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sabato 11 febbraio 2023

PROFESSIO FIDEI E IMPLICAZIONE DELL'INTELLETTO 1/2


 

Il 31 dicembre 2022 il Santo Padre Benedetto XVI è tornato alla Casa del Padre. Inutile riportare quanto grande sia stata la sua importanza per la Chiesa odierna e per quella che dovrà attraversare le gioie e le difficoltà del futuro, poiché ci saranno entrambe. Il mio augurio e la mia preghiera per la sua proclamazione, un giorno, di «Dottore della Chiesa».

Tuttavia, pare che vi sia un aspetto fondamentale della ricerca condotta da Joseph Ratzinger – lo si chiamerà così per il riferimento al suo essere studioso, eccellente teologo e non solo – che si spera potrà essere ripreso al più presto: la «ragionevolezza della fede», ossia che la «professione di fede» implica la «ragione». Sì, in quanto spesse volte si parla della «fede» e della «ragione» come se tale accostamento fosse, come dire, sospetto o strano. Comprensibile, nel caso in cui si avesse più o meno bene la nozione di «fede», ma si tratta di un accostamento obbligato, dal momento che non può esservi fede senza ragione e la ragione non può non essere la sede della fede. Sarebbe meglio parlare di «intelletto» anziché di «ragione», poiché l’intelletto indica direttamente quella facoltà/potenza dell’anima che consente atti intellettivi, come la ragione, la quale implica quel procedere, proprio dell’essere umano, in modo discorsivo di conoscenza in conoscenza per giungere alla verità. Gli angeli non apprendono la verità in maniera discorsiva, ma con la semplice intellezione. Pertanto, è proprio dell’essere umano il ragionamento, ma non degli angeli; è proprio dell’essere umano essere definito come razionale, non degli angeli, i quali sono esseri intellettuali (Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 79, a. 8). Tuttavia, non sembra male riportare una precisazione, con buona pace di quanti oggi adoperano la parola «intelligente» per indicare anche ciò che non ha vita (es. la chiave, il semaforo, la lavatrice, uno schermo e il computer stesso, che vuol dire calcolatore, ma non ha nessuna intelligenza) o riducendo l’intelligenza al puro calcolo. Semmai l’intelligenza fosse riducibile al calcolo, allora un calcolatore elettronico, ossia un computer, sarebbe enormemente più intelligente di un cosiddetto «cervellone umano», ma non è così. Tutto ciò che osserviamo nella realtà materiale, sensibile, consta di singolarità, di particolarità, non di universalità. Osserviamo che vi è un albero, certo, ma quell’albero. Non osserviamo che vi è l’albero in quanto tale, ma quel determinato albero. Eppure sappiamo cosa sia un albero in quanto tale, che si tratti di un ulivo, di un faggio, di un platano, di una quercia o altro. Coma mai? Per mezzo di quella facoltà che si chiama «intelletto» e per quella funzione che si chiama «astrazione». Seppure molto brevemente, occorre dire qualcosa al riguardo.

Poiché il termine «patire» può essere preso in vari sensi, in questa sede viene preso nel senso di «ricevere qualcosa da parte di», per cui l’intelletto stesso si trova in potenza rispetto a ciò che deve ricevere. Cosa deve ricevere? Il dato intelligibile. Ma nella realtà sensibile, della quale si fa esperienza con i sensi, troviamo il dato sensibile, non l’intelligibile in atto. Il dato intelligibile si radica nella realtà, ma è in potenza di essere tale. Ora, dal momento che quel «patire» deve fare in modo che l’intelligibile in potenza diventi intelligibile in atto, in modo tale che si possa ricevere (patire) tale dato, occorre porre una capacità da parte dell’intelletto di «astrarre», ossia di «separare» quel dato sensibile che si trova nella realtà materiale per far sì che diventi intelligibile, e così effettuare il passaggio dall’intelligibile in potenza all’intelligibile in atto. Soltanto con questo passaggio, che va sotto il nome di «astrazione», è possibile ottenere l’intelligibile astratto dal sensibile concreto. Ma sopra è stato riportato che da una parte l’intelletto si trova in potenza di ricevere il dato intelligibile astratto e dall’altra che occorre una capacità da parte del medesimo di astrarre il dato intelligibile dal sensibile concreto. Nulla di strano e soprattutto nulla di contraddittorio. Ciò è doveroso, dal momento che nulla di quel che è in potenza passa all’atto se non per mezzo di ciò che è già in atto. Pertanto, occorrono due princìpi: quello che astrae il dato intelligibile dal sensibile concreto prende il nome di «intelletto agente»; quello che riceve il dato intelligibile astratto prende il nome di «intelletto paziente o possibile». In questo caso è l’intelletto agente che attua l’intelletto paziente. In virtù di questo è possibile scorgere l’immaterialità dell’intelletto, che è dell’anima (Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 79, aa. 1-4).

