Blog di informazioni e riflessioni su quanto concerne temi cristiani

sabato 23 ottobre 2021

BREVE RICHIAMO ALL'"ENS"

 


Sotto il nome di «Metafisica» è conosciuta la raccolta dei quattordici libri aristotelici, per opera di Andronico di Rodi (Peripatetico del I sec. a.C.). La parola «Metafisica» viene dal greco τὰ μετὰ τὰ φυσικά, che potrebbe essere così tradotta: «le cose che vengono [o che sono] dopo quelle fisiche». Questo vuol dire che non si aggirano le cose fisiche, ma si suppongono per poi andare oltre, per cui lo studio della filosofia della natura precede lo studio metafisico. Ma lo studio metafisico mira a ricondurre alle cause (prime), perciò la Metafisica mira ai princìpi primi e alle cause.[1] Ora, l’oggetto proprio della Metafisica, o meglio, il suo subiectum, è l’«ente in quanto ente»:

«C’è una scienza che considera l’ente in quanto ente e le proprietà che gli competono in quanto tale. Essa non si identifica con nessuna delle scienze particolari: infatti nessuna delle altre scienze considera l’ente in quanto ente in universale, ma, dopo aver delimitato una parte di esso, ciascuna studia le caratteristiche di questa parte».[2]

Non si tratta di scienze come la Biologia, la quale indaga le proprietà dell’ente in quanto vivente con tutte le sue implicazioni, oppure della Chimica, la quale indaga l’ente circa la sua composizione molecolare ecc. l’Attenzione metafisica non è posta su ciò che riguarda le scienze particolari, ma sull’ente in quanto tale, in maniera universale, per cui sul fatto che l’«ente» è ciò che «è» (id quod est). Dal momento che l’ente è l’id quod est ed è ciò che primeggia maggiormente nella realtà, l’attenzione verterà maggiormente sull’«est» dell’ente, ossia sul fatto che l’ente anzitutto «è». Ciò rimanda ad una certa energia ontologica che pone l’ente, con il suo contenuto, nel reale. Questo vuol dire che l’ente è ciò che prima di tutto primeggia sul nulla. Il gatto non potrebbe miagolare se prima non «è»; il melo non potrebbe portare frutto se prima non «è»; la persona umana non potrebbe possedere queste o quelle qualità se prima non «è». Insomma, se mancasse l’ente mancherebbe anche la nostra capacità di intellezione. Per una breve spiegazione dell’ente, si può cliccare qui.



[1]ARISTOTELE, Metafisica, A 1, 982b, 5-10.  

[2] Ibid., Γ 1, 1003a, 20-23  


sabato 14 agosto 2021

15 AGOSTO - GLORIFICAZIONE DI MARIA ASSUNTA IN CIELO


 

Il sensus fidei gode di grande importanza nel Magistero della Chiesa, dacché rimanda alla infallibilitas in credendo, l’altra è l’infallibilitas in docendo, che si esercita mediante l’ordinazione nel grado episcopale, in particolari momenti. Argomenti importanti e interessanti, ma che meritano di essere trattati in altra sede.

In che modo si potrebbe definire l’infallibilitas in credendo? A questo punto converrebbe seguire le parole della Lumen gentium (Costituzione dogmatica sulla Chiesa del Concilio Vaticano II):

 

L’universalità dei fedeli che tengono l’unzione dello Spirito Santo (cfr. 1Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il soprannaturale senso della fede di tutto il popolo, quando «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici» mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità il Popolo di Dio, sotto la guida del sacro magistero, al quale fedelmente conformandosi accoglie non la parola degli uomini, ma qual è in realtà, la parola di Dio (cfr. 1Ts 2,13), aderisce indefettibilmente alla fede una volta trasmessa ai santi (cfr. Gd 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita (n. 12).

 

Tale passo riporta chiaramente ciò che concerne il sensus fidei, ossia l’universalità dei fedeli che non può sbagliarsi nel credere fermamente cose di fede e morale. Infatti, sia la Bolla Ineffabilis Deus di Papa Pio IX, mediante la quale viene proclamato il dogma della «Immacolata concezione di Maria» (1854), sia la Munificentissimus Deus di Papa Pio XII, mediante la quale viene proclamata la «glorificazione di Maria con l’assunzione in Cielo in anima e corpo» (1950), presentano evidente riferimento al sensus fidei.

Nella Bolla troviamo:

Infatti si videro non solo singoli fedeli, ma anche rappresentanti di nazioni o di province ecclesiastiche e anzi non pochi padri del concilio Vaticano chiedere con vive istanze all'apostolica sede questa definizione.

In seguito queste petizioni e voti non solo non diminuirono, ma aumentarono di giorno in giorno per numero ed insistenza. Infatti per questo scopo furono promosse crociate di preghiere; molti ed esimi teologi intensificarono i loro studi su questo soggetto, sia in privato, sia nei pubblici atenei ecclesiastici e nelle altre scuole destinate all'insegnamento delle sacre discipline; in molte parti dell'orbe cattolico furono tenuti congressi mariani sia nazionali sia internazionali. Tutti questi studi e ricerche posero in maggiore luce che nel deposito della fede affidato alla chiesa era contenuto anche il dogma dell'assunzione di Maria vergine al cielo; e generalmente ne seguirono petizioni con cui si chiedeva instantemente a questa sede apostolica che questa verità fosse solennemente definita.

In questa pia gara i fedeli furono mirabilmente uniti coi loro pastori, i quali in numero veramente imponente rivolsero simili petizioni a questa Cattedra di S. Pietro. Perciò quando fummo elevati al trono del sommo pontificato erano state già presentate a questa sede apostolica molte migliaia di tali suppliche da ogni parte della terra e da ogni classe di persone: dai nostri diletti figli cardinali del sacro collegio, dai venerabili fratelli arcivescovi e vescovi, dalle diocesi e dalle parrocchie. […] Questo «singolare consenso, dell'episcopato cattolico e dei fedeli», nel ritenere definibile, come dogma di fede, l'assunzione corporea al cielo della Madre di Dio, presentandoci il concorde insegnamento del magistero ordinario della chiesa e la fede concorde del popolo cristiano, da esso sostenuta e diretta, da se stesso manifesta in modo certo e infallibile che tale privilegio è verità rivelata da Dio e contenuta in quel divino deposito che Cristo affidò alla sua Sposa, perché lo custodisse fedelmente e infallibilmente lo dichiarasse.

