Il giorno di Pasqua si
manifesta in tutta la sua portata, in tutto il suo fascino anche a coloro che
si dichiarano non credenti o che professano altre fedi. Sì, inevitabilmente il
giorno di Pasqua rimanda a qualcosa. Ma a cosa? Ad una rinascita interiore o all’augurio
che le cose possano andare meglio? Ad un giorno trascorso in compagnia tra
balli e risate? Tutte cose lecite e buone, ci mancherebbe, ma la Pasqua del
Signore è altro. Non che le cose di contorno non vadano bene, ma occorre
afferrare il contenuto dell’evento pasquale ed è possibile farlo. Chiedo la
pazienza di leggere l’articolo interamente.
In realtà la vera fede
nasce dal sepolcro, da quel medesimo sepolcro nel quale era stato posto il
corpo di Gesù di Nazaret, il corpo di colui che fino a poco tempo prima si era
presentato come «la Vita» (Ego sum via, et veritas, et vita. Nemo venit ad
Patrem, nisi per me, come si legge in Gv 14,6-7). Domanda: in che modo la
morte può riguardare colui che si è presentato come la Vita? O meglio, per
essere più taglienti: in che modo «il Vivente» può andare incontro alla morte? Come
può «il Vivente» ridursi all’essere «morente»? La riposta è che Gesù ha la
potestà di porre/dare la sua vita e di riprendersela (cfr. Gv 10,17-18), in tal
modo il Vivente conobbe la morte non perché la morte ebbe potestà su di lui, ma
perché Gesù il Cristo ebbe potestà sulla morte, colui che è vivente nei secoli
dei secoli (cfr. Ap 1,18). Ed ecco un aspetto fondamentale sia dal punto di
vista teologico sia metafisico: la morte non potrebbe «esserci» se mancasse
quel bene verso il quale la morte si dirige per morderlo, per logorarlo, per
esaurirlo. La morte, che di per sé tende al non essere, nella
constatazione dei fatti essa in qualche modo è, ossia esiste. Come
mai? Ebbene l’esistenza della morte è secondaria e subordinata all’esistenza
del bene fontale senza il quale la morte non potrebbe esserci: la vita. In questo
caso la vita in quanto tale non basta, dacché vita e morte si oppongono,
nonostante il primato spetti sempre alla vita. In questo caso la risposta non
risiede nella vita, ma nel Vivente, in colui che è la sua stessa vita – noi non
siamo la nostra vita – e che ha la potestà di donarla e riprendersela.
Ma ora cerchiamo di
concentrarci sul quel sepolcro dal quale è nato tutto e che ha cambiato sia la
vita sia la morte.
Troppe volte si sente
dire che «il sepolcro fu trovato vuoto»; «il corpo non c’era più, il sepolcro
era vuoto»; «le donne andarono al sepolcro, ma lo trovarono vuoto» ecc. In
realtà alcuni ‘studiosi’ affermano che il messaggio della resurrezione sarebbe soprattutto
‘teologico’, per cui il senso sarebbe ‘teologico’ e in tal modo il brano
evangelico di Gv 20,1-9 andrebbe letto… Ma cosa vuol dire che il messaggio è
teologico? Vuol dire che tale messaggio è scollegato con la realtà storica? Di cosa
stiamo parlando? Queste posizioni non sono teologiche, ma anti-teologiche. La teologia,
in quanto scientia fidei, deve necessariamente poggiare sulla storia
dell’uomo, nonostante la sua origine non sia puramente umana (rimando agli articoli sulla fede che si trovano nel blog). Questo modo di procedere è anti-divino e anti-umano, e la prova è che
il Lógos di Dio si è fatto carne, ha assunto natura umana. Il messaggio
teologico deve necessariamente trovare riscontro nella storia dell’uomo, altrimenti
il medesimo messaggio non avrebbe senso. La teologia è cosa seria, così come la
filosofia, per cui bisogna ponderare bene le parole prima di proferirle. Semmai
non si prestasse attenzione all’equilibro di ciò che la fede in quanto tale
comporta, si rischierebbe di cadere in alcuni eccessi: razionalismo,
storicismo, fideismo, deismo. Ma questi sono eccessi e come tali sono
sbagliati. Una caratteristica fondamentale del concetto di «rivelazione» è
quella della doppia valenza di soprannaturale e naturale, per cui
Dio agisce nei confronti dell’uomo e lo fa lasciando, in qualche modo, le sue
tracce.
