La prima lettura di Domenica 2 aprile (2023) è tratta
dal libro di Isaia e il passo è uno dei cosiddetti «carmi del Servo» del
Signore o «canti del Servo» del Signore, che in tutto sono quattro: Is 42,1-4;
49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12. In questo caso il riferimento è al secondo:
Il Signore
Dio mi ha dato una lingua da discepolo,
perché io
sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.
Ogni
mattina fa attento il mio orecchio
perché io
ascolti come i discepoli.
Il Signore
Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non
ho opposto resistenza,
non mi
sono tirato indietro.
Ho
presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie
guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho
sottratto la faccia
agli
insulti e agli sputi.
Il Signore
Dio mi assiste,
per questo
non resto svergognato,
per questo
rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di
non restare confuso (Is 50,4-7).
La prima lettura termina qui, nonostante gli altri
versetti. Ma ciò basta per trovare nel Vangelo secondo Matteo il riferimento a
questo canto di Isaia:
Allora
gli sputarono in faccia e lo percossero; altri lo schiaffeggiarono, dicendo:
«Fa’ il profeta per noi, Cristo! Chi è che ti ha colpito?» (Mt 26,67);
Sputandogli
addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo (Mt 27,30).
Quel che serve per far
capire è in che modo i testi profetici veterotestamentari siano stati compiuti
da Cristo, o meglio, come i testi veterotestamentari abbiano trovato compimento
in Cristo. Questo è molto importante, dal momento che Cristo è il Verbo di Dio
ed è tale prima che Abramo fosse, come si legge nel Vangelo secondo Giovanni:
«In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono» - «Ἀμὴν ἀμὴν λέγω ὑμῖν, πρὶν Ἀβραὰμ
γενέσθαι ἐγὼ εἰμί» - «Amen, amen dico vobis, antequam Abraham fieret,
ego sum» (Gv 8,58). Occorre prestare attenzione a quell’amen (si rimanda
a questo articolo).
Anzitutto Cristo non
afferma soltanto di essere prima di Abramo – già in questo vi è il rimando alla
sua divinità –, ma afferma «Io Sono». Non si tratta di una semplice
affermazione, dal momento che «Io Sono» è il nome che Dio rivelò a Mosè sul
monte Sinai: Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così
dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi”» (Es 3,14). Tale nome,
nella lingua ebraica, greca e latina risulta essere così: אֶהְיֶה֭ אֲשֶׁ֣ר אֶהְיֶ֑ה ; ἐγώ εἰμι ὁ ὤν; Ego sum qui sum. Il riferimento di Gesù al nome divino
risulta alquanto chiaro, oltre al fatto che si intravede quella profonda
intimità, tale che Egli e il Padre sono uno – Ego, et Pater unum sumus (Gv
10,30). Non si tratta affatto di quella posizione eretica conosciuta con il
nome di «modalismo», con quella particolarità in Oriente conosciuta col nome di
«sabellianismo» (lo stesso Dio, identificato col solo Padre, che si presenta
come tale, come Figlio e come Spirito Santo, dal momento che questi sono
semplici modi di presentazione, di apparire, e annullano la distinzione reale delle
relazioni tra le Persone della Trinità), ma di una assoluta intimità da
comportare che la distinzione tra le Persone della Trinità non riguardi la
sostanza ma le relazioni, che sono reali e in Dio sono sussistenti.
Ora, vi sono tanti altri passi dell’Antico Testamento, oltre ai quattro
canti del Servo, che prefigurano il Cristo (ad esempio Dt 18,15-19; 1Cr 17,13;
Sal 2; 22; 110; Ger 31,31-34; Ez 11,14,21; Zc 9,9-10 e altri, che in questa
sede non è possibile riportare, oltre ai vari studi che sono stati condotti
sulla letteratura sapienziale). Infatti, studiosi riportano alcune tradizioni
dell’Antico Testamento presenti nel Nuovo Testamento, come la tradizione legislativa,
profetico-messianica, sapienziale, ognuna delle quali presenta i
vari sviluppi. Senza andare per le lunghe, ciò che si vuole mettere in luce è
che le tradizioni dell’Antico Testamento, compresi quei passi sopra riportati, pur
essendo passi che sono collocati nel loro contesto storico, saranno letti a
partire dall’evento Cristo, o meglio, dalla realtà di Cristo risorto. E questo
è molto importante anche per capire il tipo di sacerdozio inaugurato da Cristo
e per quale motivo è superiore a quello di tipo levitico e addirittura lo
precede, cosa che viene messa in luce nella Lettera agli Ebrei, trattando anche
della novità del santuario e quale sia il vero sacrificio. Ciò che deve
emergere, soprattutto nella Settimana Santa, è il fatto che Cristo, Lógos eterno
di Dio, è il criterio di lettura dell’inizio e della fine e che il trionfo di
Cristo è totale, è compiuto.
