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sabato 23 dicembre 2023

IL PRESEPE E IL PASTORE

 


In questo clima natalizio, pieno di difficoltà e di avversità nei confronti della fede cristiana, il presepe (o presepio) è ancora presente. Non si tratta di cadere nel solito vittimismo, ma semplicemente di constatare alcune dinamiche estranee a ciò che dovrebbe essere rappresentato dal presepe. Procediamo per gradi.

Anzitutto pare importante soffermarsi sulla parola presepe, che nelle sue origini latine rimanda alla «mangiatoia», alla «stalla», alla «dimora», al «recinto» e/o anche al luogo in cui si verificavano cose non buone. Pertanto, se la parola presepe viene adoperata per indicare la famosa rappresentazione della Natività, la quale inizia per la prima volta con san Francesco d’Assisi (a Greccio nel 1223), non può da questo non scaturire una domanda fondamentale: quale sarebbe il senso del presepe? Non solo, in quanto vi sarebbe una seconda domanda, forse più importante della prima: per quale motivo il presepe rappresenta la Natività?

Le risposte sono – o dovrebbero essere – immediate: il senso del presepe è la professione di fede nei confronti della incarnazione del Verbo e il contesto della Natività rimanda alla vita divina che il Verbo, assumendo natura umana, ci ha concesso di partecipare per mezzo della Redenzione. Questo dovrebbe essere, in ultimo, il senso del Natale. Certo, poiché il fine del Natale è la Pasqua di passione, morte e resurrezione di Cristo. Occorre parlare di quella vita che Dio ci ha concesso, in quanto tutti, prima o poi, dovremo morire. E poi? O vi è la vita eterna o il nulla – ma il nulla è totalmente inesprimibile –, non ci sono altre vie, per cui non possiamo tergiversare sull’argomento. Insomma, mi pare di scorgere il senso del Natale, in maniera molto incisiva, nelle parole dell’orazione delle lodi del 22 dicembre:

O Dio, che nella venuta del tuo Figlio hai risollevato l’uomo dal dominio del peccato e della morte, concedi a noi, che professiamo la fede nella sua incarnazione, di partecipare alla sua vita immortale.

In questa orazione vi sono elementi sui quali si potrebbero svolgere approfondimenti quasi senza fine, per cui non è possibile neanche pensare di farlo in questo piccolo spazio. Tuttavia, è importante individuarli: venuta del Figlio; peccato; morte; professione di fede; incarnazione; partecipazione; vita immortale. Per quanto riguarda i motivi dell’Incarnazione, sia dalla prospettiva biblica sia da quella magisteriale, rimando al mio articolo risalente al 2022 (clicca qui).

Ciò su cui vorrei soffermarmi in questa sede riguarda il rapporto tra il Natale e la figura del Pastore – il riferimento è principalmente a Dio –, per poi procedere col riportare alcune dinamiche, verificatesi in questi giorni, totalmente avulse dalla visione cristiana. Tra i prossimi articoli ve ne sarà uno sulla data del 25 dicembre nella cristianità antica, in quanto ancora oggi, in molti libri, si afferma la presunta sostituzione da parte della Chiesa della festività pagana del Sol Invictus istituita da Aureliano nel 274 d.C. Ma non è così, lo dimostrano fonti della cristianità antica che puntualmente non vengono riportate.

La figura del pastore, oltre ad essere determinante nel mondo biblico, fu ed è una realtà di fatto. Già Abele divenne pastore di greggi (cfr. Gen 4,2)[1] e così Abramo (cfr. Gen 13,2) e il resto della discendenza. Ora, se da una parte il pastore deve condurre al sicuro il suo gregge, proteggerlo dai pericoli e dalle bestie feroci (cfr. 1 Sam 17,34-37), dall’altra si piega verso il suo gregge per sostenerlo per non lasciarlo perire (cfr. Gen 33,13-14). Bisogna ricordare che a quel tempo il bestiame era prezioso, soprattutto per il popolo di Israele, continuamente in cammino e avente come risorsa proprio il bestiame. Pertanto, se il gregge non poteva fare a meno del pastore, neanche quest’ultimo poteva fare a meno del suo gregge. Senza procedere con tantissimi altri esempi, emergono alcuni tratti caratteristi del rapporto tra il pastore e il suo gregge, primo fra tutti quel rapporto di conoscenza intima di entrambi, che non è possibile comprendere se ci si pone al di fuori di tale rapporto.

