove insegna filosofia e teologia della storia. Dal 2006 al 2010 ha diretto l’Istituto Italiano di Cultura di Bucarest e ha ricoperto l’incarico di addetto culturale dell’Ambasciata d’Italia in Romania. Collabora come esperto con l’Associazione Internazionale Esorcisti (AIE).


sabato 6 maggio 2023

TUTTO E' STATO FATTO PER MEZZO DI LUI


 

Nelle librerie e su Internet è disponibile il mio libro pubblicato pochi giorni fa dalla Tau Editrice: 

Tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Discorso sulla fede e sulla realtà (2023).

 

Dalla quarta di copertina:

Il lavoro si presenta come la riflessione dell’autore su alcuni temi riguardanti il percorso di vita cristiano. Il tutto prende spunto da due passi della Scrittura: «tutto è stato fatto per mezzo di lui» (Gv 1,3) e «[…] pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15). Pertanto, lo scopo è quello della testimonianza riflessiva circa alcuni contenuti della fede cristiana (cattolica), in modo che vi siano confronti tematici, cercando di porre in evidenza la linea del Magistero della Chiesa ed esprimendo che il senso ultimo si trova nel Verbo di Dio.


Estratto dalla prefazione del Prof. Carmelo Pandolfi:

Di ou tà pánta egéneto – per quem omnia facta sunt canta il Simbolo ripetendo il Prologo di Giovanni. Gabriele Cianfrani – lo sappiamo – sente visceralmente la densità del Lógos, tanto che sta pensando ad uno studio sulla convergenza tra lógos ed esse (tomista). 

Ma qui il lavoro non scende a tali profondità e si mantiene al livello di quella che, una volta, si chiamava Apologetica.

Non c'è dubbio che una apologetica razionalistica, elencatica e difensiva abbia in certa misura fallito. È anche vero che la reazione – la mancanza di Apologetica – ha fallito anche essa, perché ha prodotto un banale «volemose bene», offensivo del Bene stesso.

La soluzione sta dentro il mistero stesso del Lógos che è Gesù Cristo, nel senso che la dogmatica stessa è apologetica. La bellezza del dogma si difende da se stessa e va solo mostrata, come numero primo inderivato e autoconvincente. Come l’originalità assoluta di quel brano, quello lì, di Mozart. Così ha insegnato, e praticato lungo tutta la sua «Gloria», la teologia più bella e insieme colta fra i Moderni: quella di Balthasar.


P.S. Chiederei, a chi decidesse di acquistarlo, di contattarmi - anche tramite l'indirizzo email che si trova a pagina 316 -, dal momento che è in corso l'elaborazione dell'Errata Corrige in riferimento alle pagine 66 e 67, in modo da poterla inviare tramite email.


sabato 8 aprile 2023

DESCENDIT AD INFERI: IL SABATO SANTO


Nel Triduo pasquale, a volte, si pone attenzione quasi esclusivamente al Venerdì santo e alla Domenica di resurrezione, ma il Sabato santo risulta quasi una sorta di vuoto, una semplice attesa della Domenica (il giorno dopo il sabato). In realtà il Sabato santo è un giorno fondamentale del Triduo pasquale, anzi, è proprio nel Sabato santo che avviene quello sconvolgimento atteso da secoli e secoli. Quando il Simbolo apostolico riporta «discéndit ad inferi» (discese agli inferi), il riferimento è ad una realtà ben precisa. Infatti, nell’ Ufficio delle Letture di oggi, è riportata un’antica «Omelia sul Sabato santo»:

Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi. Certo egli va a cercare il primo padre, come la pecorella smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell’ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva che si trovano in prigione. Il Signore entrò da loro portando le armi vittoriose della croce. Appena Adamo, il progenitore, lo vide, percuotendosi il petto per la meraviglia, gridò a tutti e disse: «Sia con tutti il mio Signore». E Cristo rispondendo disse ad Adamo: «E con il tuo spirito». E, presolo per mano, lo scosse, dicendo: «Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà. […] Sorgi, allontaniamoci di qui. Il nemico ti fece uscire dalla terra del paradiso. Io invece non ti rimetto più in quel giardino, ma ti colloco sul trono celeste. Ti fu proibito di toccare la pianta simbolica della vita, ma io, che sono la vita, ti comunico quello che sono. Ho posto dei cherubini che come servi ti custodissero. Ora faccio sì che i cherubini ti adorino quasi come Dio, anche se non sei Dio. Il trono celeste è pronto, pronti e agli ordini sono i portatori, la sala è allestita, la mensa apparecchiata, l’eterna dimora è addobbata, i forzieri aperti. In altre parole, è preparato per te dai secoli eterni il regno dei cieli».