Parlare in quei modi
della resurrezione, con tutto il rispetto, vuol dire parlare del «vuoto», ossia
del «nulla», e di conseguenza nullificare la resurrezione. Come può Dio, il
quale ci conosce più di ogni altro, aver affidato il messaggio fondamentale
della fede cristiana al «vuoto»? Il testo evangelico si esprime chiaramente: il
sepolcro non era vuoto! Occorre indagare su quegli elementi che il Vangelo
secondo Giovanni riporta con chiarezza disarmante e che non è possibile
ignorare. Se lo facessimo ci prederemmo l’ammonizione di Pietro, che riguarda
non solo le lettere paoline ma tutta la Scrittura: in essere ci sono alcune
cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al
pari delle altre Scritture, per loro propria rovina (2Pt 3,16).
Non è possibile
analizzare in dettaglio il brano evangelico di Gv 20,1-9, dal momento che
richiederebbe troppo spazio, ma bisogna insistere sul fatto che tale brano
riporta «tracce storiche» della resurrezione del Cristo. In modo particolare
vorrei concentrarmi su alcuni elementi: le fasce, il sudario, il
verbo «vedere». Ovviamente vi sono tanti altri elementi, ma la scelta di
questi tre è stata doverosa. Al riguardo, nonostante molti studiosi si siano
soffermati su questi elementi (Giuseppe Ghiberti, Xavier Leon-Dufour, Rudolf Schnackenburg,
Giuseppe Segalla e altri), ritengo che alla ricerca del biblista don Antonio
Persili debba spettare la giusta attenzione, dal momento che lo studioso mette
in luce aspetti che in molti lavori mancano. Con ciò non si vuol porre Persili al
di sopra degli altri, assolutamente no, ma semplicemente richiamare l’attenzione
ad una ricerca della quale, purtroppo, non se ne parla mai e che invece
meriterebbe non poca attenzione per precisione e capacità di analisi (A. Persili, Sulle tracce del Cristo
risorto. Con Pietro e Giovanni testimoni oculari, Edizioni Centro
Poligrafico Romano, Tivoli 1988).
La versione che Persili
prende in considerazione è ovviamente quella greca, per cui egli si sofferma
sui vocaboli greci per poi proporre una traduzione strettamente letterale di Gv
20,1-9, ma nel nostro caso ci soffermeremo dal versetto 5 al versetto 9.
Per quanto riguarda le fasce
(τὰ ὀθόνια/tà othónia), che non bisogna confondere con la sindone (infatti,
in Mt 27,59 si trova il riferimento σινδών/sindόn), queste avvolgevano interamente
il lenzuolo di lino (sindone) e il discepolo che arrivò prima di Simon Pietro
le vide che giacevano distese. Il fatto che giacessero distese vuol dire che
non vi era più il corpo come sostegno. Inoltre, la sepoltura di Gesù non avvenne
come quella di Lazzaro, per il fatto che il corpo di Gesù aveva versato molto
sangue e la fasciatura avvenne interamente, senza lasciare aperture. Ecco le
parole di Persili:
«le “fasce distese”
costituiscono la prima traccia della risurrezione: era infatti assolutamente
impossibile che il corpo di Gesù fosse uscito dalle fasce, semplicemente
rianimato, o che fosse stato asportato, sia da amici che da nemici, senza
svolgere le fasce o, comunque, senza manometterle in qualche maniera. Questa traccia
sarebbe stata sufficiente per credere nella risurrezione, ma nel sepolcro v’era
una traccia più sorprendente, che Pietro ebbe la ventura di vedere per primo:
la posizione del sudario» (p. 145).
