Blog di informazioni e riflessioni su quanto concerne temi cristiani

lunedì 19 dicembre 2022

ET VERBUM CARO FACTUM EST, ET HABITAVIT IN NOBIS

 


Così si legge nel Vangelo secondo Giovanni (1,14), ossia che «il Verbo si fece carne/carne si fece, e venne ad abitare in noi», proprio quel Verbo, quel Lógos per mezzo del quale tutto fu fatto e senza di lui non fu fatto nulla di ciò che è stato fatto (1,3). Alcuni studi evidenziano che sarebbe meglio propendere per un’altra traduzione: «e il Lógos carne si fece e si accampò/si attendò fra noi» (Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν), e ciò con evidenti riferimenti alla «tenda» (σκηνή, skēné) di Es 33,7-11:

Mosè ad ogni tappa prendeva la tenda e la piantava fuori dell’accampamento, lontano dall’accampamento, e l’aveva chiamata tenda del convegno. Chiunque ricercava il Signore usciva verso la tenda del convegno, che era fuori dell’accampamento. Quando Mosè usciva verso la tenda, tutto il popolo si alzava e ognuno stava all’entrata della propria tenda e seguiva Mosè con lo sguardo finché entrava nella tenda. Quando Mosè entrava nella tenda, la colonna di nube scendeva e stava all’ingresso della tenda; ed Egli parlava a Mosè. Tutto il popolo vedeva la colonna di nube che stava all’entrata della tenda: tutto il popolo si alzava e ognuno si prostrava all’ingresso della propria tenda. Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con il suo vicino: poi tornava all’accampamento.

Il richiamo al passo biblico sopra riportato è di estrema importanza, dal momento che la «tenda» indicava la presenza di Dio, o meglio, la dimora di Dio in mezzo al popolo d’Israele nel deserto (cfr. anche Es 25-26). La colonna di nube è una chiara allusione alla presenza di Dio in quel momento, e non a caso il riferimento alla potenza dell’Altissimo che coprirà con la sua ombra la Beata Vergine si riscontra nell’annuncio dell’angelo celeste. L’autore del quarto Vangelo conosceva benissimo la Scrittura (a quel tempo la Legge e Profeti)[1], per cui bisogna considerare sempre questo dato. Infatti, se a quel tempo la dimora di Dio presso il popolo d’Israele era rappresentata dalla «tenda del convegno», con l’incarnazione del Lógos il salto è enorme: Dio è ormai presente in mezzo al suo popolo stabilmente, dal momento che ha assunto natura umana, ossia carne si fece.[2] Ciò è collegato, ovviamente, con il sacrificio sulla croce, che è lo scopo della venuta della seconda Persona della Santissima Trinità. Al riguardo, risulta particolarmente importante quanto è riportato nel Catechismo della Chiesa Cattolica, ossia il motivo dell’incarnazione del Verbo:

n. 456: con il Credo niceno-costantinopolitano rispondiamo confessando: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo»;

n. 457: il Verbo si è fatto carne per salvarci riconciliandoci con Dio: è Dio «che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10). «Il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo» (1Gv 4,14). «Egli è apparso per togliere i peccati» (1Gv 3,5);

n. 458: il Verbo si è fatto carne perché noi così conoscessimo l’amore di Dio: «In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita per lui» (1Gv 4,9). «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16);

n. 459: il Verbo si è fatto carne per essere nostro modello di santità: «Prendete il mio giogo su di voi e imparate da me…» (Mt 11,29). «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). E il Padre, sul monte della trasfigurazione, comanda: «Ascoltatelo» (Mc 9,7). In realtà, egli è il modello delle beatitudini e la norma della Legge nuova: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 15,12). Questo amore implica l’effettiva offerta di se stessi alla sua sequela;

n. 460: il Verbo si è fatto carne perché diventassimo «partecipi della natura divina» (2Pt 1,4): «Infatti, questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, Figlio dell’uomo: perché l’uomo, entrando in comunione con Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio»[3]; «Infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio»[4]; «Unigenitus […] Dei Filius, Suae divinitatis volens nos esse participes, naturam nostram assumpsit, ut homines deos faceret factus homo – L’unigenito […] Figlio di Dio, volendo che noi fossimo partecipi della sua divinità, assunse la nostra natura, affinché, fatto uomo, facesse gli uomini dei».[5]

Questi sono, in breve, i motivi che rispondono alla domanda: perché il Verbo si è fatto carne?

Ora, è chiaro che il riferimento principale è quello circa la salvezza degli uomini nella riconciliazione con Dio, ma la partecipazione alla natura divina, che meriterebbe di essere trattata in altra sede, ha la sua «fondamentale» importanza. Tuttavia, oltre ai peccati in genere, la questione che non può essere persa di vista è quella della colpa di origine, ossia del peccato originale. Infatti, intaccare la rivelazione sul peccato originale vuol dire attentare al mistero di Cristo.[6]

La conseguenza estrema del peccato originale – vi sarebbe da esporre in che modo l’uomo fu creato e in quale stato, per capire pienamente – è stata la «morte»:

Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità e lo ha fatto a immagine della propria natura; ma per invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza quanti sono del suo numero (Sap 2,23-24).

Non bisogna incorrere nell’errore di una sorta di immortalità naturale, poiché l’uomo, come ogni essere vivente sottoposto al movimento (generazione-corruzione) è mortale. L’immortalità – e ciò che ne sarebbe scaturito – era conferita nello stato di grazia da Dio stesso[7], il quale stato consentiva la perfetta armonia tra l’anima e il corpo (giustizia originale). Con la colpa d’origine questa armonia venne meno e la conseguenza più dura fu l’esperienza della morte, non solo fisica. Ora, per non andare nel sottile, sono chiare le parole di Cristo in riferimento alla morte e cosa questa abbia a che fare con la sua venuta:

Le dice Gesù: «Tuo fratello risorgerà». Gli risponde Marta: «So che risorgerà nella risurrezione all’ultimo giorno». Le disse Gesù: «Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se morisse, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai. Credi tu a ciò?». Gli dice: «Sì, Signore. Io ho creduto che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, quello che deve venire nel mondo» (Gv 11,23-27).