Non ci sarebbe altro da aggiungere, nonostante l’omelia non sia stata riportata interamente, ma è possibile qualche commento.

Anzitutto è questo il significato di quel meraviglio affresco dell’ἀνάστασις (anastasis) – è l’immagine sopra, scelta per l’articolo – che si trova nella Chiesa di San Salvatore in Chora (Instanbul), dal momento che Cristo, vero Dio e vero uomo, ha compiuto quella redenzione che anche i «giusti» che furono prima di Lui attendevano. Le due persone che nell’affresco si trovano a destra e a sinistra di Cristo, che le prende per mano, sono i progenitori Adamo ed Eva, portati via da quel soggiorno dei morti che va sotto il nome ebraico di Shéol, corrispondente a quello che in greco si chiama ade (cfr. Fil 2,10; At 2,24; Ef 4,9; Ap 1,18). Circa lo Shéol, il noto Dizionario di Teologia Biblica diretto da Xavier Leon-Dufour (e altri) riporta:

Il defunto «non è più» (Sal 39,14; Giob 7,8.21; 7,10): prima impressione di inesistenza, perché l’oltretomba sfugge alle prese dei viventi. Nelle credenze primitive, conservate a lungo dal VT [Vecchio Testamento], la morte non è tuttavia un annientamento totale. Mentre il corpo è deposto in una fossa sotterranea, qualcosa del defunto, un’ombra, sussiste nello šeol. Ma questi inferi sono concepiti in modo molto rudimentale: un buco spalancato, un pozzo profondo, un luogo di silenzio (Sal 115,17), di perdizione, di tenebre, di dimenticanza (Sal 88,12 s; Giob 17,13). Ivi tutti i morti radunati partecipano alla stessa misera sorte (Giob 3,13-19; Is 14,9 s), anche se vi sono gradi nella loro ignominia (Ez 32,17-32). […] Tale è la prospettiva desolante che la morte apre all’uomo per il giorno in cui dev’essere «riunito ai suoi padri» (Gen 49,29). Qui le immagini non fanno che dare una forma concreta ad impressioni spontanee che sono universali ed a cui si limitano ancora molti dei nostri contemporanei (pp. 642-643).

Nonostante vi sia molto da indagare sullo Shéol e soprattutto svolgere un confronto sull’oltretomba con altre religioni, cosa che in parte Leon-Dufour fa, si riporta il superamento dello Shéol grazie alla potenza divina:

Non è in potere dell’uomo salvare se stesso dalla morte: occorre la grazia di Dio, che solo è per natura il vivente. Quando perciò il potere della morte si manifesta sull’uomo, in qualsiasi modo, egli non può che rivolgere a Dio un appello (Sal 6,5; 13,4; 116,3). Allora, se è giusto, può nutrire la speranza che Dio «non abbandonerà la sua anima allo sheol» (Sal 16,10), «libererà la sua anima dagli artigli dello sheol» (Sal 49, 16). Una volta guarito o salvato dal pericolo, renderà grazie a Dio per averlo liberato dalla morte (Sal 18,17; 30; Giona 2,7; Is 38,17), perché appunto di una tale liberazione avrà fatto l’esperienza concreta. Ancor prima che le prospettive della sua fede abbiano superato i limiti della vita presente, egli saprà così che la potenza divina prevale su quella della morte e dello sheol: primo germe di una speranza che si evolverà infine in una prospettiva di immortalità. […] D’altronde la rivelazione, ancor prima di aprire a tutti simili prospettive, aveva illuminato di nuova luce l’enigma della morte dei giusti, attestandone la fecondità. Il fatto che il giusto per eccellenza, il servo di Jahve, sia colpito a morte e «strappato via dalla terra dei viventi», non è privo di significato: la sua morte è un sacrificio espiatorio offerto volontariamente per i peccati degli uomini; con essa si compie il disegno di Dio (Is 53,8-12). Si svela così in anticipo il tratto più misterioso dell’economia della salvezza, che la storia di Gesù porrà in atto. […] Fino a Cristo e senza di lui, c’era il regno della morte; Cristo viene e, con la sua morte, trionfa della morte stessa; da questo istante la morte cambia senso per la nuova umanità che muore con Cristo per vivere con lui eternamente (pp. 646-647).

