Blog di informazioni e riflessioni su quanto concerne temi cristiani

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sabato 6 maggio 2023

TUTTO E' STATO FATTO PER MEZZO DI LUI


 

Nelle librerie e su Internet è disponibile il mio libro pubblicato pochi giorni fa dalla Tau Editrice: 

Tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Discorso sulla fede e sulla realtà (2023).

 

Dalla quarta di copertina:

Il lavoro si presenta come la riflessione dell’autore su alcuni temi riguardanti il percorso di vita cristiano. Il tutto prende spunto da due passi della Scrittura: «tutto è stato fatto per mezzo di lui» (Gv 1,3) e «[…] pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15). Pertanto, lo scopo è quello della testimonianza riflessiva circa alcuni contenuti della fede cristiana (cattolica), in modo che vi siano confronti tematici, cercando di porre in evidenza la linea del Magistero della Chiesa ed esprimendo che il senso ultimo si trova nel Verbo di Dio.


Estratto dalla prefazione del Prof. Carmelo Pandolfi:

Di ou tà pánta egéneto – per quem omnia facta sunt canta il Simbolo ripetendo il Prologo di Giovanni. Gabriele Cianfrani – lo sappiamo – sente visceralmente la densità del Lógos, tanto che sta pensando ad uno studio sulla convergenza tra lógos ed esse (tomista). 

Ma qui il lavoro non scende a tali profondità e si mantiene al livello di quella che, una volta, si chiamava Apologetica.

Non c'è dubbio che una apologetica razionalistica, elencatica e difensiva abbia in certa misura fallito. È anche vero che la reazione – la mancanza di Apologetica – ha fallito anche essa, perché ha prodotto un banale «volemose bene», offensivo del Bene stesso.

La soluzione sta dentro il mistero stesso del Lógos che è Gesù Cristo, nel senso che la dogmatica stessa è apologetica. La bellezza del dogma si difende da se stessa e va solo mostrata, come numero primo inderivato e autoconvincente. Come l’originalità assoluta di quel brano, quello lì, di Mozart. Così ha insegnato, e praticato lungo tutta la sua «Gloria», la teologia più bella e insieme colta fra i Moderni: quella di Balthasar.


P.S. Chiederei, a chi decidesse di acquistarlo, di contattarmi - anche tramite l'indirizzo email che si trova a pagina 316 -, dal momento che è in corso l'elaborazione dell'Errata Corrige in riferimento alle pagine 66 e 67, in modo da poterla inviare tramite email.


sabato 11 febbraio 2023

PROFESSIO FIDEI E IMPLICAZIONE DELL'INTELLETTO 1/2


 

Il 31 dicembre 2022 il Santo Padre Benedetto XVI è tornato alla Casa del Padre. Inutile riportare quanto grande sia stata la sua importanza per la Chiesa odierna e per quella che dovrà attraversare le gioie e le difficoltà del futuro, poiché ci saranno entrambe. Il mio augurio e la mia preghiera per la sua proclamazione, un giorno, di «Dottore della Chiesa».

Tuttavia, pare che vi sia un aspetto fondamentale della ricerca condotta da Joseph Ratzinger – lo si chiamerà così per il riferimento al suo essere studioso, eccellente teologo e non solo – che si spera potrà essere ripreso al più presto: la «ragionevolezza della fede», ossia che la «professione di fede» implica la «ragione». Sì, in quanto spesse volte si parla della «fede» e della «ragione» come se tale accostamento fosse, come dire, sospetto o strano. Comprensibile, nel caso in cui si avesse più o meno bene la nozione di «fede», ma si tratta di un accostamento obbligato, dal momento che non può esservi fede senza ragione e la ragione non può non essere la sede della fede. Sarebbe meglio parlare di «intelletto» anziché di «ragione», poiché l’intelletto indica direttamente quella facoltà/potenza dell’anima che consente atti intellettivi, come la ragione, la quale implica quel procedere, proprio dell’essere umano, in modo discorsivo di conoscenza in conoscenza per giungere alla verità. Gli angeli non apprendono la verità in maniera discorsiva, ma con la semplice intellezione. Pertanto, è proprio dell’essere umano il ragionamento, ma non degli angeli; è proprio dell’essere umano essere definito come razionale, non degli angeli, i quali sono esseri intellettuali (Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 79, a. 8). Tuttavia, non sembra male riportare una precisazione, con buona pace di quanti oggi adoperano la parola «intelligente» per indicare anche ciò che non ha vita (es. la chiave, il semaforo, la lavatrice, uno schermo e il computer stesso, che vuol dire calcolatore, ma non ha nessuna intelligenza) o riducendo l’intelligenza al puro calcolo. Semmai l’intelligenza fosse riducibile al calcolo, allora un calcolatore elettronico, ossia un computer, sarebbe enormemente più intelligente di un cosiddetto «cervellone umano», ma non è così. Tutto ciò che osserviamo nella realtà materiale, sensibile, consta di singolarità, di particolarità, non di universalità. Osserviamo che vi è un albero, certo, ma quell’albero. Non osserviamo che vi è l’albero in quanto tale, ma quel determinato albero. Eppure sappiamo cosa sia un albero in quanto tale, che si tratti di un ulivo, di un faggio, di un platano, di una quercia o altro. Coma mai? Per mezzo di quella facoltà che si chiama «intelletto» e per quella funzione che si chiama «astrazione». Seppure molto brevemente, occorre dire qualcosa al riguardo.