Piccolo ma importante dettaglio: chi vive nei paesi circondati da campagne, come chi scrive, ha la possibilità di notare ancora oggi questo rapporto che vi è tra pastore e gregge. Quando egli chiama le sue pecore, con un verso o con un fischio, le pecore lo riconoscono in mezzo a tanti altri versi e in mezzo a tanti altri fischi. Questo intimo rapporto di conoscenza vi è solo tra il pastore e il suo gregge, non al di fuori di tale «recinto», ossia non al di fuori di tale «presepe». Ed ecco che con il nostro presepe riconosciamo Colui che è il Pastore (cfr. Mi 5,1-3; Lc 15,3-7: 19,10; Mt 15,24; Eb 13,20-21), Colui che è venuto a donare quella vita eterna che non è altro che la partecipazione alla Sua vita divina. Il Pastore, Cristo, il Verbo incarnato è venuto per rigenerarci, mediante la Redenzione – in tal caso Cristo non solo è il Pastore ma anche la Vittima (cfr. Eb 9,11-14; Gv 10,11-18) –, per quella eredità incorruttibile che non finirà mai (cfr. 1Pt 1,4). Ma Cristo parla di ovile/recinto (cfr. Gv 10,16), nel quale dovranno rientrare tutte quelle pecore che ancora si trovano fuori, per avere così un solo gregge e un solo Pastore. Ecco il «presepe», ossia la rappresentazione di quella mangiatoia e di quel recinto che sono del Pastore che è venuto per condurre le Sue pecore verso la Vita. Ma le pecore devono mangiare, perché il viaggio è lungo, oltre ad aver bisogno di tante altre cose. Proprio per questo il Pastore ci ha lasciato i sacramenti e come cibo l’Eucaristia, ossia il Pastore stesso. A questo punto il presepe in quanto tale non può non rimandarci alla Chiesa.

Tutto questo non è estraneo a noi uomini, non può esserlo, dal momento che il Verbo (il Figlio) ha assunto «natura umana». Le azioni divine ci superano infinitamente, non riusciremo mai a comprenderle del tutto, ma si possono capire, sono intelligibili. Come potremmo rispondere alla voce del Pastore se la Sua voce ci risultasse estranea? Il problema non risiede nel Pastore, ma in quella parte del gregge che volontariamente si è allontanata e continua ad allontanarsi, ascoltando non più il Pastore ma la voce che si frappone tra il Pastore e il gregge. Da ciò ne consegue l’incomprensione più assoluta e la totale estraneità del Natale. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, o meglio, ascoltare.

Ora, in questi giorni il presepe e la festa del Natale hanno subìto delle violenze non indifferenti, che non è il caso di riportare interamente. Eliminare la festa del Natale per favorire una festa che non ha né testa né coda – alla faccia della coerenza! –, occorre dirlo, vuol dire non aver capito nulla del Natale. Inoltre, il fatto che si affermi che il Natale consista solo nella pace, nella gioia e serenità e altre cose di questo tipo, mi fa concludere che vi è quella riduzione alla pura orizzontalità della dimensione umana, con la perdita della verticalità, del piano divino e del motivo per il quale il Verbo si è incarnato. Per essere ancora più incisivi, spesse volte nel Natale si perde di vista l’incarnazione del Verbo, con la conseguenza dell’annullamento implicito del Natale. Non a caso oggi si parla della difesa dei valori cristiani dal punto di vista «culturale». Va bene, ma il soggetto che fa cultura è l’uomo, per cui la difesa della sola dimensione culturale, per quanto sia apprezzabile, implica il velato disgregamento di ciò che si vuole difendere. Tutto questo rimanda alla distinzione, oggi ormai persa, tra l’essere e l’agire, tra la speculazione e la pratica, tra il piano verticale e il piano orizzontale, che sarà oggetto di un prossimo articolo.

Per concludere, la violenza sul presepe rimanda quella sorta inclusivismo cieco – attenzione, non si tratta di inclusione, il limite è sottile! – che comporta in maniera paradossale l’esclusivismo. Mi spiego. Aggiungere elementi estranei alla rappresentazione della Natività vuol dire intaccare, ancor prima del piano divino, il piano della natura umana. Propendere per l’inclusivismo cieco, come oggi accade spesso, vuol dire condurre l’uomo verso la dissoluzione della sua stessa natura, con perdita della sua identità. Ma è proprio questo il punto! Non ci può essere azione/grazia divina sull’uomo se non vi è la natura umana che può accoglierla. Dove agirebbe l’azione/grazia divina? I sacerdoti dovrebbero ricordare che gratia supponit naturam (la grazia suppone la natura), non la distrugge, ma la eleva e la porta verso il suo compimento. La vera inclusione, se si vuole parlare di ciò, risiede nella stessa incarnazione del Verbo, il quale ha scelto di incarnarsi in quel particolare contesto, con la Beata Vergine Maria e san Giuseppe.