 

Non a caso il discorso in merito alla assunzione di Maria in Cielo in anima e corpo, nonostante la definizione vi sia stata sotto Pio XII nel 1950, è alquanto remoto, come traspare anche in san Gregorio di Tours († 594) e nell’insegnamento di molti teologi, ma con fondamento nella Scrittura.

Non si accennerà alle posizioni, consolidate nel tempo, circa il modo in cui vi fu l’assunzione. Magari in un prossimo articolo.

È chiaro che tale dogma – sono quattro i dogmi mariani – deve essere ricollegato al precedente, ossia a quello della «Immacolata concezione di Maria» proclamato da Pio IX, come al secondo dogma, quello riguardante Maria come «sempre vergine», risalente al concilio di Calcedonia (451 d. C.) e al concilio di Costantinopoli II (553 d. C.). Ma occorre fare riferimento sempre a quel primo dogma mariano, ossia a quello riguardante Maria come «Madre di Dio» (Θεοτόκος), risalente al concilio di Efeso (431 d. C.). Il primo dogma mariano è fondamentale, per cui è doveroso scrivere al riguardo ma in altra sede.

Per concludere, la definizione solenne è contenuta nel seguente passo della Munificentissimus Deus:

 

«Pertanto, dopo avere innalzato ancora a Dio supplici istanze, e avere invocato la luce dello Spirito di Verità, a gloria di Dio onnipotente, che ha riversato in Maria vergine la sua speciale benevolenza a onore del suo Figlio, Re immortale dei secoli e vincitore del peccato e della morte, a maggior gloria della sua augusta Madre e a gioia ed esultanza di tutta la chiesa, per l'autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei santi apostoli Pietro e Paolo e Nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo essere dogma da Dio rivelato che: l'immacolata Madre di Dio sempre vergine

Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo».

 

Chi volesse leggere il testo completo, cosa che si consiglia vivamente, potrebbe farlo cliccando qui!

 

 

 


Gabriele Cianfrani


domenica 4 luglio 2021

SERVITORE DEL MONDO O SERVITORE DI DIO: IN CHE MODO?



Una riflessione cristiana in merito a un tema ricorrente.

A volte si prende consapevolezza di alcune posizioni che pare presentino delle imprecisioni. Vorrei concentrarmi su queste «imprecisioni» che non credo possano passare inosservate… e nemmeno innocue, col rischio di risultare anche un po' pungente.

Il problema risiederebbe in alcune posizioni che pare esprimano una sorta di opposizione forte, che sfocerebbe nella esclusione: o si sceglie la vita laicale, e con ciò non sarà possibile servire Dio come si deve, o si sceglie una vita da religioso, una vita da suora, e allora sarà possibile servire Dio come si deve e chi ricevesse il sacramento dell’Ordine (sacerdozio ministeriale) lo servirebbe ancora meglio… Il problema non risiede affatto nella scelta in sé, ma come questa viene presentata, quasi a voler far trapelare che «o» si sceglie in un modo «o» in un altro modo, con la differenza che uno dei due modi va bene mentre l’altro va meno bene. Una esclusione tale che, in altri termini, conduce il pensiero ad un velato aut-aut, ma questo rimanderebbe ad altre e precise considerazioni. In questo caso la vita laicale non avrebbe poi così tanta importanza, e discorso a parte meriterebbe la parola «laico» – da λαός (popolo) –, il cui significato discosta evidentemente da quello che ultimamente viene attribuito a tale parola, con forte senso di opposizione, da cui spesse volte l’espressione: «non sono cattolico ma laico». E allora? Cosa vuol dire?

Vale la pena tornare sul tema, anche perché si chiamerebbe in campo quel «sacerdozio comune» dei fedeli del quale non pare se ne senta parlare tanto. Certamente vi sarebbe da fare un discorso che tocchi anche alcuni punti di storia della Chiesa, ma con approccio storico, comprese le contestualizzazioni e senza prendere un po' di qua e un po' di là per poi suturare il tutto, anche perché verrebbe fuori una sutura inesatta, per poi attendere inevitabilmente la guarigione per seconda intenzione (espressione in ambito chirurgico).