Il contesto è quello della risurrezione di Lazzaro. Ebbene, in ultimo, Cristo è venuto per ristabilire quella vita che è la piena comunione con Dio, l’accesso alla patria celeste, perso anzitutto col peccato d’origine e concesso nuovamente da Cristo stesso per mezzo del suo sacrificio. Al riguardo, è certamente illuminante quanto riportato nel Catechismo Romano (Tridentino):

n. 48: in realtà se tutti gli uomini muoiono nel primo [Adamo], tutti sono richiamati a vita nel secondo [Cristo]. E come Adamo è stato il padre del genere umano nell’ordine di natura, così Gesù Cristo è per tutti l’autore della grazia e della gloria (Rom. V,14). Parimente si può stabilire un’analogia fra la Vergine Madre, seconda Eva, e la prima […]. Avendo creduto alle lusinghe del serpente (Gen. III,6), Eva attirò sul genere umano la maledizione e la morte; avendo Maria creduto all’annuncio dell’angelo, fece sì che la bontà di Dio ridonasse agli uomini benedizione e vita. A causa di Eva nasciamo figli della collera (Efes. II,3); ma da Maria ricevemmo Gesù Cristo, per merito del quale siamo rigenerati come figli della grazia;

n.51: mentre mediteranno tutto ciò, i fedeli non dimenticheranno che Dio volle sottostare all’umile fragilità della nostra carne, affinché il genere umano fosse innalzato al più alto livello della dignità.

Questi testi sono molto chiari. Pertanto, il Lógos si è incarnato principalmente per ciò e continua ad essere presente per mezzo della Chiesa, suo corpo mistico. In che modo? Principalmente attraverso i «sacramenti» e soprattutto con la santa «Eucaristia».

Per concludere, le parole del Doctor Angelicus risultano alquanto limpide:

Benché il primo peccato del progenitore abbia infettato tutta la natura umana, questa al contrario non ha potuto essere riparata per la sua penitenza o per qualsiasi merito. È chiaro infatti che la penitenza di Adamo o qualsiasi altro suo merito fu un atto della persona singola; ora, l’atto di un individuo non ha alcuna influenza su tutta la natura della specie [umana]. […] Quindi il merito singolare di Adamo, o di qualsiasi altro puro uomo, non ha potuto essere sufficiente per reintegrare tutta la natura umana. Che poi per un atto singolo del primo uomo sia stata viziata tutta la natura umana avvenne per accidens, in quanto, privato lui dello stato di innocenza, [l’innocenza] non poteva attraverso di lui derivare negli altri. […] ora, la grazia non si acquista con i meriti, ma è concessa gratuitamente da Dio: perciò, come il primo uomo ebbe all’inizio la giustizia originale non per proprio merito, ma per un dono divino, così molto meno la poté meritare mediante la penitenza, o compiendo qualsiasi altra opera, dopo il peccato. […] Era dunque conveniente che Dio si facesse uomo, così che uno solo potesse nello stesso tempo riparare e soddisfare. Ed è questa la causa della divina incarnazione che viene indicata dall’Apostolo quando afferma: «Cristo Gesù è venuto in questo mondo per salvare i peccatori» [1Tm 1,9-11].[8]

Insomma, quello del Natale è senza dubbio un tempo di dolcezza, di vicinanza, di luce, di calore – anche se la stagione è quella invernale –, di regali ecc. Ma è bene ribadire che qualora mancasse il riferimento a Cristo, o meglio, «al» Cristo, tutto ciò non avrebbe alcun senso… Nemmeno uno. Con il Cristo e in riferimento a Lui, tutto raggiunge il senso ultimo. Pertanto, in questa novena di Natale, il mio augurio è che si possa certamente ritrovare l’unità e la pace, ma in Cristo, il quale dà la pace ma non come la dà il mondo, e che si riscopra la vita cristiana scaturita dai sacramenti, ultimamente così poco considerati e che invece sono il prolungamento di Cristo in mezzo a noi, in mezzo alla sua Chiesa.


Gabriele Cianfrani                          



[1] In merito alla «questione dell’autore» del quarto Vangelo vi sono diverse posizioni da parte di studiosi di notevole spessore (Martin Hengel, Raymond Edward Brown, Xavier Leon-Dufour, Rudolf Schnackenburg e altri), per cui non è possibile neanche accennare alla quesitone. La modesta opinione di chi scrive rimanda alla origine apostolica dei quattro Vangeli, da intendere come riporta la Dei Verbum: la Chiesa ha  sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i quattro Vangeli siano di origine apostolica. Infatti, ciò che gli Apostoli per mandato di Cristo predicarono, dopo, per ispirazione dello Spirito Santo, fu dagli stessi e da uomini della loro cerchia tramandato in scritti, come fondamento della fede, cioè l’Evangelo quadriforme, secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni (Conc. Vat. II, Dei Verbum; cfr. Ireneo di Lione, Adversus haereses, III, 11,8: PG 7,885). In questo estratto vi sono tantissimi elementi, ma che per evidenti motivi di estensione non è possibile sviluppare.

[2] Appare così in questa frase un’allusione all’antica Tenda dell’Incontro, dimora di Dio fra gli israeliti durante la loro peregrinazione per il deserto, nella prima epoca di Israele (Es 33,7-10), e rimpiazzata più tardi dal santuario di Gerusalemme (2Sam 7,1-13; 1Re 5,15-19; 6,1ss.). Quella presenza di Dio è ormai sostituita da questa: la tenda di Dio, il luogo dove egli abita in mezzo agli uomini, è un uomo, una «carne» (J.Mateos – J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni. Analisi linguistica e commento esegetico, Cittadella Editrice, Assisi 20165,p.63).

[3] Ireneo di Lione, Adversus haereses, III, 19,1: PG 7,939.

[4] Atanasio di Alessandria, De Incarnatione, 54,3: PG 25,192.

[5] Tommaso d’Aquino, Officium de festo corporis Christi, Ad Matutinas, In primo Nocturno, Lectio 1.

[6] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 389.

[7] È insegnamento ormai della Chiesa quello riguardante i doni preternaturali (integrità, immortalità, impassibilità, scienza infusa) e il dono soprannaturale (grazia santificante), come riportato nel Catechismo Maggiore di san Pio X, n. 57. L’armonia che vi fu in questo stato di grazia e la partecipazione alla vita divina è chiamata «santità originale» (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 375).