Il sudario (καὶ τὸ σουδάριον/kaì tò soudárion
= e il sudario) non era né un lenzuolo né un panno mortuario, ma un fazzoletto
che serviva per asciugare il sudore. Il sudario che Pietro vide era quello
posto fuori e si trovava sul capo di Gesù e fuori le fasce (cfr. Gv 20,7), non
quello che si trovava all’interno e che non era visibile. Qui il discorso si
complica, per cui bisogna stare calmi e cercare di mantenere un certo
equilibrio. La traduzione corrente è questa: «[…] e il sudario, che gli era
stato posto sul capo, non era per terra con le bende, ma piegato in un luogo a
parte». In latino risulta questo: «[…] et sudarium, quod fuerat super caput
eius, non cum linteaminibus positum, sed separatim involutum in unum locum». Persili
propende, per quanto riguarda «in unum locum», con la traduzione «nello
stesso luogo» o «nella stessa posizione». Ora, il problema risiede
tra le fasce e il sudario. Entrambi gli elementi avevano il corpo
di Gesù come supporto in quanto avvolgevano il suo corpo, ma le fasce furono
trovate in un modo e il sudario in un altro. Inoltre, il famoso luogo a
parte in cui sarebbe stato trovato il sudario, piegato e col significato di «tornerò»,
anche se avesse una qualche corrispondenza nei costumi ebraici, in questo caso
è fuori contesto.
Il verbo vedere nel Vangelo secondo Giovanni ha molte sfumature, ormai
note agli studiosi del Quarto Vangelo, che sono fondamentali per capire il tipo
di «sguardo». In modo particolare Giovanni usa tre verbi nello stesso brano (Gv
20,1-9) e li utilizza in tal modo: per Maria di Magdala «καὶ βλέπει/kaì
blépei»; per Simon Pietro «καὶ θεωρεῖ/kaì theoreî»; per il discepolo
amato «καὶ εἶδεν/kaì eîden». In italiano vuol dire «e vide», senza
cogliere le sfumature determinanti che l’evangelista ha volutamente lasciato. Il
punto è che il «vedere», in questo caso, inizia da quello della vista corporea
per andare a quella dell’intelletto. Ed ecco che la fede in quanto tale
poggia sull’intelletto. Leggiamo la spiegazione di Persili:
Con il verbo «blépei» Giovanni vuol dire che non vede tutto, ma scorge
qualcosa, che gli fa iniziare il cammino della fede. […] Quando Pietro giunge
al sepolcro, entra e rimane in contemplazione «theoreî» dello spettacolo che le
fasce e il sudario offrono, ma non ne comprende il messaggio. […] Infine
Giovanni entrò nel sepolcro e non appena osservò le fasce distese e soprattutto
il sudario rialzato, comprese immediatamente che esse costituivano le tracce
lasciate dalla risurrezione del corpo di Gesù, e credette. Per esprimere questo
vedere con intelligenza, Giovanni usa il verbo «kaì eîden», accompagnato dal
verbo della fede «καὶ ἐπίστευσεν/haì epísteusen»; Giovanni «vide,
comprese e credette» (pp. 169-170).
A questo punto credo sia giunto il momento
della traduzione proposta da Persili in merito al brano evangelico di Gv 20,1-9:
(Maria di Magdala) corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro
discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore
dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”. Uscì allora Simon Pietro
insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti
e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al
sepolcro. Chinatosi, scorge le fasce distese, ma non entrò. Giunge intento anche
Simon Pietro, che lo seguiva, ed entra nel sepolcro e contempla le fasce
distese (afflosciate, vuote, non manomesse), e il sudario, che era sul
capo di lui, non con le fasce disteso, ma al contrario avvolto (rimasto
nella posizione di avvolgimento, perciò rialzato ma non sostenuto nell’interno,
perché vuoto) in una posizione unica (straordinaria, eccezionale, perché
contro la legge di gravità). Allora entrò anche l’altro discepolo, che era
giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Non avevano infatti ancora
compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti (pp.
161-162).
Ora, vi sarebbero tanti altri elementi su cui soffermarsi (il giardino; la figura di Maria di Magdala; il suo iniziale non riconoscimento di Gesù e il successivo riconoscimento in seguito alla pronuncia del nome; il terzo giorno; il giorno dopo il sabato; i due che stanno da una parte e dall’altra della pietra sepolcrale; il lenzuolo chiamato «sindone» e tanti altri), ma credo di essermi dilungato già troppo per un articolo. Lo scopo è stato quello di utilizzare il preciso studio di Persili per mettere in luce un dato fondamentale: Cristo è risorto e ha lasciato le tracce della sua resurrezione. Occorre soltanto mettersi alla ricerca delle tracce a partire dal testo. Ed ecco che il contenuto teologico si radica fortemente nella dimensione storica per andare oltre la dimensione storica. Il sepolcro non era vuoto, ma pieno delle tracce della resurrezione.
Gabriele Cianfrani
PS. Il video sotto, tratto dal film "The Passion", potrebbe rendere l'idea.
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