Comunque verrebbe da chiedersi per quale motivo vi sono posizioni che propendono quasi per una separazione tra il «sacerdozio ministeriale» e il «sacerdozio comune», e ancor peggio quasi escludendo il secondo. In altre parole, l’attenzione non riguarda la cosa in sé, ma ciò a cui una persona è chiamata. Insomma, entriamo nel campo della «vocazione» – non è da intendere esclusivamente con il solito prendere i voti, dato che il discorso è molto più ampio –, che non è uguale per tutti e non è possibile pretendere che lo sia! È un tema abbastanza delicato che meriterebbe di essere trattato accuratamente. Dunque il problema non riguarda affatto la scelta in sé di una persona – e ci mancherebbe! –, ma come questa scelta viene presentata, quasi che la vita laicale fosse insufficiente per il cammino cristiano verso la santità. Ciò riguarda alcuni mezzi di comunicazione, attraverso i quali pervengono informazioni alquanto scorrette. Magari non rientrerà nella intenzione della comunicazione, e allora questa dovrebbe considerare meglio alcuni aspetti certamente rilevanti, in modo tale da evitare anche di distorcere la testimonianza di una persona. Alcune parole dell’Apostolo: A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo (Ef 4,7); Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato (Rm 7,24). Con questo passo di san Paolo mi collego alla esortazione apostolica postsinodale Christifideles laici di san Giovanni Paolo II, la quale risulta illuminante in merito al tema dei laici «nella Chiesa e nel mondo». Nel documento si legge: i fedeli laici sono chiamati in particolare a ridare alla creazione tutto il suo originario valore. […] La partecipazione dei fedeli laici al triplice ufficio di Cristo sacerdote, profeta e re trova la sua radice prima nell’unzione del Battesimo, il suo sviluppo nella Confermazione e il suo compimento e sostegno dinamico nell’Eucaristia (n. 14). Ed ecco che quella sorta di opposizione a modo di esclusione che traspare da alcune posizioni non ha motivo di esistere: la comune dignità battesimale assume nel fedele laico una modalità che lo distingue, senza però separarlo, dal presbitero, dal religioso e dalla religiosa (n. 15). Il testo precisa che il fedele laico non è separato, ma è comunque distinto dal presbitero, dal religioso e dalla religiosa. Tale precisazione è importante per non gettare tutto nel calderone per poi sostenere alcune posizioni aventi come fondo l’indistinzione più assoluta. Ciò non sarebbe reale dacché vi sono delle distinzioni che sono da riconoscere e da rispettare – traspare già dal passo riguardante Abramo e Melchìsedek (Cfr. Gen 14,19-20) –, ma senza separazione. Vi è diversità di ministeri ma unità di missione. I fedeli sono chiamati ad attuare, secondo la condizione propria di ciascuno, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo (CIC, can. 204, § 1). Inoltre, il testo della Christifideles laici si esprime anche in merito alla «dignità battesimale», che molto spesso pare si trovi nel dimenticatoio, col risultato di un vero e proprio prorompere di espressioni e posizioni del tutto avulse da quel che sarebbe il loro contesto. Pertanto, sia il sacerdozio ministeriale sia il sacerdozio comune di tutti i fedeli, ognuno a suo proprio modo, partecipano all’unico sacerdozio di Cristo, pur con differenze essenziali, che ci sono e vanno riconosciute e rispettate. Per cui non è possibile neanche ascoltare interventi del tipo: «quel prete ha sbagliato, se la vedrà dall’altra parte» e altri che non riporto. Anzitutto, se un prete sbaglia, ciò non riguarda lui soltanto ma l’intero Popolo di Dio, laici compresi, e bisognerebbe far sì che si rimedi a quello sbaglio, senza assumere comportamenti isolati sulla base della falsa separazione tra il sacerdozio ministeriale e quello comune. Lo stesso vale per il prete, per cui se alcuni fedeli laici commettono degli errori, non è possibile far finta di nulla.

Il titolo «servitore del mondo o servitore di Dio: in che modo?», per essere sinceri, interpella sia il sacerdozio ministeriale sia quello comune, poiché si pone sul piano del «fine». Scambiare il mezzo per il fine può riguardare entrambe le parti.

Insomma, si tratta di prendere maggiore consapevolezza della nozione di «Corpus Mysticum Christi», in cui vi è distinzione ma non separazione.

Si potrebbe continuare ulteriormente, ma a questo punto si rimanda ad alcuni documenti sul tema (per es. la Lumen gentium del Concilio Vaticano II). Inoltre, tra i sacramenti abbiamo anche il Matrimonio, il quale presenta un dato singolare: i «ministri» di tale sacramento sono gli sposi, che mediante il «consenso» fanno sì che si costituisca il Matrimonio. Ovviamente un consenso libero e senza impedimenti (Cfr. CCC, n. 1625). Il sacerdote accoglie il consenso degli sposi a nome della Chiesa e dà la benedizione della Chiesa, esprime visibilmente che il Matrimonio è una realtà ecclesiale (Cfr. Ibid., n. 1630) e gode di unità e di indissolubilità. Conosco tanti laici che sono eccellenti, persone squisite e impegnate su tanti fronti e con qualità eccelse, così come conosco sacerdoti ministeriali eccellenti e religiosi e religiose – e non solo – impregnate di quella caritas cristiana di cui parla san Paolo (Cfr. 1Cor 13,1-13). Purtroppo anche la parola «carità» è quasi diventata un modo di dire, perdendo il senso profondo dell’agape, dell’amore di dilezione, che è il solo amore che guarda al valore «intrinseco» della persona in quanto tale. Pertanto, credo sia opportuno porre in luce proprio quella «dignità battesimale», dalla quale inizia la vita cristiana. Inoltre, dopo tante cose che son state dette ultimamente proprio sul sacramento del Battesimo – per l’ennesima volta –, forse sarebbe il caso di esprimersi con termini più opportuni qualora ci si addentrasse nell’argomento.

Ci sarebbe tanto da dire – in questo caso ‘da scrivere’ –, ma credo che il messaggio si possa cogliere facilmente.

La «caritas» cristiana, questa sì che ha la sua vera esclusività… e non esclude affatto!

 

 

Gabriele Cianfrani


venerdì 4 giugno 2021

IL DIABOLOS TRA "PERSONIFICAZIONE" E "PERSONA"

 



Il discorso circa il «diavolo» (dal greco διάβολος, dal tema διαβολ/διαβαλ di διαβάλλω)[1], risulta più che mai complicato, soprattutto al tempo di oggi, dato che pare vi sia un vero e proprio svuotamento non solo di tale realtà ma anche – forse ancor prima – di ciò che la parola «diavolo» indichi.

Nella Scrittura la parola, dall’ebraico דָּבָר (dāḇār), ha una importanza notevole. Da un lato essa esprime il «contenuto» che sta in fondo alla parola stessa, per cui non è possibile separare la parola dal suo contenuto; dall’altro lato esprime una realtà che è disponibile soltanto nella parola.[2]

 Ora, la parola in esame è quella di «diavolo». Lungi dal voler essere un esame esaustivo di tale parola e del suo contenuto – di conseguenza della realtà ben precisa a cui rimanda –, ci si concentrerà su alcuni aspetti presi dal saggio «Alberto Castaldini, Dolore del mondo e mistero di iniquità. Il male in Rm 8,18-39, Aracne editrice, Canterano 2020».

Anzitutto la parola diabolos del Nuovo Testamento (NT) rimanda all’ebraico שָׂטָן (śātān), che è quella che si trova nell’Antico Testamento (AT). La radice di tale parola significa «avversare», «accusare», per cui il satana significa l’«accusatore», l’«avversario» (di Dio). I riferimenti nell’AT sono vari, come ad esempio Gb 1,6-12; Zc 3,1s. Anche nel libro della Sapienza vi è un chiaro riferimento (Sap 2,24), ma il medesimo fu redatto totalmente in greco e circa nel I sec. a. C., per cui non rientra nel canone ebraico. Infatti, non compare שָׂטָן (śātān) ma διάβολος (diabolos).

