Un titolo, quello sopra,
che pare non abbia possibilità alcuna di giustificazione. Eppure non è così.
Potrebbe anche sembrare un gioco di parole, per certi aspetti lo è, ma ha la
sua giustificazione. Tante sono le volte – forse troppe – in cui si ascoltano
parole adoperate in modo quasi del tutto avulso da ciò che quella parola
significa, col risultato della mancata comunicazione o di una comunicazione,
come dire, storpiata.
Probabilmente non tutti
condivideranno ciò che seguirà, ma non è neanche possibile che un pensiero sia
condiviso generalmente, tanto meno rincorrere questo esito.
Ora, appoggiandomi ad
alcuni autori che hanno già espresso la loro posizione, vorrei esprimere anche
la mia.
Da alcuni anni a questa
parte, parole come «smart working», «election day», «jobs act», «covid free»,
«lockdown», «smart key», «fake news» e tante altre hanno fatto irruzione, o
meglio, sono state poste prepotentemente nel linguaggio comune. Pare sia emersa
anche una parola come «smartabile». Non nascondiamo nulla, dato che soprattutto
il mondo della politica sta sfoderando ciò. Ma ci tengo a precisare una cosa,
ossia che non mi pongo neanche minimamente contro l’uso di tali parole e di
altre – contro «smartabile» ovviamente sì –, ma non sarebbe affatto male se ciò
fosse fatto in contesti che ne richiedano l’uso, e si tratta di contesti non
italiani. Se infatti si provasse ad ascoltare traduzioni di discorsi americani
o inglesi, ci si renderebbe conto che tutto viene tradotto ad eccezione di
parole come quelle sopra riportate. Faccio un esempio: gli americani si
preparano per l’election day! Perché non si traduce anche «election day»?
Cosa ci sarebbe di male nel farlo? Da cosa dipende la non traduzione? Ricordo
quando seguivo un corso di laurea e puntualmente spuntavano fuori parole come
«debridement» (sbrigliamento), «follow-up» (continuare, seguire, approfondire) e
roba simile. Mi chiedo per quale motivo alcune parole non vengano tradotte.
Certamente il riferimento non è a tutto, l’esclusione riguarda, ad esempio,
nomi propri e altro.
Ciò a cui si assiste è un
crescendo dell’uso di parole straniere moderne fino a non reperire più quelle
italiane corrispondenti, con il risultato di non riuscire più ad esprimersi
agevolmente. Sono consapevole che una lingua non emerga all’improvviso, ma
sarebbe bene se si difendesse la propria tradizione letteraria, che
contribuisce ad evidenziare caratteristiche culturali e far sì che si verifichi
un vero arricchimento culturale. Da preferire parole latine o greche, le quali
racchiudono quella ricchezza linguistica dalla quale non si può prescindere.
Preciso ancora la non contrarietà dell’utilizzo di parole inglesi o di altra lingua,
ma sarebbe cosa buona se si evitasse di inserirle così tante volte in discorsi
italiani a tal punto da rischiare di non trovare parole italiane per esprimere
quanto si vuole esprimere, con l’unica soluzione di fare ricorso a parole di
altra lingua. Non costituisce una tragedia adoperare parole come «followers», «chat»,
«tout court», «chapeau», ci mancherebbe, ma non andrei verso l’eccesso.
Altro punto, forse quello
principale, riguarda espressioni con parole che non hanno nulla a che vedere
con il contesto nel quale vengono poste. Faccio un esempio: «è un’apocalisse!»;
«egli è molto umano, ha una grande umanità»; «abbiamo creato...» e altro. Ci
sarebbe tanto da discutere anche sulla «intelligenza artificiale», dato che si
fatica a capire come queste due parole possano stare insieme, ma ciò non può
essere trattato, dato che l’argomento è molto vasto e richiederebbe molto
tempo. Per quanto riguarda l’«essere molto umano», verrebbe da chiedersi se l’«umanità»
in quanto tale possa subire aumenti o diminuzioni. Non mi pare che un essere
umano possa essere più o meno umano di un altro, nonostante vi saranno differenze:
uno è più clemente di un altro, più crudele, più o meno emotivo ecc. Tuttavia,
non è trascurabile questo aspetto, dato che non poche volte si tende ad
umanizzare ciò che umano non è, ma anche il contrario, disumanizzare ciò che è
umano.
La «parola» esterna non è
altro che il verbum exterius che si radica nel verbum interius,
ossia nella «parola interna». La «parola esterna» è appunto segno della «parola
interna», che in tal modo diventa esterna e di conseguenza comunicabile,
diventa espressione linguistica concreta. Ma la «parola interna» rimanda alla
dimensione del «pensiero», alla dimensione intellettiva della conoscenza, che a
sua volta rimanda alla realtà. Inoltre, sono sempre rimasto affascinato dagli «atti
della mente», che si trovano sul piano intellettivo e sono quelle operazioni della
mente che godono di una certa importanza. Sono tre: semplice apprensione,
giudizio e ragionamento. Vediamo brevemente le tre operazioni.
- Semplice apprensione:
atto della mente che coglie un aspetto della realtà (animale, vegetale,
spirituale, anima ecc.), senza esprimere affermazioni o divisioni. L’«operato»
che si trova ancora nella mente si chiama concetto, che non è ancora
oggetto di conoscenza, ma strumento per la conoscenza. L’«espressione
linguistica» si chiama termine (parola);
- Giudizio: esso è
componente o dividente, ossia attribuisce un termine ad un altro oppure lo nega
(es. «il gatto è un felino» o «il gatto non abbaia»). L’«operato» del giudizio
si chiama enunciazione, mentre l’«espressione linguistica» si chiama proposizione;
- Ragionamento: esso consta degli atti del giudizio, i quali atti nel ragionamento son posti in
maniera discorsiva, cioè in modo da discorrere su quegli atti che in tal caso
vengono posti come premesse. L’«operato» è un’argomentazione intelligibile,
mentre l’«espressione linguistica» è appunto un’argomentazione linguistica.
Si tratta del famoso «sillogismo», che è un ragionamento: «gli alberi sono
piante, la quercia è un albero, dunque la quercia è una pianta»; «l’anima
intellettiva è spirituale e immortale, l’anima umana è intellettiva, dunque l’anima
umana è spirituale e immortale».
Evidentemente quando parliamo
non ci soffermiamo su ogni atto della mente, ma tali atti sono collegati.
Per concludere, ognuno
può svolgere la sua analisi, ma non sarebbe male se vi fosse più accortezza nel
parlare in modo più chiaro e senza l’inclusione di termini che starebbero ad
esprimere una sorta di «tecnicismo», che tale non è, dal momento che ci sono
parole italiane con le quali tradurre ciò che occorre. Vi sono anche parole
difficilmente traducibili, ma questa è un’altra storia.
Gabriele Cianfrani