[8] Tommaso d’Aquino, Compendio di teologia, I, cc. 198-200.


domenica 13 novembre 2022

L'ADESIONE NARCOTIZZATA ALLA SEDUZIONE NARCOTIZZANTE

 


Spesse volte si leggono titoli che difficilmente sono riconducibili al contenuto dell’articolo e ciò costituisce un grave errore, ma non credo sia questo il caso, dal momento che si cercherà di spiegare non solo ogni parola del titolo in questione ma anche l’ordine, dacché anche questo è importante. Il materiale è importante (le parole), ma poi occorre che vi sia un certo ordine. L’ordine delle parole è importante poiché rimanda all’intenzione dell’autore, a ciò che l’autore vuole comunicare e in che modo intenda farlo, e sono sicuro che già si possa scorgere il modo polemico col quale intendo proseguire, obbligatoriamente senza risparmio. Forse sarò più lungo del solito, ma doverosamente.

Prima di iniziare vorrei riportare un passo del Catechismo della Chiesa Cattolica, In quanto sarà indispensabile per quel che seguirà:

 

La dottrina del peccato originale è, per così dire, «il rovescio» della Buona Novella che Gesù è il Salvatore di tutti gli uomini, che tutti hanno bisogno della salvezza e che la salvezza è offerta a tutti grazie a Cristo. La Chiesa, che ha il senso di Cristo, ben sa che non si può intaccare la rivelazione del peccato originale senza attentare al mistero di Cristo (n. 389).

 

Sono parole che non avrebbero bisogno di spiegazione, ma certamente richiedono, o meglio, pretendono lunga riflessione. Infatti, non è possibile trattare del mistero di Cristo e ignorare la colpa d’origine (peccato originale), così come non è possibile considerare la colpa d’origine all’infuori del mistero di Cristo, dal momento che è Cristo che ci illumina fino in fondo al riguardo (cfr. Rm 5,12-21).

Non è questa la sede per trattare del peccato originale e delle sue sfaccettature, non è l’intenzione dell’articolo, ma non poche volte si assiste ad una sorta di disagio da parte di cristiani (cattolici) nell’affermare che davvero vi sia stata una colpa d’origine. Un disagio tale da considerare quel brano di Gen 3,1-24 come se fosse solo un modo per raccontare alcune cose; una storiella posta per rispondere alla sofferenza umana; un modo per dire all’uomo che deve stare al suo posto; un tentativo religioso per spiegare il male nel mondo, non tanto distante da altri racconti di altre religioni; un modo per dire che la donna sbaglia sempre e roba di questo tipo. Insomma, oggi più che mai con difficoltà si ammette l’esistenza di una colpa d’origine, sfociando nei famosi «modi di dire» e nell’ostinazione al riferimento «puramente simbolico», ignorando cosa sia il «simbolo», che non è fantasia (ne ho parlato qui). Ora, dacché il tono dell’articolo è polemico e non vale il cosiddetto politicamente corretto, vorrei precisare non è possibile essere cristiani – meno che mai cattolici – senza credere a quanto esposto sopra. Il testo è chiaro: non si può intaccare la rivelazione del peccato originale senza attentare al mistero di Cristo. Mi dispiace, ma oggi come oggi pochissime parole vengono spese su questo argomento, che è fondamentale e chi ha il dovere di parlarne lo faccia. Se non vi è chiarezza su questo, come ci si rapporterà al Natale, alla Pasqua, alla Bibbia (Antico e Nuovo Testamento), alla Chiesa e alla sua storia, al Sacrificio Eucaristico (la Messa), alla Beata Vergine Maria, al mistero del male, alla salvezza in Cristo, alla vita futura ecc.?

Ed ecco che in maniera deplorevole e sottilmente ordinata il servizio televisivo propone tre pubblicità che a mio parere risultano oscene, oltre a mostrare l’enorme superficialità o l’enorme malizia di chi mira allo sradicamento di due verità fondamentali per il cristiano: il peccato originale e il mistero di Cristo nell’istituzione dell’Eucaristia. Queste le pubblicità, per poi passare alla doverosa nota polemica.







Cercherò di spiegare ogni parola del titolo in riferimento a queste cose esecrabili. Tuttavia, voglio precisare che non si tratta di chiusura nei confronti dell’espressione, ovvio, ma in questo caso mi pare che si sia giunti pubblicamente a un passo dall’oscenità. La dimensione religiosa dell’essere umano, qualunque essa sia, non può non godere di rispetto. Riguarda l’essere umano nella sua intimità.

 

- «Adesione»: con tale termine non si vuole indicare soltanto il contatto tra due cose, ma anche l’aver prestato il proprio assenso alla volontà altrui. Questo assenso è rivolto a quella volontà che si pone come negazione di Dio (cfr. 1Gv 2,22-23).

 

- «Narcotizzata»: l’adesione avviene in uno stato di anestesia intellettuale, subìta o cercata consapevolmente. Non può essere altrimenti, dal momento che gli argomenti circa il peccato originale e l’istituzione della santa Eucaristia hanno impegnato menti eccellenti e consentito di far scorrere fiumi di inchiostro. Altro che storielle raccontate per tenere nel sonno le menti, è vero il contrario, ossia l’abbandono di certi argomenti ha condotto a quella riduzione intellettuale che appare in tutta la sua evidenza (ad esempio il fatto che oggi vi sia un dominio della tecnica che conduce a considerare quasi esclusivamente il prodotto avente come fine il solo consumo nell’assoluta immanenza). Si pensi a quel mirabile incontro tra la filosofia e la teologia nel mistero dell’Eucaristia (ciò che avviene con la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo si chiama transustanziazione): partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, [i fedeli] offrono a Dio la Vittima divina e se stessi con Essa (Conc. Vat. II, Lumen gentium, n. 11). Si pensi al significato del termine persona e sulla importanza di tale termine, il quale non si capirebbe pienamente se si ignorassero i primi concilî della Chiesa. Si pensi alla grande difficoltà odierna di riconoscere il bene, il vero, il bello, riducendoli solo a ciò che appare nella pura successione inconsistente di fenomeni, con la quasi impossibilità di ricondurli alla ricchezza dell’essere come loro principio e fine, di quell’essere conferito in modo partecipativo da Colui che non presenta composizione alcuna e che è il reale principio di ogni essere, di ogni bene, di ogni verità, di ogni bellezza, dal momento che è l’Essere per sé sussistente. Non solo, poiché l’amore stesso in Dio è sussistente e sarebbe vano cercare all’infuori di Dio il fondamento della capacità di amare dell’uomo. Proprio per quanto riguarda l’amore ci si renderà conto che sempre più avanzano descrizioni dello stesso, o meglio, di alcuni aspetti, ma non definizioni.