Nel NT troviamo ugualmente vari riferimenti riguardanti la medesima realtà espressa dalla parola diabolos e dalla parola śātān, espressa anche con altre parole («demonio»; «maligno» ecc.) come ad esempio Mt 4,3; 13,24-30; Mc 5, 1-13; Lc 4,1-13; 10, 14-20; Gv 3,12; 13,27; 17,15 solo per riportarne alcuni, dato che nel NT la parola diavolo compare 37 volte mentre la parola satana compare 36 volte. L’identificazione della stessa realtà espressa dalle due parole è confermata dal libro dell’Apocalisse (12,9): Fu scacciato il grande drago, il serpente antico, che è chiamato il diavolo e il satana […]. Inoltre, in questo passo dell’Apocalisse compare anche il «serpente antico», che si identifica col diavolo o il satana. Pertanto, «serpente antico», «diavolo» e «satana» designano la stessa realtà. Ciò non può non rimandare anche al serpente di Gen 3. Ed ecco che sorge la domanda: come intendere dunque la realtà espressa dalle parole «diavolo» e/o «satana», ma anche da «serpente antico»?

Una prima risposta è fornita, seppure non in maniera assolutamente esplicita, dalla Scrittura stessa.

Quello che emerge è che certamente non si tratta di qualcosa di ambiguo o di «impersonale», dato che l’azione di opposizione, di avversione, di accusatore è svolta da un «soggetto» ben preciso, il principale, ma non è il solo (Cfr. Mt 25,41). Insomma, ci si chiede se il diavolo, se il Satana – con l’iniziale maiuscola in quanto indica un soggetto ben preciso, nominandolo, – sia una «personificazione» del male o una «persona». La questione, per quanto riguarda in particolar modo il diavolo, non è così semplice, ma comunque non è da considerare come un principio alternativo a Dio.[3]

Il percorso storico che ha conosciuto la nozione di «persona» è abbastanza noto, per cui in questa sede non verrà trattato, ma soltanto accennato. Tuttavia è importante notare che il termine «volto», in greco πρόσωπον (prόsopon), in ebraico risulta פָּנִים (pānīm). Di per sé, il volto, rimanda ad un soggetto, il quale non cade neanche in una sorta di anonimato. Ora, se col tempo il πρόσωπον passò ad indicare la «maschera» posta sul volto, il termine stabilito per indicare la «persona» fu quello di «ὑπόστασις» (hypόstasis), che significa «base», «fondamento», «soggetto», «sostanza reale» ecc., per cui indica una realtà ontologica concreta.[4] Infatti, è nota anche la definizione di «persona» di san Severino Boezio: persona est rationalis naturae individua substantia. Al riguardo, è importante precisare in che modo può esser preso il termine «sostanza»: nel primo modo si dice sostanza l’essenza della cosa (quidditas rei) espressa dalla sua definizione (es.: uomo; animale); nell’altro modo si dice sostanza il soggetto o supposito che sussiste nel genere di sostanza (quod subsistit in genere substantiae), indica il sussistente concreto, per cui è detto anche soggetto o supposito (es.: Pietro; Giovanni).[5] Dal punto di vista logico, nel primo modo si tratta della «sostanza seconda», nel secondo modo si tratta della «sostanza prima». Nel caso della persona ci si trova nella sostanza prima, ma il termine persona aggiunge a quello di sostanza la determinazione della natura, cioè la razionalità.[6] Pertanto, la persona significa ciò che di più perfetto/nobile si trova nell’universo, cioè il sussistente nella natura razionale.[7] Ora, ciò che sussiste nella natura razionale è «persona»; ma gli angeli, come emerge anche dalla Scrittura, sono esseri di natura razionale o intellettuale; per cui gli angeli sono «persone». Ma dato che anche il diavolo viene presentato come un essere angelico, si conclude che anch’egli debba essere una «persona», dotato di «personalità».[8]

Pertanto, la persona è il sussistente nella natura razionale, e appunto per questo esprime fortemente l’esistere per sé, avere l’essere per sé, sempre partecipato da Colui che è l’Essere per sé sussistente (Ipsum esse subsistens). Da qui sorge una questione molto interessante: Dio è l’Essere per sé sussistente ed è somma Bontà, che partecipa l’essere al mondo creaturale, e l’essere come atto esprime «perfezione». Ma il diavolo è colui che si frappone, colui che divide e va contro le perfezioni stabilite da Dio, per cui andrebbe anche contro quell’essere che Dio comunica per via partecipativa al mondo creaturale. Infatti, il diavolo o il Satana, non è mai se stesso, anzi è la negazione continua di ogni precisazione del suo essere […]. Come si presenta Mefistofele con una frase lapidaria molto espressiva: «Io sono lo spirito che nega sempre!».[9]

Il diavolo, in radicale opposizione alla possibilità creatrice (che coinvolgerà l’uomo nella “nuova creazione” alla fine del tempo), si conferma il principale costante nemico del progetto divino edificato sull’amore e sulla libertà.[10]

Per cui l’azione del diavolo è anche una vera azione di spersonalizzazione nei confronti dell’uomo, che smarrisce se stesso aderendo a questi, al suo piano di morte.[11] In merito a questo smarrimento, Joseph Ratzinger (Papa Benedetto XVI) si esprime chiaramente riguardo alla considerazione del «peccato» in questi ultimi anni:

il peccato è uno dei temi su cui regna un perfetto silenzio. La predicazione religiosa cerca di evitarlo accuratamente. Il teatro e la cinematografia utilizzano il termine in senso ironico e come tema di intrattenimento. La sociologia e la psicologia cercano di smascherarlo come un’illusione o un complesso. Persino il diritto tenta di fare sempre più a meno della nozione di colpa e preferisce servirsi di una terminologia sociologica, che riduce l’idea del bene e del male a un dato statistico e si limita a distinguere tra comportamento normale e comportamento deviante. Ciò implica che le proporzioni statistiche possono anche capovolgersi: quel che oggi è la deviazione può un giorno diventare la regola […].[12]

