In questo Triduo pasquale e in questo
momento di grande prova per tutti, ancora una volta nella croce di Gesù si
trova compendiato tutto. Certamente seguirà la risurrezione, come Gesù stesso
annunciò (Cfr. Mt 16,21; 17,22-23; 20,17-19; Mc 8,31; 9,31; 10,32-34; Lc 9,22;
9,43-44; 18,31-33), ma prima della risurrezione vi è la croce.
Ma per quale motivo la croce? Per quale
motivo tante sofferenze dovettero precedere la croce? In che modo tutto ciò è
servito alla redenzione? Diverse sono le domande che possono essere poste e non
vi è da meravigliarsi. Riportare tutto ciò che occorrerebbe riportare vorrebbe
dire non finire più, considerando anche le innumerevoli pagine scritte in
merito. Ciò che si potrebbe tentare di fare è una «sintesi», nel
senso etimologico della parola (dal greco synthesis (σύνθεσις), che
significa composizione, unione, mescolanza), che sarà anche riassuntiva.
Eloquente e mirabile ciò che è riportato
nella prima lettera di Pietro: egli non commise peccato e non si trovò inganno
sulla sua bocca; insultato non rispondeva con insulti, maltrattato, non
minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia. Egli
portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo
più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati
guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore
e custode delle vostre anime (1Pt 2,22-25). Gesù ha preso su di sé i nostri
peccati, dunque lo fece volontariamente e di conseguenza liberamente.
Ugualmente mirabili sono i quattro canti o carmi del servo del Signore
riportati nel libro di Isaia (42,1-4; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12), con
riferimento chiaro a ciò che si verificherà per mezzo e in Gesù di Nazareth, il
Cristo.
Ora, in Cristo siamo stati redenti, ma la redenzione
non è propriamente sinonimo di salvezza. La «salvezza» era
presente dall’inizio, per cui l'elevazione dell’uomo affinché raggiungesse il
massimo bene era presente dall'inizio. Certamente si concretizza come storia
della salvezza da Abramo in poi, ma in ogni caso l’uomo, per raggiungere la
sua meta ultima, ha sempre bisogno di Dio, e questo trova pienezza in Cristo
che ci salva riconciliandoci con Dio (CCC, 457). La «redenzione»
significa il riacquisto, il riscatto dell’uomo che si era venduto schiavo al
peccato (Cfr. Gv 8,34), quel peccato che trova origine appunto in Gen 3,1-7: il
peccato originale. Escludere la colpa di origine comporta escludere
anche l’evento pasquale, dato che la redenzione è in riferimento alla schiavitù
del peccato, che parte dalla colpa originaria, dal peccato originale. E con il
peccato, per invidia del diavolo, fece ingresso anche quel male che sarà
annientato per ultimo: la morte (Cfr. Sap 2,24; 1Cor 15,26;). Ma il riscatto è
avvenuto per mezzo di Cristo a prezzo del suo sangue, in quanto il suo sangue è
il prezzo del nostro riscatto, essendo egli il vero agnello pasquale senza
difetti e senza macchia (Cfr. 1Pt 1,18). L’espiazione, la purificazione dalle
colpe viene effettuata per mezzo del sangue perché il sangue, in quanto vita,
espia (Cfr. Lv 11,17). Dunque Cristo ci riscatta dalla schiavitù del peccato
pagando tale riscatto, con il prezzo del suo sangue, al Padre. Dal primo
istante della sua incarnazione il Figlio abbraccia nella sua missione
redentrice il disegno divino di salvezza: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi
ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34; CCC, 606). E la possibilità di
ritornare in grazia di Dio per mezzo del sacramento della Riconciliazione è dovuto
al sacrificio espiatorio sulla croce, sacrificio dal quale, in ultimo,
provengono anche tutti gli altri sacramenti.
Mai avrebbe potuto un semplice essere
umano, per quanto santo potesse essere, riscattare il genere umano dal peccato,
se non un essere umano che non fosse solo umano, o meglio, Dio che assumesse
natura umana – per natura umana si intende l’essenza umana, ossia il corpo e l’anima
– e precisamente la seconda Persona della Santissima Trinità, il Verbo di Dio.