Questo il breve percorso biblico fino ad arrivare al momento decisivo, ossia il Sabato santo. Da precisare che ciò non sarebbe stato possibile se l’incarnazione del Verbo non fosse avvenuta così com’è avvenuta, ossia l’unione ipostatica, sulla quale si tornerà in altra sede. Il discorso sull’unione ipostatica è così importante da determinare tutto il resto, oltre alla corretta comprensione di tanti fatti. La corretta comprensione dell’incarnazione evita tanti problemi che ultimamente sono emersi nuovamente, ai quali è possibile rispondere con chiarimenti risalenti a molti secoli fa. Uno dei problemi, ad esempio, riguarda la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, in riferimento alla quale si dice: «è venuto Gesù»; «ora Gesù si è trasformato nel pane e nel vino»; «adesso Gesù è venuto dal Cielo ed è nell’ostia». Non è così e un’impostazione simile sminuirebbe enormemente ciò che avviene nella conversione del pane e del vino, poiché sono questi elementi a «convertirsi», ma ciò rimanda ad un altro lavoro.

Tornando al Sabato santo, il Catechismo della Chiesa Cattolica riporta:

La Scrittura chiama inferi, Shéol o ̔Αιδην il soggiorno dei morti dove Cristo morto è disceso, perché quelli che vi si trovano sono privati della visione di Dio. Tale infatti è, nell’attesa del Redentore, la sorte di tutti i morti, cattivi o giusti; il che non vuol dire che la loro sorte sia identica, come dimostra Gesù nella parabola del povero Lazzaro accolto nel «seno di Abramo». «Furono appunto le anime di questi giusti in attesa del Cristo a essere liberate da Gesù disceso all’inferno». Gesù non è disceso agli inferi per liberare i dannati né per distruggere l’inferno della dannazione, ma per liberare i giusti che l’avevano preceduto. «La Buona Novella è stata annunciata anche ai morti…» (1Pt 4,6). La discesa agli inferi è il pieno compimento dell’annunzio evangelico della salvezza. È la fase ultima della missione messianica di Gesù, fase condensata nel tempo ma immensamente ampia nel suo reale significato e estensione dell’opera redentrice a tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, perché tutti coloro i quali sono salvati sono stati resi partecipi della redenzione (CCC, nn. 633-634).

Da questo si capisce che il Sabato santo non è un giorno di «vuoto» o una «semplice attesa», ma il pieno compimento della redenzione. Inoltre, il Catechismo Romano (o Tridentino) riporta notevoli precisazioni:

Con queste parole [discese all’inferno] riconosciamo che, in quel tempo, la medesima persona di Gesù Cristo fu nell’inferno e giacque nel sepolcro, il che non deve sorprendere. Infatti, come spesso abbiamo ripetuto, sebbene l’anima fosse uscita dal corpo, tuttavia la divinità non si separò mai né dall’anima né dal corpo. […] Qui il vocabolo in questione [inferno] vuole significare quelle nascoste sedi, in cui stanno le anime di coloro che non hanno conseguito la beatitudine celeste. La Sacra Scrittura offre molteplici esempi di questo uso. In san Paolo leggiamo: In nome di Gesù, ogni ginocchio si curvi, in cielo, in terra, nell’inferno (Filipp. II, 10). Negli Atti degli Apostoli, san Pietro assicura che Gesù Cristo N. S. risuscitò, dopo aver superato i dolori dell’inferno (Atti II, 24). Tali sedi non son tutte del medesimo genere. Una è quella prigione tenebrosa e orribile, nella quale le anime dei dannati giacciono in un fuoco perpetuo e inestinguibile, insieme agli spiriti immondi. In questo significato abbiamo i termini equivalenti di geenna, abisso, inferno propriamente detto. In secondo luogo c’è la sede del fuoco purgante, soffrendo nel quale, per un determinato tempo, le anime dei giusti subiscono l’espiazione, onde possano salire alla patria eterna, chiusa a ogni ombra di colpa. […] Una terza sede è quella in cui le anime dei santi furono ospitate prima della venuta di Gesù Cristo N. S. Esse vi dimorarono quietamente, immuni da ogni pena, alimentate dalla beatifica speranza della redenzione. […] Gesù Cristo scendendo nell’inferno liberò appunto le anime di questi giusti, aspettanti il Salvatore nel seno di Abramo. […] Tutti vi erano penetrati prigionieri; egli invece, libero e vincitore fra morti, vi entrò per debellare i demòni, dai quali essi erano tenuti prigionieri a causa della colpa originale. […] Così fu compiuta la promessa fatta al buon ladrone: Oggi sarai con me in paradiso (Luc. XXIII, 43). Questa liberazione dei buoni era stata molto tempo innanzi predetta da Osea con queste parole: O morte, io sarò la tua morte; o inferno, io sarò la tua distruzione (Os. XIII, 14); e dal Profeta Zaccaria: Per te, a causa del sangue del tuo patto, io ritirerò i tuoi prigionieri dalla fossa senz’acqua (Zac. IX, 11); nonché dal passo dell’Apostolo: Egli ha spogliato i principati e le potestà, offrendoli a spettacolo e trionfando di loro (Col. II,15).