Per cortesia, non nascondiamoci dietro quella ‘pastorale’ di cui si parla tanto, ma che alla fine risulta totalmente anonima. E l’anonimato deriva dal fatto che sul Verbo incarnato se ne parla in maniera disincarnata. Forse sarò un po' spietato e mi dispiacerebbe se qualcuno si offendesse, ma non confondiamo la «pastorale» con la «pastorizia».

Santo Natale  

 

Gabriele Cianfrani



[1] Per quanto riguarda le abbreviazioni bibliche presenti in questo articolo: Gen = Genesi; 1Sam = Primo libro di Samuele; Mi = Michea; Mt = Vangelo secondo Matteo; Lc = Vangelo secondo Luca; Gv = Vangelo secondo Giovanni; Eb = Lettera agli Ebrei; 1Pt = Prima lettera di Pietro. 


 


venerdì 8 dicembre 2023

NESSUNO METTE DEL VINO NUOVO IN OTRI VECCHI: L'IMMACOLATA CONCEZIONE


 

Quella dell’8 dicembre, dal 1854, risulta essere la solennità della Immacolata concezione della Beata Vergine Maria. Per quale motivo dal 1854? Perché l’8 dicembre 1854 Papa Pio IX proclamò tale dogma con la bolla Ineffabilis Deus (per leggerla interamente cliccare qui). I dogmi mariani sono complessivamente quattro: Maternità divina (431 d.C.); verginità perpetua (553 d.C.); immacolata concezione (1854); assunzione in Cielo in anima e corpo (1950).

Fin da ora è necessario precisare che trattare del concepimento immacolato di Maria è cosa che richiede troppo spazio, per cui non sarà possibile raggiungere quella esaustività richiesta da un tema di questa portata, ma qualche dato è possibile riportarlo. Tuttavia, se si volesse andare nel dettaglio, sarebbe necessaria almeno un’infarinatura riguardante lo stato dei progenitori prima della colpa d’origine, la stessa colpa o peccato d’origine (cos’è, come si trasmette, cosa comporta, quale rimedio sacramentale ecc.), la costituzione della natura umana, alcuni argomenti riguardanti la natura e la grazia e tante altre cose. Inoltre, è bene sapere che in passato vi sono state alcune disquisizioni teologiche che non sempre hanno condotto ad affermare il concepimento immacolato di Maria, pur mantenendo quella grande venerazione nei suoi confronti, comune a tutti i grandi teologi. Non solo, ma per quanto riguarda tali disquisizioni è stato osservato che andrebbe posta la distinzione tra conceptio e animatio e la stessa animazione intellettiva durante il Medioevo, ma questo rimanda ad un altro momento (per chi vuole leggere qualcosa sulla creazione dell’anima e in particolar modo secondo san Tommaso d’Aquino, riporto un mio lavoro al quale è possibile collegarsi cliccando qui).

Prima di procedere è importante sapere che gli ultimi due dogmi mariani sono stati proclamati considerando la duplice infallibilità magisteriale, che si divide in infallibilitas in credendo e infallibilitas in docendo: la prima (in credendo) riguarda la totalità dei fedeli (universitas fidelium: indica la Chiesa nel suo insieme, non la somma aritmetica di ogni singolo membro) «non può sbagliarsi nel credere – in credendo falli nequit» (Lumen gentium, n. 12); la seconda (in docendo) è la funzione magisteriale, affidata ai soli Pastori, che garantisca la certezza del credere, in materia di fede e morale. In tal caso il riferimento è soprattutto alla infallibilità in credendo, che si radica in quel sensus fidei che riguarda tutto il popolo di Dio, ecclesiastici e laici. In poche parole riguarda tutta la Chiesa.

A questo punto sarebbe necessario parlare di un aspetto che ultimamente, anche da parte dei cattolici, è poco compreso: la Rivelazione, ossia la Parola di Dio. Sembra strano, ma non lo è. Spesse volte si considera ‘solo’ la Sacra Scrittura come Parola di Dio, lasciando nell’oblio l’altra fonte imprescindibile, ossia la Sacra Tradizione (cfr. Lc 1,1-4; Gv 21,24-25; 2Pt 3,15-16). È un errore grossolano – oggi più o meno comprensibile –, per il semplice motivo che la Rivelazione in quanto Parola di Dio scaturisce e dalla Sacra Scrittura e dalla Sacra Tradizione, senza considerare che la Sacra Tradizione appare sia in senso ampio (per iscritto) sia in senso stretto (oralmente). La domanda sarebbe la seguente: cos’è la Sacra Tradizione? Questa domanda sarà alla base del prossimo articolo, nel quale sarà trattato il rapporto tra Sacra Scrittura e Sacra Tradizione.