 

- «Seduzione»: interessante questa parola, in quanto vuol dire conduzione a sé («sedurre» da se-ducere, ossia condurre a sé), non intesa esclusivamente nel campo affettivo. Infatti, si intende anche l’azione di condurre a sé per distogliere l’altro dal compiere il bene, per separarlo dal compiere il bene o ciò che dovrebbe. Ed è su questo senso che ci si soffermerà.

Il testo biblico riporta ciò che Eva rispose a Dio: «il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato» (Gen 3,13).

Senza entrare in particolari molto interessanti ma che richiederebbero troppo spazio, è possibile notare che l’«inganno» segue quell’atto di «conduzione a sé» da parte del serpente, che in ultimo separa Eva – e con ella Adamo – da Dio. Il punto è che i progenitori non potevano cadere in «inganno» nel vero senso della parola, se per inganno si intende un raggiro, un condurre in errore o cercare di far credere vere le cose che sono false e viceversa, dal momento che i progenitori non erano ignorantelli, come spesse volte vengono presentati in merito a questo evento, in quanto non soggetti ad ignoranza. La scelta fu consapevole e la «seduzione» del serpente non ha fatto altro che spingere ulteriormente a commettere esternamente ciò che poi è stato commesso, volontariamente, ma già a partire dall’interno (peccato interno), per cui il credere alle parole del serpente e il commettere quel peccato, non sarebbe stato possibile se prima non vi fosse stato l’amore del proprio potere e una superba presunzione di sé (cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 94, 4; Ibid. ad 1). Ed ecco l’anomalia: la scelta di un bene transitorio, il cui fondamento risiede in Colui che è il Bene sussistente, al posto dello stesso Bene sussistente dal quale deriva il bene. Anomalia che si fonda sulla superbia, ossia il considerare solo la propria eccellenza, una sorta di ripiegamento su se stessi.

Come è possibile notare, la questione è molto profonda e ci sarebbe tanto altro da aggiungere, ma è chiaro che un argomento come questo non può essere oggetto di scherno.

 

- «Narcotizzante»: in tal caso la seduzione ha effetto narcotizzante, dal momento che – mi dispiace per la durezza, ma il tono è polemico – si ha uno svuotamento anzitutto intellettuale, tale da portare a promuovere messaggi pubblicitari come quelli sopra. Ma lo svuotamento non è solo intellettuale, dato che coinvolge tanti aspetti dell’uomo, compreso quello della riverenza.

È davvero interessante quanto il genio di C.S. Lewis mette in bocca a Berlicche, tutto intenzionato ad istruire il nipote Malacoda: «È buffo che i mortali ci rappresentino sempre come esseri che mettono loro in testa questa o quella cosa: in realtà il nostro lavoro migliore consiste nel tenere le cose fuori dalla loro testa» (C.S. Lewis, Lettere di Berlicche, trad. A. Castelli, Mondadori, Milano 2015, p. 20. Titolo originale: The Screwtape Letters). Effetto narcotizzante.

 

Tirando le somme, risulta chiaro il messaggio ultimo: proposta ridicolizzata di Dio conducente all’adesione vuota e negatrice di Dio, ossia il dolce avvelenamento. Cosa ne consegue? Semplice: l’adesione al nulla, ossia all’imperfezione assoluta. Senza troppi giri di parole, si tratta di un vero messaggio anticristico, nei confronti del quale non è possibile restare imperturbabili. Ciò interpella chi sta scrivendo proprio perché membro della Chiesa per mezzo del Battesimo, per cui ritengo doverosa la polemica a difesa di verità fondamentali per la vita cristiana. Inoltre, e non so se vi sia consapevolezza o meno, queste oscenità intaccano soprattutto la dignità umana – Dio non è soggetto di mutazione ontologica –, dal momento che l’uomo ha ragione di ritenersi superiore a tutto l’universo, a motivo della sua intelligenza, con cui partecipa della luce della mente di Dio (Conc. Vat. II, Gaudium et spes, n. 15). Pertanto, la grandezza dell’uomo è in riferimento a Dio, altrimenti ci sarà sempre quel ripiegamento che oggi comporta l’essere assoggettati a se stessi, o peggio, ai prodotti delle proprie mani, delle mani dell’uomo (cfr. Sal 115). Ma questa non è libertà e la visione cristiana mira all’innalzamento, non all’abbassamento. Tra i tanti aspetti fondamentali dell’Incarnazione, vi è anche la manifestazione della dignità umana: mentre mediteranno tutto ciò, i fedeli non dimenticheranno che Dio volle sottostare all’umile fragilità della nostra carne, affinché il genere umano fosse innalzato al più alto livello della dignità (Catechismo Tridentino o Romano, n. 51). Dio non può essere attaccato, dal momento che è Dio, ma l’uomo può esserlo e in tal caso nel suo nucleo: lo smarrimento di Dio comporta anche lo smarrimento dell’uomo.


Gabriele Cianfrani 


domenica 21 agosto 2022

PROFESSIONE DI FEDE: IL CREDERE DI UNO, IL CREDERE DI MOLTI


 

Nel nostro linguaggio vi sono alcune parole che inevitabilmente godono di importanza maggiore rispetto ad altre. Vi sono parole che rimandano alla propria identità, parole che esprimono ciò che noi siamo e ciò a cui tendiamo. Tra queste ve ne sono alcune molto precise, che esprimono pienamente l’identità cristiana (cattolica), ossia le parole del «Credo», del «Simbolo degli Apostoli» o del «Simbolo Niceno-Costantinopolitano». Nel contesto liturgico si tratta di quel momento, importantissimo, che è la «professione di fede».