Altro punto, molto interessante e messo in luce nel saggio, è quello riguardante l’«anomos» [ἄνομος, da ἀ- privativo e νόμος], che vuol dire «senza legge», «ingiusto», che è strettamente connesso ad ἀνομία (anomia), ossia «illegalità», «ingiustizia», «empietà».[13] Dunque un tratto importante da considerare è che il diavolo cercherà sempre di confondere la giustizia con l’iniquità, con lo scopo dello smarrimento dell’uomo e affinché l’umanità non sappia capacitarsi della persistenza della propria sofferenza in un mondo che fu creato per la sua felicità. E nonostante ciò è l’uomo stesso che lo permette con l’adesione ai piani dell’iniquità.[14] Ma in principio era il Logos, Colui che non è solo Via e Verità, ma anche Vita, e l’ultima parola non spetta alla morte ma alla Vita (Cfr. Ap 1,17-18).

Per concludere, certamente occorre approfondire l’aspetto riguardante l’ἄνομος (anomos), dato che ciò rimanda senza dubbio al piano «morale», che gode di una importanza notevole e che spesse volte, purtroppo, subisce una vera e propria distorsione a causa di un vero e proprio snaturamento. Allora è da considerare, poiché questo aspetto riguarda l’ἀνομία, ciò che concerne non soltanto la legge morale naturale ma ancor prima la Legge eterna di Dio, poiché colui che è l’ἄνομος si pone già contro la Legge di Dio, e di conseguenza contro la legge naturale partecipata da Dio all’uomo. Ora, poiché ogni agente agisce per un fine (omne agens agit propter finem), e il primo principio della ragione pratica si fonda sulla nozione di «bene», che è ciò che tutte le cose desiderano, il primo precetto della legge è che bisogna «fare e cercare il bene e bisogna evitare il male». Su questo si fondano gli altri precetti.[15] Ed è appunto per questo che occorre prestare attenzione all’aspetto dell’ἀνομία, dacché si pone contro ogni forma di legge, compresa quella (morale) naturale, e di conseguenza contro il bene. Non solo, ma l’adesione umana all’ἄνομος certamente avrebbe modo di sfociare in una legge (umana positiva) contro la legge naturale, sulla quale invece dovrebbe fondarsi. Ma in tal modo non si avrebbe più una legge, bensì corruzione della legge.[16] Per cui è importante l’approfondimento, considerando ciò che molto spesso si cerca – non a caso – di negare: la «libertà», che ha a che fare fortemente con il subsistens in rationali natura, ossia la «persona», e in questa si fondamenta, la quale trova il suo fondamento ultimo in «Ego sum qui sum» (Es 3,14).



Gabriele Cianfrani



[1] Dal Vocabolario etimologico e ragionato del Romizi. Pertanto, διαβάλλω vuol dire «getto attraverso», «metto discordia», «calunnio», «accuso». Evince l’aspetto di separazione, di mettersi di traverso.

[2] Cfr. AA. VV., Nuovo dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Piemme, Casale Monferrato (AL) 20052, p. 772.

[3] Cfr. A. Castaldini, Dolore del mondo e mistero di iniquità. Il male in Rm 8,18-39, Aracne editrice, Canterano 2020, pp. 32-33.

[4] È importante il fatto che il percorso della nozione di «persona» sia avvenuta certamente per mezzo di speculazioni filosofiche, ma le esigenze erano fortemente teologiche (trinitarie e cristologiche). Infatti, ci troviamo nei primi secoli del Cristianesimo, meglio ancora nei primi Concilȋ: Nicea I (325 d.C.); Costantinopoli I (381 d.C.); Efeso (431); Calcedonia (451). Al riguardo va espresso il contributo determinante dei Padri Cappadoci san Basilio, san Gregorio di Nissa e san Gregorio di Nazianzo.

[5] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia, q. 29, a.2.

[6] Cfr. Ibid., IIIa, q. 2, a. 3.

[7] Ibid., Ia, q. 29, a. 3. In questa definizione san Tommaso perfeziona quella di san Severino Boezio.

[8] In questa sede non ci si sofferma sulla gerarchia angelica risalente allo Pseudo-Dionigi l’Areopagita (De Coelesti Hierarchia) e sul posto gerarchico del Satana, che comunque viene identificato con Lucifero (per esempio in Origene, san Gregorio di Nazianzo, san Girolamo, sant’Anselmo d’Aosta e altri). In ogni caso il Catechismo della Chiesa Cattolica riporta che all’inizio era un angelo buono, creato da Dio, come gli altri angeli ribelli, ma che da se stessi si sono trasformati in malvagi (Cfr. CCC., n. 391).

[9] R. Lavatori, Satana, l’angelo del male, La fontana di Siloe, Torino 2018, p. 521.

[10] A. Castaldini, Dolore del mondo e mistero di iniquità. Il male in Rm 8,18-39, Aracne editrice, Canterano 2020, p. 60.

[11] Cfr. Ibid., p. 32.

[12] J. Ratzinger (Benedetto XVI), In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato, Lindau, Torino 2006, pp. 86-87.

[13] Cfr. A. Castaldini, Dolore del mondo e mistero di iniquità. Il male in Rm 8,18-39, Aracne editrice, Canterano 2020, p. 19. Il testo rimanda anche a 2Ts 2,8 in cui: l’«empio» (ἄνομος) sarà rivelato e il Signore Gesù lo distruggerà col soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta. Tale contesto sarebbe quello riguardante la figura dell’anticristo.

[14] Cfr. Ibid., p. 79.

[15] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia-IIa, q. 94, a.2.

[16] Cfr. Ibid., q. 95, a. 2.

giovedì 20 maggio 2021

IL "SIMBOLO" COME PROFONDITA' DELLA REALTA'

 


Ciò che si esprime con la parola «simbolo» non riguarda affatto qualcosa di sfumato, al limite con la realtà, men che mai è un modo di dire. Spesse volte si sentono espressioni del tipo: «è un gesto simbolico»; «è un modo di fare simbolico»; «quello è un simbolo» e così via. Va bene, ma a volte il riferimento non è a ciò che il «simbolo» racchiude in sé. La concretezza di ciò che il «simbolo» esprime va al di là delle semplici espressioni verbali. 