Ora, il dogma dell’Immacolata concezione esprime che la Beata Vergine fu esente dalla macchia del peccato d’origine, ossia non ereditò il peccato d’origine, non per suo merito creaturale ma per l’applicazione preventiva dei meriti redentivi di Cristo, cioè preservata dalla colpa d’origine in virtù dei meriti redentivi di Cristo. Possibile obiezione: dove sta scritto? Non è vero che san Paolo ha detto che tutti hanno peccato (cfr. Rm 3,23) e che tutti, per somiglianza col peccato di Adamo, sono colpiti dalla morte e che necessitano della redenzione (cfr. Rm 5,12-14; 1Cor 15,22)? Certo, san Paolo ha riportato in maniera straordinaria quella che è riconosciuta come la dottrina del peccato d’origine e le sue conseguenze, perciò ha espresso tutto con quella finezza che gli era propria. Infatti, ciò non viene neanche minimamente scalfito con il dogma della Immacolata concezione, anzi, tale dogma avvalora il tutto. Senza riprendere il passo del Protovangelo (Gen 3,15), che permane nella sua importanza e che consta del duplice senso letterale proprio ed improprio, oltre ad altri luoghi veterotestamentari, si ritiene necessario soffermarsi su due luoghi sui quali riflettere: Lc 1,28; Lc 1,41-45.

Il primo riferimento è al verso di Lc 1,28, ossia a quel «piena di grazia» (gratia plena), che risulta essere un caso unico in tutta la Scrittura. Pertanto, occorre chiedersi cosa sia la «grazia» e come questa agisca sulla natura umana, se si vogliono comprendere quelle parole. La grazia è di per sé quel dono soprannaturale di Dio che consente alla creatura umana di partecipare della natura divina (cfr. Tt 3,7; 2Pt 1,4) e che comporta un vero e proprio rinnovamento dell’uomo (cfr. Concilio di Trento, Decreto sulla giustificazione, capitolo VII). Tale grazia che agisce sul piano ontologico è stata chiamata gratia gratum faciens o grazia santificante o grazia abituale. Si tratta di quella grazia che rende graditi a Dio in seguito al rinnovamento della creatura umana e che comporta la vera adozione divina (cfr. Gal 3,5). A questo punto san Tommaso d’Aquino direbbe che l’adozione divina è diversa da quella umana, in quanto solitamente l’uomo adotta ciò che gli è già gradito ed è già idoneo, mentre Dio, adottandoci divinamente, ci rende graditi a Lui e ci partecipa la sua beatitudine (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III, q. 23, a. 1). Pertanto, la grazia divina agisce primariamente sul piano ontologico, rinnovando interamente la creatura e rendendo la medesima partecipe della divina natura. Ma cosa sarebbe la grazia, in ultimo, se non Dio stesso? Quale sarebbe il suo rapporto con l’uomo? Sarebbe una sorta di panteismo o di emanatismo? Assolutamente no, dal momento che Dio è assolutamente semplice e tutto ciò che si manifesta al di fuori di Dio è «creato». Pertanto, nonostante l’autore della grazia sia Dio e in ultimo la medesima coincide con Dio, dal momento che viene ricevuta dalla creatura risulta essere creata. Ovviamente la partecipazione della natura divina supera infinitamente la partecipazione dell’essere, per cui bisogna ponderare bene le parole e soprattutto capire che ciò, spesse volte, supera la stessa capacità umana di comprensione.

Ora, dal momento che la grazia non può coabitare col peccato, e nel grembo di Maria ha assunto natura umana l’Autore della grazia, come poteva essere possibile la coabitazione di Dio e del peccato (d’origine)? Si ricordi che Dio è Trinità e che in tal caso la natura umana è stata assunta dalla Seconda Persona della Trinità (il Figlio). Ma se la colpa del peccato d’origine viene rimossa con la grazia santificante (conferita inizialmente col Battesimo) e l’angelo Gabriele saluta Maria come «piena di grazia», vuol dire che ella era già piena di Dio, ossia l’angelo non trova in lei neanche l’ombra del peccato, altrimenti non l’avrebbe salutata come «piena di grazia». A questo punto sorge un’altra domanda: come si manifesta la grazia? La riposta a tale domanda richiederebbe uno spazio notevole, ma bisogna sapere che la grazia è di per sé gratuita e in chiave biblica comprende anche l’aspetto della elezione, della scelta da parte di Dio, non per i meriti umani ma per la ricchezza della bontà divina (cfr. Dt 4,37; 7,7-8). A questo punto appare chiaro che Maria è «piena di grazia» per quei singolari meriti redentivi di Cristo – anche Maria è stata redenta, per cui non vale l’obiezione sopra riportata –, applicati ad ella preventivamente (Pio XI, Bolla Ineffabilis Deus; Concilio Vaticano II, Lumen gentium, 53), senza contare il dialogo tra Maria e l’angelo Gabriele.