Cerchiamo di riportare, in modo generale, la struttura della Messa (le singole parti), chiamata anche Celebrazione Eucaristica e in altri modi. Lo si farà seguendo l’Ordinamento Generale del Messale Romano (OGMR), che si può trovare facilmente sul sito www.vatican.va.

 

A) Riti di introduzione

            - L’introito

            - Saluto all’altare e al popolo radunato

            - Atto penitenziale

            - Kyrie eleison

            - Gloria

            - Colletta

 

B) Liturgia della Parola

            - Il silenzio

            - Le letture bibliche

            - Il salmo responsoriale

            - L’acclamazione prima della lettura del Vangelo

            - L’omelia

            - La professione di fede

            - La preghiera universale

 

C) Liturgia eucaristica

            - La preparazione dei doni

            - L’orazione sulle offerte

            - La Preghiera eucaristica

            - Riti di Comunione

            - Preghiera del Signore

            - Rito della pace

            - Frazione del pane

            - Comunione

 

D) Riti di conclusione

 

È chiaro che ogni momento liturgico richiederebbe di essere trattato, per cui si rimanda direttamente all’OGMR, il quale è davvero uno strumento da utilizzare per la guida e per l’approfondimento liturgico.

Ciò che in questa sede interessa è la «professione di fede». Vediamo come si esprime l’OGMR:

 

67. Il simbolo, o professione di fede, ha come fine che tutto il popolo riunito risponda alla parola di Dio, proclamata nella lettura della sacra Scrittura e spiegata nell’omelia; e perché, recitando la regola della fede, con una formula approvata per l’uso liturgico, torni a meditare e professi i grandi misteri della fede, prima della loro celebrazione nell’Eucaristia.

68. Il simbolo deve essere cantato o recitato dal sacerdote insieme con il popolo nelle domeniche e nelle solennità; si può dire anche in particolari celebrazioni più solenni.

Circa il «simbolo» in sé si rimanda all’articolo scritto in merito (qui).

L’attenzione si sposta sul fatto che la professione di fede ha come fine che tutto il popolo riunito risponda alla parola di Dio, proclamata nella lettura della sacra Scrittura e sul fatto che il popolo stesso professi i grandi misteri della fede. Non solo, dal momento che ciò deve essere fatto prima della loro celebrazione nell’Eucaristia.

Ovviamente, poiché nell’Eucaristia tutto si compendia, dato che l’Eucaristia è fonte e apice di tutta la vita cristiana (Conc. Vat. II, Lumen gentium, n. 11), per cui non è possibile dirigersi «intenzionalmente» verso ciò che non si conosce; e se non vi è conoscenza non può esservi neanche l’adesione, il credere, la professione di fede. Pertanto, occorre che la professione di fede sia fatta prima della celebrazione nell’Eucaristia.

Non è il caso di sollevare polemiche, ma fin troppo spesso si assiste ad un atteggiamento a dir poco dissacrante nei confronti dell’Eucaristia, senza contare la quasi totale trascuratezza nei confronti dei sacramenti in generale.

Ora, giunto il momento della professione di fede, ognuno la esprime singolarmente. Ma ciò resta confinato in questa singolarità? Viene in mente un passo del libro dell’Esodo:

 

Al terzo mese dall'uscita degli Israeliti dalla terra d'Egitto, nello stesso giorno, essi arrivarono al deserto del Sinai. Levate le tende da Refidìm, giunsero al deserto del Sinai, dove si accamparono; Israele si accampò davanti al monte. Mosè salì verso Dio, e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: "Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: "Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all'Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatto venire fino a me. Ora, se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa". Queste parole dirai agli Israeliti". Mosè andò, convocò gli anziani del popolo e riferì loro tutte queste parole, come gli aveva ordinato il Signore. Tutto il popolo rispose insieme e disse: "Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!". Mosè tornò dal Signore e riferì le parole del popolo. Il Signore disse a Mosè: "Ecco, io sto per venire verso di te in una densa nube, perché il popolo senta quando io parlerò con te e credano per sempre anche a te" (Es 19,1-9).

 

Precisando che questo passo biblico presenta elementi tali da non poterli nemmeno accennare, a causa della loro vastità, oltre a rintracciare passi biblici accostabili, è comunque possibile prenderne alcuni. Non a caso li ritroviamo nella prima lettera di Pietro e nel libro dell’Apocalisse:

 

Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa. Un tempo voi eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio; un tempo eravate esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia (1Pt 2,9-10);

 

"Tu sei degno di prendere il libro
e di aprirne i sigilli,
perché sei stato immolato
e hai riscattato per Dio, con il tuo sangue,
uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione,
e hai fatto di loro, per il nostro Dio,
un regno e sacerdoti,
e regneranno sopra la terra" (Ap 5,9-10).

 

Tralasciando altri passi biblici e ricerche particolari (es. se il sacerdozio stesso sia regale o se il sacerdozio risulti accanto al regno, o se il regno sia costituito da sacerdoti, in questo caso il riferimento sarebbe soprattutto al sacerdozio battesimale), emerge il contesto «ecclesiale», per cui risalta il famoso passo del Vangelo secondo Matteo:

 

E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa [καὶ ἐπὶ ταύτῃ τῇ πέτρᾳ οἰκοδομήσω μου τὴν ἐκκλησίαν – et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam] e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa (Mt 16,18).

 

Ed ecco che Pietro non può essere considerato scisso dalla ἐκκλησία (ekklēsía), ossia dalla Chiesa e viceversa. Così come Mosè non può essere considerato scisso dal popolo d’Israele e viceversa, dal momento che l’evento del Sinai è fondante, in quanto al capitolo successivo (c. 20) Dio pronuncia le sue parole (nel contesto dell’Alleanza) e Mosè parla al popolo comunicando le parole (דְּבָרִים) di Dio (Cfr. Es 20,18-21). Ma il fondamento ultimo non è né Mosè né Pietro, bensì Dio, e il Verbo è consostanziale al Padre ed è da prima che Abramo fosse (Cfr. Gv 8,58). Colui che fonda la Chiesa è Dio stesso, poiché è «sua»!