Per concludere, sui passi sopra riportati occorrerebbe riflettere, ma soprattutto si capisce che Gesù, durante il Sabato, non stava «dormendo», ma stava salvando il mondo.


Gabriele Cianfrani  

 

martedì 4 aprile 2023

L'INGRESSO NELLA PASSIONE SALVIFICA


 

La prima lettura di Domenica 2 aprile (2023) è tratta dal libro di Isaia e il passo è uno dei cosiddetti «carmi del Servo» del Signore o «canti del Servo» del Signore, che in tutto sono quattro: Is 42,1-4; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12. In questo caso il riferimento è al secondo:

Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,

perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.

Ogni mattina fa attento il mio orecchio

perché io ascolti come i discepoli.

Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio

e io non ho opposto resistenza,

non mi sono tirato indietro.

Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,

le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;

non ho sottratto la faccia

agli insulti e agli sputi.

Il Signore Dio mi assiste,

per questo non resto svergognato,

per questo rendo la mia faccia dura come pietra,

sapendo di non restare confuso (Is 50,4-7).

 

La prima lettura termina qui, nonostante gli altri versetti. Ma ciò basta per trovare nel Vangelo secondo Matteo il riferimento a questo canto di Isaia:

Allora gli sputarono in faccia e lo percossero; altri lo schiaffeggiarono, dicendo: «Fa’ il profeta per noi, Cristo! Chi è che ti ha colpito?» (Mt 26,67);

Sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo (Mt 27,30).

Quel che serve per far capire è in che modo i testi profetici veterotestamentari siano stati compiuti da Cristo, o meglio, come i testi veterotestamentari abbiano trovato compimento in Cristo. Questo è molto importante, dal momento che Cristo è il Verbo di Dio ed è tale prima che Abramo fosse, come si legge nel Vangelo secondo Giovanni: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono» - «Ἀμὴν ἀμὴν λέγω ὑμῖν, πρὶν Ἀβραὰμ γενέσθαι ἐγὼ εἰμί» - «Amen, amen dico vobis, antequam Abraham fieret, ego sum» (Gv 8,58). Occorre prestare attenzione a quell’amen (si rimanda a questo articolo).

Anzitutto Cristo non afferma soltanto di essere prima di Abramo – già in questo vi è il rimando alla sua divinità –, ma afferma «Io Sono». Non si tratta di una semplice affermazione, dal momento che «Io Sono» è il nome che Dio rivelò a Mosè sul monte Sinai: Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi”» (Es 3,14). Tale nome, nella lingua ebraica, greca e latina risulta essere così: אֶהְיֶה֭ אֲשֶׁ֣ר אֶהְיֶ֑ה ; ἐγώ εἰμι ὁ ὤν; Ego sum qui sum. Il riferimento di Gesù al nome divino risulta alquanto chiaro, oltre al fatto che si intravede quella profonda intimità, tale che Egli e il Padre sono uno – Ego, et Pater unum sumus (Gv 10,30). Non si tratta affatto di quella posizione eretica conosciuta con il nome di «modalismo», con quella particolarità in Oriente conosciuta col nome di «sabellianismo» (lo stesso Dio, identificato col solo Padre, che si presenta come tale, come Figlio e come Spirito Santo, dal momento che questi sono semplici modi di presentazione, di apparire, e annullano la distinzione reale delle relazioni tra le Persone della Trinità), ma di una assoluta intimità da comportare che la distinzione tra le Persone della Trinità non riguardi la sostanza ma le relazioni, che sono reali e in Dio sono sussistenti.