Gesù di Nazareth non è il risultato di due persone (eresia nestoriana), ma di
due nature, umana e divina, e poiché la natura divina del Verbo coincide con la
sua Persona, in Gesù vi è una sola persona, quella eterna del Verbo che assume
natura umana in Maria e da Maria, col risultato di essere vero Dio e vero uomo,
perfetto Dio e perfetto uomo. L’umanità di Cristo non ha altro soggetto che la
Persona divina del Figlio di Dio, che l’ha assunta e fatta sua al momento del
suo concepimento. Maria è Madre di Dio non certo perché la natura del Verbo o
la sua divinità avesse avuto origine dalla santa Vergine, ma, poiché nacque da
lei il santo corpo dotato di anima razionale a cui il Verbo è unito
sostanzialmente, si dice che il Verbo è nato secondo la carne (CCC, 466). Il
peccato è dell’uomo, non di Dio, ma nessun uomo avrebbe potuto riscattare il
genere umano dalla schiavitù del peccato, considerando anche che i progenitori
si trovavano nello stato di santità e di giustizia originale, che persero col
peccato e che non poterono riacquistare più poiché tale stato in cui si
trovavano era dono di Dio. Solo Dio avrebbe potuto riscattare il genere umano,
assumendo natura umana in Gesù, vero Dio e vero uomo. Infatti, dopo aver
accettato di dargli il Battesimo tra i peccatori, Giovanni Battista ha visto e
mostrato in Gesù l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo. Egli
manifesta così che Gesù è insieme il Servo sofferente che si lascia condurre in
silenzio al macello e porta il peccato delle moltitudini e l’Agnello pasquale
simbolo della redenzione di Israele al tempo della prima pasqua. Tutta la vita
di Cristo esprime la sua missione: servire e dare la propria vita in riscatto
per molti (CCC, 608). Non più la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, anche
se tale azione misericordiosa di Dio viene sempre ricordata, ma la liberazione
dalla schiavitù del peccato, che è più radicale ed è la liberazione
determinante.
Ora, vien da chiedersi se era necessario
che Cristo patisse per la liberazione del genere umano. Se si considera ciò che
è necessario come se una cosa non può essere altrimenti o come se si trattasse
di una necessità di coazione, allora non vi è alcuna necessità dei patimenti di
Cristo, dato che l’azione redentrice è stata libera. Invece, se si considera
ciò che è necessario in base al fine, come se non fosse possibile
raggiungere un certo fine in alcun modo oppure non in modo conveniente, allora
è possibile parlare di necessità, ma una necessità che ha come fondamento la
libertà di Dio. Infatti, si capisce ciò per tre motivi: considerando la
passione di Cristo dal lato nostro possiamo dire che siamo stati redenti;
considerando la passione di Cristo dal lato suo possiamo dire che
l’umiliazione della passione doveva meritare la gloria dell’esaltazione;
considerando la passione di Cristo dal lato di Dio possiamo dire che il
decreto della medesima era stato preannunziato dalle Scritture e prefigurato
nelle osservanze dell’Antico Testamento. Pertanto, la liberazione dell’uomo per
mezzo della passione di Cristo fu conveniente e alla «misericordia» e alla
«giustizia» sua.
Alla giustizia, perché per mezzo della sua passione Cristo riparò per il
peccato del genere umano, e così per la giustizia di Cristo l’uomo è liberato.