Dacché la parola ἐκκλησία (ekklēsía) viene adoperata per tradurre quella ebraica קהל (qahal), la parola Chiesa vuol dire «chiamata di Dio», «convocazione da parte di Dio». Non è l’uomo che prende l’iniziativa, ma Dio.

Ora, precisando che la parola «liturgia» deriva da λέιτον (leiton) έργον (ergon), che significa «opera pubblica» (dal latino publicum opus), il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) riporta quanto segue:

 

«Io credo»: è la fede della Chiesa professata personalmente da ogni credente, soprattutto al momento del Battesimo. «Noi crediamo»: è la fede della Chiesa confessata dai Vescovi riuniti in Concilio, o, più generalmente, dall’assemblea liturgica dei credenti. «Io credo»: è anche la Chiesa, nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire: «Io credo», «Noi crediamo» (CCC, n. 167).

 

 

Pertanto, quell’«io credo» è sempre inserito nel «noi crediamo», per il semplice fatto che quell’«io» rientra nel «noi» che è il popolo di Dio che Dio stesso ha convocato e che si chiama «Chiesa». La professione di fede riguarda il singolo inserito nella comunità dei credenti, nel popolo di Dio, in quella proprietà particolare che si chiama «Chiesa».

 

Per questo motivo la vera e sola identità del cristiano (cattolico) risiede nella professione di fede, la quale non può non essere oggetto di meditazione e riflessione. Sarebbe davvero urgente richiamare l’attenzione sulle parole della professione di fede, sulle parole del Credo (Apostolico e/o Niceno-Costantinopolitano). Al riguardo, si cercherà di scrivere altri articoli sul Credo, attingendo dal bellissimo commento di san Tommaso d’Aquino al medesimo, oltre all’atto di fede e alla sua ragionevolezza. 



Gabriele Cianfrani 

 


martedì 16 agosto 2022

CAUSALITA' FINALE O FINE CASUALE? UNA QUESTIONE IMPERITURA

 



La questione imperitura circa la «causalità finale» o il «fine casuale» sembra essere davvero tale, dal momento che ancora oggi si propongono dibattiti al riguardo, i quali risultano non poco interessanti. Ma bisogna riconoscere che rispetto al passato si verifica una certa propensione ad accogliere la seconda posizione, ossia il «fine casuale», nel senso che l’esistenza, non solo umana, non abbia «un fine» ma semplicemente «una fine».

Non si tratta di giochi di parole, o meglio, si tratta di considerare le parole per l’importanza che hanno, soprattutto quando si tratta di argomenti che richiedono una terminologia ben precisa. L’uso improprio di tante parole o lo scorretto accostamento di precise parole ha condotto ad una vera e propria confusione nella comunicazione, non è il caso di nasconderlo. Si richiedono esempi? Nessun problema: «abbiamo creato un’azienda»; «sono tempi apocalittici»; «Tizio è più umano di Caio»; «non va bene questa speculazione»; «non è un confronto equo, è come se si confrontassero Davide e Golia [commiserando il piccolo Davide, nonostante nel racconto biblico abbia vinto proprio lui]»; «il semaforo o la chiave intelligente» ecc. Si potrebbe continuare, ma l’anomalia è evidente.

Tornando alle due posizioni della questione, ciò che potrebbe permettere di apportare chiarimenti decisivi, pare essere il discorso sulla «causalità». Tale discorso implica necessariamente il campo filosofico, in particolar modo quello metafisico, in quanto l’indagine è soprattutto metafisica, mirante alla risoluzione nelle cause ultime o prime.

Ora, il rifiuto nei confronti del discorso metafisico, spesse volte domina indisturbato. Senza fare nomi, vi sono autori che rigettano del tutto la speculazione metafisica in favore di quella che definiscono scientifica, sfociando in una vera e propria riduzione del concetto di «scienza», il quale è molto più ampio dell’esperimento. Inoltre, il rifiuto si presenta non con argomenti metafisici o, nel caso della sacra teologia, con argomenti teologici, ma con argomenti estranei ad entrambe le discipline, distorcendole tremendamente.

Molto brevemente, dal momento che il subiectum della metafisica (ciò su cui verte la ricerca) è l’ente in quanto ente (non in quanto è tale, ad esempio un gatto, ma in quanto è ente), l’indagine riguarda sia i princìpi intrinseci e costitutivi dell’ente sia i princìpi estrinseci dell’ente. La prima indagine prende il nome di resolutio secundum rationem (interna all’ente); la seconda prende il nome di resolutio secundum rem (esterna all’ente). Quando l’indagine resta confinata all’interno dell’ente si avrà la resolutio secundum rationem, ma dato che la metafisica parte da ciò che è fondato per arrivare a ciò che è fondante, ossia dall’effetto alla causa e soprattutto alla causa ultima, a ragione si può dire che è risolutiva. Pertanto, il punto di partenza è l’ente ma il punto di arrivo è il fondamento dell’ente.

L’ente si definisce come ciò che è (id quod est), per cui esercita fortemente l’essere e gode di consistenza ontologica. Quali sono le caratteristiche dell’ente? Anzitutto riscontriamo che l’ente gode di determinatezza, ossia non solo è un soggetto ma un soggetto ben preciso, il cui contenuto è appunto determinato (il gatto non è solo un animale, ma è gatto; la tigre non è solo un animale o un felino, ma è tigre). Inoltre, riscontriamo anche il fatto di essere separato, per cui l’ente non ha bisogno di altro per essere, poiché gode di autonomia ontologica. E certamente ciò che traspare con forza è  la sussistenza. Perciò, l’ente è qualcosa di sussistente, determinato, separato.

La metafisica può indagare sulla tigre, sul libro, sull’albero di ulivo ecc., considerando la tigre, il libro, l’albero di ulivo in quanto enti con le caratteristiche sopra riportate, non dal punto di vista biologico, biofisico, chimico, botanico ecc. Da ciò si evince che la ricerca si pone su altri piani e adotta un lessico diverso. Questo è importante, poiché il termine «accidente» non ha lo stesso significato in metafisica, in medicina e in musica.