Per quanto riguarda il secondo passo, Lc 1,41-45, vi sono due verità: Maria in quanto Madre del Signore e Maria in quanto dispensatrice delle grazie. Evidentemente Elisabetta saluta Maria quale madre del suo Signore, ma tale saluto segue un fatto ben preciso: la voce di Maria fa sussultare il figlio di Elisabetta che in quel momento si trovava nel suo grembo (Giovanni il Battista). Il tempo si ferma: da una parte la madre del Signore e la madre del precursore, dall’altra Cristo e Giovanni il Battista nel grembo delle relative madri. L’Autore della grazia, per mezzo della voce di Maria, raggiunge colui che sarà il suo precursore per mezzo della madre. Ed ecco che colei che era già piena di grazia porta nel suo grembo l’Autore della grazia, dal momento che ha trovato in lei quel tabernacolo che poteva permetterGli di porre la Sua tenda in mezzo a noi (cfr. Gv 1,14). Mi pare che tutto ciò emerga dai testi stessi.

Nonostante l’argomento meriterebbe di essere trattato in tutta la sua ampiezza – non è facile! –, il dogma dell’Immacolata concezione non lede quanto si legge nei passi paolini sopra riportati, dal momento che la redenzione è stata universale e anche Maria è stata redenta, ma preventivamente, come risulta dai passi lucani.

Per concludere, al di là delle ricerche teologiche, proprio colui che nutre grande odio verso la Beata Vergine affermò il suo concepimento immacolato. Nel 1823 i due domenicani P. Cassetti e P. Pignatura, dopo aver constatato la possessione diabolica di un ragazzo undicenne analfabeta dell’attuale Ariano Irpino, e dopo aver ricevuto il permesso di esorcizzarlo da parte del Vescovo, procedettero con l’esorcismo. Tuttavia, dal momento che a quel tempo si discuteva molto del concepimento immacolato di Maria – si ricordi che il dogma fu proclamato nel 1854 e nel 1858 la Beata Vergine a Lourdes lo confermò, e sulle mariofanie di Lourdes ci sarebbe tanto da dire –, i due domenicani richiesero al demonio una cosa strana, ossia di esprimersi sul concepimento immacolato di Maria mediante un sonetto con caratteristiche ben precise. Impossibile per un ragazzino analfabeta, ma forse anche qualcun altro. Bisogna sapere che l’angelo caduto non pronuncia i nomi di Gesù e di Maria e non lo fece neanche quella volta, ma ciò che venne fuori, anche se pronunciato dal demonio per bocca del ragazzino, ha il suo fascino. Attenzione: non bisogna prestare ascolto a tante cose che girano oggi, né a presunte catechesi da parte dell’angelo caduto né ad altre corbellerie, si cadrebbe nel tranello di colui ha l’intelletto deturpato, sì, ma comunque superiore all’intelletto umano. Il caso in questione fu un’eccezione e fu riconosciuto da chi era del mestiere. Pertanto, ecco il sonetto, anche se qualcuno avanza dei dubbi, ma senza fornire spiegazioni:

Vera madre son io d’un Dio ch’è Figlio

e son figlia di Lui benché sua Madre.

Ab aeterno nacqu’Egli ed è mio Figlio.

Nel tempo io nacqui e pur gli son Madre.

 

Egli è mio Creator ed è mio Figlio,

son io sua creatura e gli son Madre.

Fu prodigio divin l’esser mio Figlio

un Dio eterno e me aver per Madre.

 

L’esser quasi è comun tra Madre e Figlio,

perché l’esser dal Figlio ebbe la Madre

e l’esser dalla Madre ebbe anche il Figlio.

 

Or, se l’esser dal Figlio ebbe la Madre

o s’ha da dir che fu macchiato il Figlio

o senza macchia s’ha da dir la Madre.[1]

 

Pertanto, nessuno mette il vino nuovo in otri vecchi, men che mai Colui che è il Pane di Vita.



 

Gabriele Cianfrani



[1] Il testo l’ho preso da F. Bamonte, La Vergine Maria e il diavolo negli esorcismi, Paoline Editoriale Libri, Milano 20105, pp. 37-38.