Il termine simbolo, dal greco σύμβολον (symbolon), deriva da σύμβάλλω (symballo), e la medesima è costituita da σύμ (sym) e βάλλω (ballo). Letteralmente risulta: insieme (sym) getto/pongo (ballo). Ora, da ciò si conclude che il simbolo esprime un «gettare/porre insieme», un «mettere insieme». Anzitutto riguardava una sorta di «segno di riconoscimento», come si vedrà. 

Ad esempio, nella Scrittura troviamo alcuni gesti simbolici soprattutto riguardanti i Profeti, ossia le «azioni profetiche» nell’Antico Testamento, maggiormente in Ezechiele (cfr. 4,1-3; 5,1-2; 12,1-19; 21,11-12 e altri) e Geremia (cfr. 13,1-11; 16,1-9; 19,1-11 e altri), ma anche in altri libri (Isaia, Osea, Zaccaria ecc.). Il Nuovo Testamento presenta ugualmente gesti assai simbolici, che non sarebbe possibile trattare al momento poiché richiederebbe uno spazio considerevole. Ma ciò che è importante tenere presente è che il «simbolo» rimanda alla partecipazione di una realtà estremamente profonda che difficilmente può essere espressa come ci si esprime comunemente. Ad esempio, la «croce di Cristo» presenta una profondità infinita – compendio dell’amore di Dio per l’uomo –, e per quanto si possa discutere e fare ricerca, essa non si esaurirà mai. Ed ecco che anche il semplice «segno della croce» – ‘semplice’ per modo di dire – consta di una intensità inimmaginabile.

Ma la ricchezza del «simbolo» è chiaramente riportata anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che dà fondamento e completa quanto esposto sopra: la parola greca σύμβολον indicava la metà di un oggetto spezzato (per esempio un sigillo) che veniva presentato come un segno di riconoscimento. Le parti rotte venivano ricomposte per verificare l’identità di chi le portava. Il «Simbolo della fede» è quindi un segno di riconoscimento e di comunione tra i credenti. Σύμβολον passò poi a significare raccolta, collezione o sommario. Il «Simbolo della fede» è la raccolta delle principali verità della fede. Da qui deriva il fatto che esso costituisce il primo e fondamentale punto di riferimento della catechesi (n. 188).

In conclusione, quando si pronunciano le parole del «Credo (o Simbolo) Apostolico» o di quello «Niceno-Costantinopolitano», occorrerebbe prestare la massima attenzione, dato che ogni parola ha la sua profondità, essendo «professione di fede».

Alla classica domanda: «di che segno sei?», se proprio si volesse rispondere qualcosa, la risposta non può che essere: «del segno della croce».



Gabriele Cianfrani


mercoledì 19 maggio 2021

LA CHIESA: CONVOCAZIONE DI DIO O SEMPLICE RADUNO DI UOMINI?

maggio 19, 2021 Posted by Gabriele Cianfrani , , , , No comments



Stando al meraviglioso teso evangelico di ieri, ossia della ventunesima Domenica del Tempo Ordinario - articolo già scritto il 24 agosto 2020 e qui ripubblicato -, ciò che vi è contenuto è estremamente profondo e vasto, infatti il testo è quello di Mt 16,13-20, che viene solitamente definito come il «primato di Pietro». Ora, tra i tanti punti contenuti, ve n’è uno molto importante che risponde ad una domanda altrettanto importante: cos’è la Chiesa? La risposta a questa domanda la si può trovare benissimo in questo brano del Vangelo secondo Matteo. Per cui si cercherà, senza dilungamenti, di rispondere a tale domanda considerando il testo evangelico.

In latino, poiché rende meglio, il passo riguardante l’edificazione della Chiesa su san Pietro è il seguente: Et ego dico tibi, quia tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam, et portae inferi non praevalebunt adversus eam (Mt 16,18). Dal testo latino si pone l’accento su quell’«ecclesiam (meam)», infatti, la derivazione è dal greco «ἐκκλησία» (ekklēsía), che deriva dal verbo greco «καλέω» che significa «chiamare». Ora, nella Bibbia dei LXX (versione greca della Bibbia), si riscontra che il termine greco «ekklēsía» traduce l’ebraico «קהל» (qahal), mentre il greco «συναγωγή» traduce l’ebraico «עֵדָה‎» (‘edah). Ci si chiederà quale sia la differenza. Ebbene la differenza è che «synagoge» esprime una sorta di passività, ossia una semplice assemblea, un raduno; «ekklēsía» esprime più attività, ossia una convocazione, una assemblea ma sorta per chiamata. In tal caso, poiché il termine «Chiesa» viene dal greco «ekklēsía», il quale traduce l’ebraico «qahal» ed esprime attività della chiamata, la Chiesa è soprattutto la «chiamata di Dio», la «convocazione da parte di Dio» e non un semplice raduno di uomini. In ciò si comprende che il fondamento ultimo della Chiesa è Dio stesso poiché la chiamata è da parte di Dio. Certamente la roccia sulla quale il Cristo edificherà la Chiesa sarà quella di Pietro, ma la Chiesa in quanto tale è opera di Dio – Gesù è pienamente uomo e pienamente Dio, poiché è il Verbo eterno incarnato –, infatti Gesù dice che edificherà la «sua» Chiesa. Ed è per questo che la Chiesa non dipende, in ultima istanza, dagli uomini, ma da Dio stesso. Pietro prenderà in mano il timone, ma di una Chiesa che non è sua, ma di Dio. 

A questo punto vi è lo spunto per quel che riguarda la «santità» della Chiesa, ossia come può dirsi santa se ancora si commette peccato. Ma la risposta è che alla santità occorre non solo che si risponda ma che si corrisponda. A quale santità? A quella a cui siamo stati chiamati col santo Battesimo, il quale rigenera la persona umana nelle profondità della sua natura, intrinsecamente. Pertanto, nonostante il peccato venga commesso – questo è un tema molto importante, ma che non è possibile sviluppare adesso –, la Chiesa può dirsi «santa» in quanto non è l’uomo ad averla convocata, ma Dio. E Dio è santo, o meglio, è il Santo! Per cui il fondamento ultimo è sempre Dio. La Chiesa, nonostante sia chiamata anche a purificarsi nel tempo, tale purificazione è in vista del raggiungimento della santità totale, del compimento della santità. Ma ciò che deve giungere come messaggio, è che la Chiesa non ha origini umane ma divine, dacché è la convocazione di Dio, è la Chiesa di Dio.