A questo punto si capisce che l’indagine metafisica non mira alla scomposizione delle cose o di arricchire la tavola periodica degli elementi, bensì di giungere al fondamento dell’ente. Poiché l’ente è ciò che è, esprimendo in senso forte l’essere, la ricerca metafisica non può non guardare all’essere dell’ente, al suo fondamento, e in ultimo alla «causa» dell’essere dell’ente.

Il discorso in merito alla «causa», in merito alla «causalità», implica anzitutto la dipendenza nell’essere o nel modo di essere di ciò che è causato da ciò che è causa. Si tratta della costituzione dell’ente.

Per quel che riguarda le divisioni della causa, secondo il modo di esercizio e i generi, considerando la questione, l’attenzione si sposta sulla divisione secondo i generi. Tali sono quelli aristotelici, ripresi anche da san Tommaso d’Aquino, e sono generi supremi di causalità:

1) Causa materiale; 2) Causa formale; 3) Causa efficiente; 4) Causa finale.

Vi sarà modo di tornare su tutte le cause, ma quella che per il momento richiede attenzione è la causa finale, ossia ciò in virtù della quale una cosa viene fatta.

Ora, senza andare per le lunghe e senza scrutare profondamente la causalità finale – lo si farà in altra sede –, se mancasse il «bene» non vi sarebbe causa finale, ossia non vi sarebbe azione alcuna che abbia un «fine», dal momento che il fine non può non avere carattere di «bontà». La causa finale è la causa delle cause, dacché ciò che si compie deve essere prima nell’intenzione e poi nell’esecuzione. Certo, ciò suppone la natura intellettiva che possa intendere il fine, ma anche gli altri enti – che non siano persone umane o angeliche o Dio stesso – godono di un fine naturalmente, ad esso sono diretti. Vi sono, infatti, agenti per ragione e agenti per natura. Che la rondine non si prefigga dei fini intenzionali è chiaro, ma essa è comunque diretta ad un fine – già i bellissimi nidi di rondine fanno trasparire ciò, oltre alle meravigliose api e al mondo cellulare –, così come altri enti naturali che non hanno natura intellettiva. Non vi è un’azione che abbia come fine, naturalmente o intellettualmente, il male. Certo, l’essere umano è capace di azioni malvagie, tanto malvagie che a volte non si trovano spiegazioni soddisfacenti, ma questo chiama in campo altre discipline.

Vi sarebbero altre cose da aggiungere, ma è comunque possibile considerare il «fine casuale» come alquanto fragile, poiché se vi fosse la casualità come fondamento non avremmo possibilità né di agenti per ragione né di agenti per natura, che non trova riscontro nella realtà.

Ricordo che durante una lezione del corso di laurea in professioni sanitarie, trattando alcuni aspetti di anatomia e di fisiologia umana, il professore affermò che il fine degli esseri umani consiste nella nutrizione e nella riproduzione, per fare in modo che la specie continui… Mi domando come mai in quel momento egli stesse insegnando, dal momento che l’insegnamento non rientra tra questi fini.

Non è un caso che spesse volte si parli di «ecosistema», il quale non è casuale, altrimenti non si potrebbe parlare di «sistema» nel vero senso della parola. Ma qualora si propendesse ugualmente non per la causalità ma per la casualità, questa non potrebbe esser tale se non vi fosse una causa. Ora, osservando la realtà nella quale siamo immersi, possiamo constatare che vi sono eventi casuali ed eventi che scaturiscono in seguito ad una causa ben precisa. Non solo, in quanto anche per l’essere umano è così: apro il libro per leggere un determinato argomento (intenzionale) e proprio in quel momento si strappa la pagina (non intenzionale). Lo strappo della pagina è avvenuto per caso, ossia non rientrava nella mia intenzione (praeter intentionem), ma ciò non sarebbe avvenuto se fosse mancata la causa finale, ossia la lettura dell’argomento che mi ha condotto ad aprire il libro, oltre alla causa efficiente. Questo esempio, quello dello strappo (praeter intentionem), rimanda ai modi di esercizio della causa.

Insomma, dopo tutte queste parole, la domanda è la seguente: vi è un fine o la semplice fine?

Le parole sono identiche, ma il significato è radicalmente diverso.

Semmai vi fosse una semplice fine, ci troveremmo nella totale contrarietà, dal momento che ogni essere umano – lo notiamo soprattutto nella società occidentale – si adopera per il raggiungimento di uno scopo, di un fine che va al di là di quello puramente fisiologico. Nel caso di altri enti, cioè quelli di natura non intellettiva, pur non proponendosi un fine sono comunque condotti ad un fine, vi è una sorta di indirizzamento naturale, che non è casuale! Non si tratta di riscontrare, nella realtà, eventi che si verificano in maniera ritmicamente perfetta come se ci trovassimo al Luna Park, ma l’indirizzamento ad un fine di quegli enti che non si propongono un fine intenzionale e di quegli enti si propongono un fine intenzionale.

Cosa si vuole esprimere? Si vuole esprimere che il discorso circa la causalità non è la pura concatenazione di eventi o non solo questo, ma un discorso che dovrebbe essere trattato in maniera tale da chiamare in causa altre discipline. In aggiunta, sono fermamente convinto che i drammi di oggi, siano essi umani, ecologici, sociali ecc., non potranno essere superati nella triste realtà del rifiuto del fondamento ultimo, che richiede speculazioni ben precise, scienze ben precise e che non possono essere rifiutate, pena l’impoverimento dell’uomo stesso.

Concludendo, il «fine casuale» gode di contrarietà intrinseca, poiché la mancanza di una causa comporta la mancanza del caso e la mancanza di un effetto verificatosi casualmente. La ricerca sulla causalità è quanto mai importante, ancor più la ricerca sulla «Causa prima».


Gabriele Cianfrani 

mercoledì 29 giugno 2022

29 GIUGNO - SOLENNITA' DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

 



In questo giorno in cui si celebra la solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, due figure estremamente determinanti per la Chiesa, occorre riportare alcuni brani biblici che certamente esprimono tale grandezza.

 

«Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen» (2Tm 4,6-8.17-18).