Alla misericordia, perché, non essendo l’uomo per sé in grado di
soddisfare per il peccato di tutta la natura umana, Dio gli concesse quale
riparatore suo Figlio. Tale atto di misericordia fu più grande del condono dei
peccati senza soddisfazione (Cfr. Tommaso
d’Aquino, Summa Theologiae, IIIa, q. 46, a. 1). La
passione di Cristo, che avvenne per libera e infinita misericordia di Dio,
oltre che insieme alla giustizia – in Dio nulla è separabile da Lui, poiché
Egli è assolutamente semplice –, fu il modo più conveniente per raggiungere il
fine, poiché una cosa è tanto più conveniente quanto più sono i vantaggi che
con essa si raggiungono. Infatti, oltre alla liberazione dal peccato, la
passione di Cristo ha procurato all’uomo molti vantaggi: per questo l’uomo
conosce quanto Dio lo ami e per questo viene indotto ad amarlo; perché Cristo
ci ha dato l’esempio di obbedienza, di umiltà, di costanza, di giustizia e di
tutte le altre virtù mostrate nella passione, indispensabili per la nostra
salvezza, come ricorda la prima lettera di Pietro: anche Cristo patì per voi,
lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme (1Pt 2,21); perché in tal
modo Cristo non solo ha redento l’uomo dal peccato, ma gli ha meritato anche la
grazia giustificante e la gloria della beatitudine ed altri (Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae,
IIIa, q. 46, a. 3). Ed è stato molto conveniente che Cristo morisse
sulla croce: affinché nessun genere di morte spaventasse l’uomo che vive rettamente,
fu necessario mostrarlo con la croce di Cristo: poiché fra tutti i generi di
morte nessuno era più esecrabile e terribile; tale morte era il più indicato
per soddisfare il peccato dei nostri progenitori, che mangiarono il frutto
dell’albero proibito da Dio, per cui tale morte sulla croce restituì quanto
Adamo aveva sottratto. Tutto ciò che Adamo perse, Cristo lo recuperò sulla
croce (Cfr. Ibid., q. 46, a. 4). Pertanto, il Triduo pasquale culminante con la
Pasqua di risurrezione del Signore Gesù, risponde alla domanda circa il perché
il Verbo si è fatto uomo (?). Egli si è fatto uomo per la nostra salvezza (CCC,
456); per salvarci riconciliandoci con Dio (CCC, 457); perché noi conoscessimo
l’amore di Dio (CCC, 458); per essere nostro modello di santità (CCC, 459);
perché diventassimo partecipi della natura divina (2Pt 1,4; CCC, 460), perché
l’uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione
divina, diventasse figlio di Dio (Ireneo
di Lione, Adversus haereses, 3, 19, 1). Ciò per mezzo del
Battesimo.
Inoltre, riprendendo un passaggio
precedente, risulta interessante una parte del sermone 18 di S. Tommaso
d’Aquino: il genere umano venne ferito dall’albero, poiché il primo uomo mangiò
dell’albero proibito; e così la divina Sapienza ricavò dall’albero la medicina.
Il genere umano fu ferito dalla disobbedienza: infatti il primo uomo colse
avidamente il frutto dell’albero proibito; ed ecco che l’uomo nuovo quasi come
frutto salutare restituì se stesso all’albero. Perciò il Salmista (Sal
69[68],5) dice: «Quanto non rapinai, io restituivo». Egli
restituì se stesso all’albero per ricompensare il danno e portare il rimedio;
perciò Sap 14,7 dice: «È benedetto l’albero per mezzo del quale
si compie la giustizia» (Sermone 18, conferenza
vespertina).
Dunque l’argomento è estremamente vasto,
tanto quanto ciò che tratta, per cui sarebbe infinito.
Questa breve sintesi è una tra le
tantissime, ma tutte hanno in comune una cosa: l’attesa della risurrezione di
Gesù, che è la verità culminante della nostra fede in Cristo, creduta e vissuta
come verità centrale dalla prima comunità cristiana, trasmessa come
fondamentale dalla Tradizione, stabilita dai documenti del Nuovo Testamento,
predicata come parte essenziale del mistero pasquale insieme con la croce (CCC,
638). Senza la risurrezione tutto sarebbe vano (Cfr. 1Cor 15,14). Nel
complesso, la risurrezione di Cristo è principio e sorgente della nostra
risurrezione (CCC, 655).
Ed è possibile concludere con le stesse
parole della Scrittura: «Ecco, sono compiute! Io sono l’Alfa e
l’Omega, il Principio e la Fine. A colui che ha sete io darò gratuitamente da
bere alla fonte dell’acqua della vita. Chi sarà vincitore erediterà questi
beni; io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio» (Ap 21,6-7).
Santa Pasqua!
Gabriele Cianfrani