Gabriele Cianfrani


PS. Articolo già pubblicato in https://bussolaculturale.it/la-chiesa-convocazione-di-dio-o-semplice-raduno-di-uomini-a-cura-di-gabriele-cianfrani/

giovedì 1 aprile 2021

QUANDO AVRETE INNALZATO IL FIGLIO DELL'UOMO, ALLORA CONOSCERETE CHE IO SONO


 

In questo Triduo pasquale e in questo momento di grande prova per tutti, ancora una volta nella croce di Gesù si trova compendiato tutto. Certamente seguirà la risurrezione, come Gesù stesso annunciò (Cfr. Mt 16,21; 17,22-23; 20,17-19; Mc 8,31; 9,31; 10,32-34; Lc 9,22; 9,43-44; 18,31-33), ma prima della risurrezione vi è la croce.

Ma per quale motivo la croce? Per quale motivo tante sofferenze dovettero precedere la croce? In che modo tutto ciò è servito alla redenzione? Diverse sono le domande che possono essere poste e non vi è da meravigliarsi. Riportare tutto ciò che occorrerebbe riportare vorrebbe dire non finire più, considerando anche le innumerevoli pagine scritte in merito. Ciò che si potrebbe tentare di fare è una «sintesi», nel senso etimologico della parola (dal greco synthesis (σύνθεσις), che significa composizione, unione, mescolanza), che sarà anche riassuntiva.

Eloquente e mirabile ciò che è riportato nella prima lettera di Pietro: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia. Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime (1Pt 2,22-25). Gesù ha preso su di sé i nostri peccati, dunque lo fece volontariamente e di conseguenza liberamente. Ugualmente mirabili sono i quattro canti o carmi del servo del Signore riportati nel libro di Isaia (42,1-4; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12), con riferimento chiaro a ciò che si verificherà per mezzo e in Gesù di Nazareth, il Cristo.

Ora, in Cristo siamo stati redenti, ma la redenzione non è propriamente sinonimo di salvezza. La «salvezza» era presente dall’inizio, per cui l'elevazione dell’uomo affinché raggiungesse il massimo bene era presente dall'inizio. Certamente si concretizza come storia della salvezza da Abramo in poi, ma in ogni caso l’uomo, per raggiungere la sua meta ultima, ha sempre bisogno di Dio, e questo trova pienezza in Cristo che ci salva riconciliandoci con Dio (CCC, 457). La «redenzione» significa il riacquisto, il riscatto dell’uomo che si era venduto schiavo al peccato (Cfr. Gv 8,34), quel peccato che trova origine appunto in Gen 3,1-7: il peccato originale. Escludere la colpa di origine comporta escludere anche l’evento pasquale, dato che la redenzione è in riferimento alla schiavitù del peccato, che parte dalla colpa originaria, dal peccato originale. E con il peccato, per invidia del diavolo, fece ingresso anche quel male che sarà annientato per ultimo: la morte (Cfr. Sap 2,24; 1Cor 15,26;). Ma il riscatto è avvenuto per mezzo di Cristo a prezzo del suo sangue, in quanto il suo sangue è il prezzo del nostro riscatto, essendo egli il vero agnello pasquale senza difetti e senza macchia (Cfr. 1Pt 1,18). L’espiazione, la purificazione dalle colpe viene effettuata per mezzo del sangue perché il sangue, in quanto vita, espia (Cfr. Lv 11,17). Dunque Cristo ci riscatta dalla schiavitù del peccato pagando tale riscatto, con il prezzo del suo sangue, al Padre. Dal primo istante della sua incarnazione il Figlio abbraccia nella sua missione redentrice il disegno divino di salvezza: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34; CCC, 606). E la possibilità di ritornare in grazia di Dio per mezzo del sacramento della Riconciliazione è dovuto al sacrificio espiatorio sulla croce, sacrificio dal quale, in ultimo, provengono anche tutti gli altri sacramenti.

Mai avrebbe potuto un semplice essere umano, per quanto santo potesse essere, riscattare il genere umano dal peccato, se non un essere umano che non fosse solo umano, o meglio, Dio che assumesse natura umana – per natura umana si intende l’essenza umana, ossia il corpo e l’anima – e precisamente la seconda Persona della Santissima Trinità, il Verbo di Dio. Gesù di Nazareth non è il risultato di due persone (eresia nestoriana), ma di due nature, umana e divina, e poiché la natura divina del Verbo coincide con la sua Persona, in Gesù vi è una sola persona, quella eterna del Verbo che assume natura umana in Maria e da Maria, col risultato di essere vero Dio e vero uomo, perfetto Dio e perfetto uomo. L’umanità di Cristo non ha altro soggetto che la Persona divina del Figlio di Dio, che l’ha assunta e fatta sua al momento del suo concepimento. Maria è Madre di Dio non certo perché la natura del Verbo o la sua divinità avesse avuto origine dalla santa Vergine, ma, poiché nacque da lei il santo corpo dotato di anima razionale a cui il Verbo è unito sostanzialmente, si dice che il Verbo è nato secondo la carne (CCC, 466). Il peccato è dell’uomo, non di Dio, ma nessun uomo avrebbe potuto riscattare il genere umano dalla schiavitù del peccato, considerando anche che i progenitori si trovavano nello stato di santità e di giustizia originale, che persero col peccato e che non poterono riacquistare più poiché tale stato in cui si trovavano era dono di Dio. Solo Dio avrebbe potuto riscattare il genere umano, assumendo natura umana in Gesù, vero Dio e vero uomo. Infatti, dopo aver accettato di dargli il Battesimo tra i peccatori, Giovanni Battista ha visto e mostrato in Gesù l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo. Egli manifesta così che Gesù è insieme il Servo sofferente che si lascia condurre in silenzio al macello e porta il peccato delle moltitudini e l’Agnello pasquale simbolo della redenzione di Israele al tempo della prima pasqua. Tutta la vita di Cristo esprime la sua missione: servire e dare la propria vita in riscatto per molti (CCC, 608). Non più la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, anche se tale azione misericordiosa di Dio viene sempre ricordata, ma la liberazione dalla schiavitù del peccato, che è più radicale ed è la liberazione determinante.