Ora, vi sono tanti altri passi dell’Antico Testamento, oltre ai quattro canti del Servo, che prefigurano il Cristo (ad esempio Dt 18,15-19; 1Cr 17,13; Sal 2; 22; 110; Ger 31,31-34; Ez 11,14,21; Zc 9,9-10 e altri, che in questa sede non è possibile riportare, oltre ai vari studi che sono stati condotti sulla letteratura sapienziale). Infatti, studiosi riportano alcune tradizioni dell’Antico Testamento presenti nel Nuovo Testamento, come la tradizione legislativa, profetico-messianica, sapienziale, ognuna delle quali presenta i vari sviluppi. Senza andare per le lunghe, ciò che si vuole mettere in luce è che le tradizioni dell’Antico Testamento, compresi quei passi sopra riportati, pur essendo passi che sono collocati nel loro contesto storico, saranno letti a partire dall’evento Cristo, o meglio, dalla realtà di Cristo risorto. E questo è molto importante anche per capire il tipo di sacerdozio inaugurato da Cristo e per quale motivo è superiore a quello di tipo levitico e addirittura lo precede, cosa che viene messa in luce nella Lettera agli Ebrei, trattando anche della novità del santuario e quale sia il vero sacrificio. Ciò che deve emergere, soprattutto nella Settimana Santa, è il fatto che Cristo, Lógos eterno di Dio, è il criterio di lettura dell’inizio e della fine e che il trionfo di Cristo è totale, è compiuto.

Un grande studioso come Giuseppe Segalla riporta alcuni punti comuni che emergono nel Nuovo Testamento in base all’uso dell’Antico Testamento, ne riporto quattro:

1. Le tradizioni dell’A.T. sono lette a partire dalla realtà attuale e vivente del Cristo, Signore risorto, con un processo di reinterpretazione vitale e critica.

2. Perciò i motivi ed i modelli dell’A.T. vengono accettati, ma criticati e superati. La critica e il superamento sono dovuti ad un orientamento, che inizia già col Gesù terreno e che ha la sua ragione in un compimento che supera l’attesa e la promessa. La persona di Gesù rompe ogni schema.

3. L’interpretazione non è praticata in base a regole fisse e scientifiche, ma con molta libertà; sia utilizzando il metodo midrascico e rabbinico sia adattando i testi dall’A.T. alla nuova realtà storica.

4. Il principio fondamentale che domina l’interpretazione è quello escatologico, ossia quello del compimento in Cristo dell’A.T.: della legge, di ciò che hanno preannunciato i profeti e meditato i sapienti. In Cristo la storia della salvezza raggiunge il suo compimento.

Il Segalla conclude che è Cristo Gesù che rende attuale l’A.T. per la fede cristiana.[1]

Eloquente risulta essere l’inno ai vespri della Settimana Santa:

Ecco il vessillo della croce,

mistero di morte e di gloria:

l’artefice di tutto il creato

è appeso ad un patibolo.

 

Un colpo di lancia trafigge

Il cuore del Figlio di Dio:

sgorga acqua e sangue, un torrente

che lava i peccati del mondo.

 

O albero fecondo e glorioso,

ornato d’un manto regale,

talamo, trono ed altare

al corpo di Cristo Signore.

 

O croce beata che apristi

le braccia a Gesù redentore,

bilancia del grande riscatto

che tolse la preda all’inferno.

 

Ave, o croce, unica speranza,

in questo tempo di passione

accresci ai fedeli la grazia,

ottieni alle genti la pace. Amen.

 

La conferenza vespertina del sermone 18 (Germinet terra) di san Tommaso d’Aquino, che rimanda alla Esaltazione della Croce, chiarifica il tipo di vittoria di Cristo e in che modo Egli vinse per tutto il genere umano, cosa che oggi, purtroppo, rimane così implicita quasi da scomparire. Ecco il passo estratto dal sermone dell’Angelico:

 

In primo luogo dico che l’albero della Croce è adatto a essere il nostro rimedio in quanto corrisponde alla ferita. Il genere umano venne ferito dall’albero, poiché il primo uomo mangiò dell’albero proibito; e così la divina Sapienza ricavò dall’albero la medicina. Il genere umano fu ferito dalla disobbedienza: infatti il primo uomo colse avidamente il frutto dell’albero proibito; ed ecco che l’uomo nuovo quasi come frutto salutare restituì se stesso all’albero. Perciò il Salmista (Sal 69 [68],5) dice: «Quanto non rapinai, io restituivo». Egli restituì se stesso all’albero per ricompensare il danno e portare il rimedio; perciò Sap 14,7 dice: «È benedetto l’albero per mezzo del quale si compie la giustizia».[2]

 

Questo passo dell’Angelico è così profondo che ogni (mio) commento risulterebbe una storpiatura, per cui preferisco lasciarlo alla riflessione personale.  

 

Gabriele Cianfrani 

 



[1] G. Segalla, La cristologia del Nuovo Testamento, Paideia Editrice, Brescia 1985, pp. 65-66.

[2] Tommaso d’Aquino, I sermoni (Sermones) e le due lezioni inaugurali (Principia), a cura di C. Pandolfi e P. Giorgio Maria Carbone O.P., Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2003, p. 276.