Un grande studioso come Giuseppe Segalla riporta alcuni punti comuni che
emergono nel Nuovo Testamento in base all’uso dell’Antico Testamento, ne
riporto quattro:
1. Le tradizioni dell’A.T. sono lette a partire
dalla realtà attuale e vivente del Cristo, Signore risorto, con un processo di
reinterpretazione vitale e critica.
2. Perciò i motivi ed i modelli dell’A.T.
vengono accettati, ma criticati e superati. La critica e il superamento sono
dovuti ad un orientamento, che inizia già col Gesù terreno e che ha la sua
ragione in un compimento che supera l’attesa e la promessa. La persona di Gesù
rompe ogni schema.
3. L’interpretazione non è praticata in base a
regole fisse e scientifiche, ma con molta libertà; sia utilizzando il metodo
midrascico e rabbinico sia adattando i testi dall’A.T. alla nuova realtà
storica.
4. Il principio fondamentale che domina
l’interpretazione è quello escatologico, ossia quello del compimento in
Cristo dell’A.T.: della legge, di ciò che hanno preannunciato i profeti e
meditato i sapienti. In Cristo la storia della salvezza raggiunge il suo
compimento.
Il Segalla conclude che è Cristo Gesù che rende attuale l’A.T. per la
fede cristiana.[1]
Eloquente risulta essere l’inno ai vespri della Settimana Santa:
Ecco il vessillo della croce,
mistero di morte e di gloria:
l’artefice di tutto il creato
è appeso ad un patibolo.
Un colpo di lancia trafigge
Il cuore del Figlio di Dio:
sgorga acqua e sangue, un torrente
che lava i peccati del mondo.
O albero fecondo e glorioso,
ornato d’un manto regale,
talamo, trono ed altare
al corpo di Cristo Signore.
O croce beata che apristi
le braccia a Gesù redentore,
bilancia del grande riscatto
che tolse la preda all’inferno.
Ave, o croce, unica speranza,
in questo tempo di passione
accresci ai fedeli la grazia,
ottieni alle genti la pace. Amen.
La conferenza vespertina del sermone 18
(Germinet terra) di san Tommaso d’Aquino, che rimanda alla Esaltazione della
Croce, chiarifica il tipo di vittoria di Cristo e in che modo Egli vinse per
tutto il genere umano, cosa che oggi, purtroppo, rimane così implicita quasi da
scomparire. Ecco il passo estratto dal sermone dell’Angelico:
In primo luogo dico che l’albero della Croce è
adatto a essere il nostro rimedio in quanto corrisponde alla ferita. Il genere
umano venne ferito dall’albero, poiché il primo uomo mangiò dell’albero
proibito; e così la divina Sapienza ricavò dall’albero la medicina. Il genere
umano fu ferito dalla disobbedienza: infatti il primo uomo colse avidamente il
frutto dell’albero proibito; ed ecco che l’uomo nuovo quasi come frutto
salutare restituì se stesso all’albero. Perciò il Salmista (Sal 69
[68],5) dice: «Quanto non rapinai, io restituivo». Egli restituì se stesso
all’albero per ricompensare il danno e portare il rimedio; perciò Sap 14,7
dice: «È benedetto l’albero per mezzo del quale si compie la giustizia».[2]
Questo passo dell’Angelico è così profondo che
ogni (mio) commento risulterebbe una storpiatura, per cui preferisco lasciarlo
alla riflessione personale.
Gabriele Cianfrani
[1] G. Segalla, La cristologia del Nuovo Testamento,
Paideia Editrice, Brescia 1985, pp. 65-66.
[2] Tommaso
d’Aquino, I sermoni (Sermones) e le due lezioni inaugurali
(Principia), a cura di C. Pandolfi e P. Giorgio Maria Carbone O.P.,
Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2003, p. 276.
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