Poiché il termine «patire» può essere preso in vari sensi, in questa sede viene preso nel senso di «ricevere qualcosa da parte di», per cui l’intelletto stesso si trova in potenza rispetto a ciò che deve ricevere. Cosa deve ricevere? Il dato intelligibile. Ma nella realtà sensibile, della quale si fa esperienza con i sensi, troviamo il dato sensibile, non l’intelligibile in atto. Il dato intelligibile si radica nella realtà, ma è in potenza di essere tale. Ora, dal momento che quel «patire» deve fare in modo che l’intelligibile in potenza diventi intelligibile in atto, in modo tale che si possa ricevere (patire) tale dato, occorre porre una capacità da parte dell’intelletto di «astrarre», ossia di «separare» quel dato sensibile che si trova nella realtà materiale per far sì che diventi intelligibile, e così effettuare il passaggio dall’intelligibile in potenza all’intelligibile in atto. Soltanto con questo passaggio, che va sotto il nome di «astrazione», è possibile ottenere l’intelligibile astratto dal sensibile concreto. Ma sopra è stato riportato che da una parte l’intelletto si trova in potenza di ricevere il dato intelligibile astratto e dall’altra che occorre una capacità da parte del medesimo di astrarre il dato intelligibile dal sensibile concreto. Nulla di strano e soprattutto nulla di contraddittorio. Ciò è doveroso, dal momento che nulla di quel che è in potenza passa all’atto se non per mezzo di ciò che è già in atto. Pertanto, occorrono due princìpi: quello che astrae il dato intelligibile dal sensibile concreto prende il nome di «intelletto agente»; quello che riceve il dato intelligibile astratto prende il nome di «intelletto paziente o possibile». In questo caso è l’intelletto agente che attua l’intelletto paziente. In virtù di questo è possibile scorgere l’immaterialità dell’intelletto, che è dell’anima (Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 79, aa. 1-4).

È solo una breve esposizione, che sarà ripresa, ma può bastare per non associare l’«intelligenza» a oggetti che non sono neanche vivi.

Quando si pronunciano le parole «credo» e «amen», ossia la parola iniziale e quella finale del Credo, occorre prestare attenzione a ciò che si pronuncia, dal momento che non esprime affatto il gettarsi nell’irrazionalità. Infatti, scrive Ratzinger:

[…] ciò che qui accade non è affatto un buttarsi in braccio all’irrazionale. Viceversa, è un accedere al lógos, alla ratio, al senso e quindi alla stessa Verità, perché in definitiva il fondamento su cui l’uomo si pone non può né deve esser altro che la stessa Verità che si schiude a noi. […] L’atto di fede cristiana include quindi sostanzialmente la convinzione che il fondamento significativo, il lógos sul quale ci collochiamo, proprio in quanto senso è anche verità. Un senso che non fosse al contempo anche verità, sarebbe non-senso. L’inseparabilità di senso, fondamento, verità, che si esprime tanto nel termine ebraico ‘amen’ quanto in quello greco di lógos, annuncia nello stesso tempo tutta un’immagine del mondo. Nell’inscindibilità di senso, fondamento e verità, così come la implicano – in maniera per noi intraducibile – queste parole, viene in luce l’intera rete di coordinate nella quale la fede cristiana considera il mondo e prende posizione di fronte ad esso. Ne consegue però anche che la fede, per la sua stessa originaria essenza, non è affatto un cieco affastellamento di paradossi incomprensibili. E inoltre che è sbagliato addurre a pretesto il mistero, come in realtà non di rado avviene, per trovare una scusa alla mancanza di comprensione. Quando la teologia va a impelagarsi in un mare di assurdità, ostinandosi non solo a scusarle, ma magari addirittura a canonizzarle richiamandosi al mistero, ci troviamo dinanzi a un abuso della vera idea di ‘mistero’, il cui senso non è certo la distruzione dell’intelletto, bensì di rendere possibile la fede in quanto comprendere. In altri termini, la fede non è certamente un sapere nel senso della scienza del fattibile e secondo la sua forma di calcolabilità. Non lo potrà mai diventare e finirebbe solo per rendersi ridicola, qualora tentasse di proporsi in queste forme (J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 201722).

Lo scopo di questa prima parte è quello di comunicare non solo che si tratta di un’assurdità l’esclusione della fede dall’intelletto – oppure, se si preferisce, dalla ragione, ma con la precisazione riportata sopra – e il necessario richiamo dell’intelletto per la fede, ma soprattutto che per «intelletto» il riferimento è ben preciso, lungi dagli stravaganti accoppiamenti che spesse volte – troppe! – giungono all’attenzione. Tuttavia, l’implicazione vicendevole della fede e dell’intelletto sarà trattata nella seconda parte, la quale avrà lo scopo di chiarire in che modo la fede opera sull’intelletto e come l’intelletto opera mediante la fede, in particolar modo sul tipo di «assenso» e cosa comporta nei confronti della volontà, e in ultimo nei confronti della persona stessa.


Gabriele Cianfrani

domenica 13 novembre 2022

L'ADESIONE NARCOTIZZATA ALLA SEDUZIONE NARCOTIZZANTE

 


Spesse volte si leggono titoli che difficilmente sono riconducibili al contenuto dell’articolo e ciò costituisce un grave errore, ma non credo sia questo il caso, dal momento che si cercherà di spiegare non solo ogni parola del titolo in questione ma anche l’ordine, dacché anche questo è importante. Il materiale è importante (le parole), ma poi occorre che vi sia un certo ordine. L’ordine delle parole è importante poiché rimanda all’intenzione dell’autore, a ciò che l’autore vuole comunicare e in che modo intenda farlo, e sono sicuro che già si possa scorgere il modo polemico col quale intendo proseguire, obbligatoriamente senza risparmio. Forse sarò più lungo del solito, ma doverosamente.

Prima di iniziare vorrei riportare un passo del Catechismo della Chiesa Cattolica, In quanto sarà indispensabile per quel che seguirà:

 

La dottrina del peccato originale è, per così dire, «il rovescio» della Buona Novella che Gesù è il Salvatore di tutti gli uomini, che tutti hanno bisogno della salvezza e che la salvezza è offerta a tutti grazie a Cristo. La Chiesa, che ha il senso di Cristo, ben sa che non si può intaccare la rivelazione del peccato originale senza attentare al mistero di Cristo (n. 389).

 

Sono parole che non avrebbero bisogno di spiegazione, ma certamente richiedono, o meglio, pretendono lunga riflessione. Infatti, non è possibile trattare del mistero di Cristo e ignorare la colpa d’origine (peccato originale), così come non è possibile considerare la colpa d’origine all’infuori del mistero di Cristo, dal momento che è Cristo che ci illumina fino in fondo al riguardo (cfr. Rm 5,12-21).