Ora, vien da chiedersi se era necessario che Cristo patisse per la liberazione del genere umano. Se si considera ciò che è necessario come se una cosa non può essere altrimenti o come se si trattasse di una necessità di coazione, allora non vi è alcuna necessità dei patimenti di Cristo, dato che l’azione redentrice è stata libera. Invece, se si considera ciò che è necessario in base al fine, come se non fosse possibile raggiungere un certo fine in alcun modo oppure non in modo conveniente, allora è possibile parlare di necessità, ma una necessità che ha come fondamento la libertà di Dio. Infatti, si capisce ciò per tre motivi: considerando la passione di Cristo dal lato nostro possiamo dire che siamo stati redenti; considerando la passione di Cristo dal lato suo possiamo dire che l’umiliazione della passione doveva meritare la gloria dell’esaltazione; considerando la passione di Cristo dal lato di Dio possiamo dire che il decreto della medesima era stato preannunziato dalle Scritture e prefigurato nelle osservanze dell’Antico Testamento. Pertanto, la liberazione dell’uomo per mezzo della passione di Cristo fu conveniente e alla «misericordia» e alla «giustizia» sua. Alla giustizia, perché per mezzo della sua passione Cristo riparò per il peccato del genere umano, e così per la giustizia di Cristo l’uomo è liberato. Alla misericordia, perché, non essendo l’uomo per sé in grado di soddisfare per il peccato di tutta la natura umana, Dio gli concesse quale riparatore suo Figlio. Tale atto di misericordia fu più grande del condono dei peccati senza soddisfazione (Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIIa, q. 46, a. 1). La passione di Cristo, che avvenne per libera e infinita misericordia di Dio, oltre che insieme alla giustizia – in Dio nulla è separabile da Lui, poiché Egli è assolutamente semplice –, fu il modo più conveniente per raggiungere il fine, poiché una cosa è tanto più conveniente quanto più sono i vantaggi che con essa si raggiungono. Infatti, oltre alla liberazione dal peccato, la passione di Cristo ha procurato all’uomo molti vantaggi: per questo l’uomo conosce quanto Dio lo ami e per questo viene indotto ad amarlo; perché Cristo ci ha dato l’esempio di obbedienza, di umiltà, di costanza, di giustizia e di tutte le altre virtù mostrate nella passione, indispensabili per la nostra salvezza, come ricorda la prima lettera di Pietro: anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme (1Pt 2,21); perché in tal modo Cristo non solo ha redento l’uomo dal peccato, ma gli ha meritato anche la grazia giustificante e la gloria della beatitudine ed altri (Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIIa, q. 46, a. 3). Ed è stato molto conveniente che Cristo morisse sulla croce: affinché nessun genere di morte spaventasse l’uomo che vive rettamente, fu necessario mostrarlo con la croce di Cristo: poiché fra tutti i generi di morte nessuno era più esecrabile e terribile; tale morte era il più indicato per soddisfare il peccato dei nostri progenitori, che mangiarono il frutto dell’albero proibito da Dio, per cui tale morte sulla croce restituì quanto Adamo aveva sottratto. Tutto ciò che Adamo perse, Cristo lo recuperò sulla croce (Cfr. Ibid., q. 46, a. 4). Pertanto, il Triduo pasquale culminante con la Pasqua di risurrezione del Signore Gesù, risponde alla domanda circa il perché il Verbo si è fatto uomo (?). Egli si è fatto uomo per la nostra salvezza (CCC, 456); per salvarci riconciliandoci con Dio (CCC, 457); perché noi conoscessimo l’amore di Dio (CCC, 458); per essere nostro modello di santità (CCC, 459); perché diventassimo partecipi della natura divina (2Pt 1,4; CCC, 460), perché l’uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio (Ireneo di Lione, Adversus haereses, 3, 19, 1). Ciò per mezzo del Battesimo.

Inoltre, riprendendo un passaggio precedente, risulta interessante una parte del sermone 18 di S. Tommaso d’Aquino: il genere umano venne ferito dall’albero, poiché il primo uomo mangiò dell’albero proibito; e così la divina Sapienza ricavò dall’albero la medicina. Il genere umano fu ferito dalla disobbedienza: infatti il primo uomo colse avidamente il frutto dell’albero proibito; ed ecco che l’uomo nuovo quasi come frutto salutare restituì se stesso all’albero. Perciò il Salmista (Sal 69[68],5) dice: «Quanto non rapinai, io restituivo». Egli restituì se stesso all’albero per ricompensare il danno e portare il rimedio; perciò Sap 14,7 dice: «È benedetto l’albero per mezzo del quale si compie la giustizia» (Sermone 18, conferenza vespertina).

Dunque l’argomento è estremamente vasto, tanto quanto ciò che tratta, per cui sarebbe infinito.

Questa breve sintesi è una tra le tantissime, ma tutte hanno in comune una cosa: l’attesa della risurrezione di Gesù, che è la verità culminante della nostra fede in Cristo, creduta e vissuta come verità centrale dalla prima comunità cristiana, trasmessa come fondamentale dalla Tradizione, stabilita dai documenti del Nuovo Testamento, predicata come parte essenziale del mistero pasquale insieme con la croce (CCC, 638). Senza la risurrezione tutto sarebbe vano (Cfr. 1Cor 15,14). Nel complesso, la risurrezione di Cristo è principio e sorgente della nostra risurrezione (CCC, 655).

Ed è possibile concludere con le stesse parole della Scrittura: «Ecco, sono compiute! Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine. A colui che ha sete io darò gratuitamente da bere alla fonte dell’acqua della vita. Chi sarà vincitore erediterà questi beni; io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio» (Ap 21,6-7).



Santa Pasqua!


Gabriele Cianfrani