 

Il brano è tratto dalla seconda lettera a Timoteo, la quale è definita da alcuni studiosi come deuterocanonica o discussa. Sebbene le lettere di san Paolo, ossia il «corpus paulinum», si trovi già nel «Canone Muratori/muratoriano» (sec. II d.C.), vi sono alcune lettere sulle quali sono condotti studi accurati per valutare una sorta di canonicità discussa e/o indiscussa. Dal momento che il canone biblico definitivo è stato stabilito nel Concilio di Trento (1545-1563), e tale canone è appunto normativo per il fedele, la ricerca biblica non può non continuare. Da ricordare il fatto che è la Tradizione divino apostolica ad illuminare sulla canonicità dei testi sacri, non una decisione arbitraria. Cos’è la Tradizione apostolica? Lo dice chiaramente la costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione, ossia la Dei Verbum:

«Cristo Signore […] ordinò agli Apostoli che l’Evangelo, prima promesso per mezzo dei Profeti e da Lui adempiuto e promulgato di persona, come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale lo predicassero a tutti, comunicando i doni divini. Ciò venne fedelmente eseguito, tanto dagli Apostoli, i quali nella predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalle labbra, dalla frequentazione e dalle opere di Cristo, sia ciò che avevano imparato per suggerimento dello Spirito Santo, quanto da quegli Apostoli e da uomini della loro cerchia, i quali, per ispirazione dello Spirito Santo, misero in scritto l’annunzio della salvezza. Gli Apostoli poi, affinché l’Evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono come loro successori i Vescovi, ad essi “affidando il loro proprio posto di maestri”. […] Pertanto, la predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva esser conservata con successione continua fino alla fine dei tempi» (nn. 7-8).

 

Ciò è estremamente importante, soprattutto perché questa «trasmissione» è anche liturgica, come attesta lo stesso san Paolo nel racconto dell’istituzione dell’Eucaristia: «Io ho ricevuto dal Signore quello che vi ho trasmesso: che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito […]» (1Cor 11,23).

 

Tornando alla seconda lettera a Timoteo – le due lettere a Timoteo e quella a Tito sono chiamate «lettere pastorali» –, si ritiene che risalga verso la fine dei giorni terreni dell’Apostolo, ossia durante la prigionia romana tra il 61 e il 63 d.C. San Paolo dice esplicitamente che ha conservato la fede (τὴν πίστιν τετήρηκα). Di quale fede sta parlando? Certamente si tratta di una fede non naturale, ma soprannaturale, quella chiameremmo «virtù teologale». Si tratta di fermezza nel credere, di uno stato di adesione (πίστις, che rimanda all’ebraico אמן), che in tal caso non è possibile senza l’aiuto di Dio. Ciò mostra che la fede deve essere vissuta, o meglio, vivere ciò che si crede mediante la fede, per cui occorre esercitarla e conservarla intatta. Ma ecco il passo importante, ossia il fatto che il Signore gli è stato vicino e gli ha dato forza. Sì, perché credere soprannaturalmente e combattere per ciò che si crede in tal modo, non risiede nelle sole forze umane, ma nell’aiuto divino. Questo esige una risposta, una collaborazione umana, dal momento che la «fede» in quanto tale consta dell’aspetto divino e dell’aspetto umano. Pertanto, non è possibile continuare con le solite espressioni, come del tipo: «beato te che credi; beato te che hai la fede…». Cioè?

Circa la fede intesa anche biblicamente si può cliccare qui.

Ci sarebbe tanto altro da scrivere, bisogna fare il collegamento con un altro brano biblico, che vede come protagonista san Pietro:

 

«Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarèa di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?” Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Voi chi dite che io sia?”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,13-19).

 

Tale brano è fondamentale dal punto di vista ecclesiastico e ci sarebbero tantissime cose da scrivere al riguardo, cosa che sarà fatta doverosamente in altra sede, ma per il momento occorre sottolineare il tratto di continuità col brano precedente. In tal caso, alla domanda che Gesù rivolge a tutti i discepoli, solo san Pietro risponde, e lo fa correttamente. La riposta di san Pietro non deriva dalle forze umane, ma da quella divina che lo ha portato ad affermare che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Riconoscere Gesù come il Cristo, ossia come il Messia, aveva una portata immensa per quel tempo. La parola greca Χριστὸς traduce l’ebraico משיח, che vuol dire «unto», ma che in questo caso sta ad indicare «l’Unto» del Signore per eccellenza. Dal momento che san Pietro ha riconosciuto Gesù come l’Unto per eccellenza, lo ha riconosciuto come il Messia. Non solo, in quanto ciò non lo ha fatto da sé, ma in seguito alla rivelazione del Padre che sta nei cieli. Poiché la «fede» opera sulla potenza intellettiva, così da poter condurre l’intelletto umano a conoscere e a credere ciò che lo supera, la rivelazione del Padre ha permesso a san Pietro di conoscere soprannaturalmente, in modo tale da riconoscere in Gesù il Messia, il Cristo, l’Unto di Dio. Ciò che è importante, e san Pietro lo testimonia, è che la fede soprannaturale derivante dalla grazia suppone la natura umana, non si sostituisce ad essa né l’annulla.

Pure in questo caso traspare il doppio aspetto della «fede»: divino e umano (et-et), così come precisamente riporta il Catechismo della Chiesa Cattolica:

Quando san Pietro confessa che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente, Gesù gli dice: «Né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (Mt 16,17). La fede è un dono di Dio, una virtù soprannaturale da lui infusa. «Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre, e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muove il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia “a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità”» (n. 153). È impossibile credere senza la grazia e gli aiuti interiori dello Spirito Santo. Non è però meno vero che credere è un atto autenticamente umano. Non è contrario né alla libertà né all’intelligenza dell’uomo far credito a Dio e aderire alle verità da lui rivelate. Anche nelle relazioni umane non è contrario alla nostra dignità credere a ciò che altre persone ci dicono di sé e delle loro intenzioni, e far credito alle loro promesse […]. Nella fede, l’intelligenza e la volontà umane cooperano con la grazia divina (nn. 154-155).

 

Tutto ciò è enormemente espresso nei santi Apostoli Pietro e Paolo, vere e proprie colonne portanti della Chiesa di Dio.



Gabriele Cianfrani