È solo una breve esposizione, che sarà ripresa, ma può bastare per non associare l’«intelligenza» a oggetti che non sono neanche vivi.

Quando si pronunciano le parole «credo» e «amen», ossia la parola iniziale e quella finale del Credo, occorre prestare attenzione a ciò che si pronuncia, dal momento che non esprime affatto il gettarsi nell’irrazionalità. Infatti, scrive Ratzinger:

[…] ciò che qui accade non è affatto un buttarsi in braccio all’irrazionale. Viceversa, è un accedere al lógos, alla ratio, al senso e quindi alla stessa Verità, perché in definitiva il fondamento su cui l’uomo si pone non può né deve esser altro che la stessa Verità che si schiude a noi. […] L’atto di fede cristiana include quindi sostanzialmente la convinzione che il fondamento significativo, il lógos sul quale ci collochiamo, proprio in quanto senso è anche verità. Un senso che non fosse al contempo anche verità, sarebbe non-senso. L’inseparabilità di senso, fondamento, verità, che si esprime tanto nel termine ebraico ‘amen’ quanto in quello greco di lógos, annuncia nello stesso tempo tutta un’immagine del mondo. Nell’inscindibilità di senso, fondamento e verità, così come la implicano – in maniera per noi intraducibile – queste parole, viene in luce l’intera rete di coordinate nella quale la fede cristiana considera il mondo e prende posizione di fronte ad esso. Ne consegue però anche che la fede, per la sua stessa originaria essenza, non è affatto un cieco affastellamento di paradossi incomprensibili. E inoltre che è sbagliato addurre a pretesto il mistero, come in realtà non di rado avviene, per trovare una scusa alla mancanza di comprensione. Quando la teologia va a impelagarsi in un mare di assurdità, ostinandosi non solo a scusarle, ma magari addirittura a canonizzarle richiamandosi al mistero, ci troviamo dinanzi a un abuso della vera idea di ‘mistero’, il cui senso non è certo la distruzione dell’intelletto, bensì di rendere possibile la fede in quanto comprendere. In altri termini, la fede non è certamente un sapere nel senso della scienza del fattibile e secondo la sua forma di calcolabilità. Non lo potrà mai diventare e finirebbe solo per rendersi ridicola, qualora tentasse di proporsi in queste forme (J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 201722).

Lo scopo di questa prima parte è quello di comunicare non solo che si tratta di un’assurdità l’esclusione della fede dall’intelletto – oppure, se si preferisce, dalla ragione, ma con la precisazione riportata sopra – e il necessario richiamo dell’intelletto per la fede, ma soprattutto che per «intelletto» il riferimento è ben preciso, lungi dagli stravaganti accoppiamenti che spesse volte – troppe! – giungono all’attenzione. Tuttavia, l’implicazione vicendevole della fede e dell’intelletto sarà trattata nella seconda parte, la quale avrà lo scopo di chiarire in che modo la fede opera sull’intelletto e come l’intelletto opera mediante la fede, in particolar modo sul tipo di «assenso» e cosa comporta nei confronti della volontà, e in ultimo nei confronti della persona stessa.


Gabriele Cianfrani