Non è questa la sede per trattare del peccato originale e delle sue sfaccettature, non è l’intenzione dell’articolo, ma non poche volte si assiste ad una sorta di disagio da parte di cristiani (cattolici) nell’affermare che davvero vi sia stata una colpa d’origine. Un disagio tale da considerare quel brano di Gen 3,1-24 come se fosse solo un modo per raccontare alcune cose; una storiella posta per rispondere alla sofferenza umana; un modo per dire all’uomo che deve stare al suo posto; un tentativo religioso per spiegare il male nel mondo, non tanto distante da altri racconti di altre religioni; un modo per dire che la donna sbaglia sempre e roba di questo tipo. Insomma, oggi più che mai con difficoltà si ammette l’esistenza di una colpa d’origine, sfociando nei famosi «modi di dire» e nell’ostinazione al riferimento «puramente simbolico», ignorando cosa sia il «simbolo», che non è fantasia (ne ho parlato qui). Ora, dacché il tono dell’articolo è polemico e non vale il cosiddetto politicamente corretto, vorrei precisare non è possibile essere cristiani – meno che mai cattolici – senza credere a quanto esposto sopra. Il testo è chiaro: non si può intaccare la rivelazione del peccato originale senza attentare al mistero di Cristo. Mi dispiace, ma oggi come oggi pochissime parole vengono spese su questo argomento, che è fondamentale e chi ha il dovere di parlarne lo faccia. Se non vi è chiarezza su questo, come ci si rapporterà al Natale, alla Pasqua, alla Bibbia (Antico e Nuovo Testamento), alla Chiesa e alla sua storia, al Sacrificio Eucaristico (la Messa), alla Beata Vergine Maria, al mistero del male, alla salvezza in Cristo, alla vita futura ecc.?

Ed ecco che in maniera deplorevole e sottilmente ordinata il servizio televisivo propone tre pubblicità che a mio parere risultano oscene, oltre a mostrare l’enorme superficialità o l’enorme malizia di chi mira allo sradicamento di due verità fondamentali per il cristiano: il peccato originale e il mistero di Cristo nell’istituzione dell’Eucaristia. Queste le pubblicità, per poi passare alla doverosa nota polemica.







Cercherò di spiegare ogni parola del titolo in riferimento a queste cose esecrabili. Tuttavia, voglio precisare che non si tratta di chiusura nei confronti dell’espressione, ovvio, ma in questo caso mi pare che si sia giunti pubblicamente a un passo dall’oscenità. La dimensione religiosa dell’essere umano, qualunque essa sia, non può non godere di rispetto. Riguarda l’essere umano nella sua intimità.

 

- «Adesione»: con tale termine non si vuole indicare soltanto il contatto tra due cose, ma anche l’aver prestato il proprio assenso alla volontà altrui. Questo assenso è rivolto a quella volontà che si pone come negazione di Dio (cfr. 1Gv 2,22-23).

 

- «Narcotizzata»: l’adesione avviene in uno stato di anestesia intellettuale, subìta o cercata consapevolmente. Non può essere altrimenti, dal momento che gli argomenti circa il peccato originale e l’istituzione della santa Eucaristia hanno impegnato menti eccellenti e consentito di far scorrere fiumi di inchiostro. Altro che storielle raccontate per tenere nel sonno le menti, è vero il contrario, ossia l’abbandono di certi argomenti ha condotto a quella riduzione intellettuale che appare in tutta la sua evidenza (ad esempio il fatto che oggi vi sia un dominio della tecnica che conduce a considerare quasi esclusivamente il prodotto avente come fine il solo consumo nell’assoluta immanenza). Si pensi a quel mirabile incontro tra la filosofia e la teologia nel mistero dell’Eucaristia (ciò che avviene con la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo si chiama transustanziazione): partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, [i fedeli] offrono a Dio la Vittima divina e se stessi con Essa (Conc. Vat. II, Lumen gentium, n. 11). Si pensi al significato del termine persona e sulla importanza di tale termine, il quale non si capirebbe pienamente se si ignorassero i primi concilî della Chiesa. Si pensi alla grande difficoltà odierna di riconoscere il bene, il vero, il bello, riducendoli solo a ciò che appare nella pura successione inconsistente di fenomeni, con la quasi impossibilità di ricondurli alla ricchezza dell’essere come loro principio e fine, di quell’essere conferito in modo partecipativo da Colui che non presenta composizione alcuna e che è il reale principio di ogni essere, di ogni bene, di ogni verità, di ogni bellezza, dal momento che è l’Essere per sé sussistente. Non solo, poiché l’amore stesso in Dio è sussistente e sarebbe vano cercare all’infuori di Dio il fondamento della capacità di amare dell’uomo. Proprio per quanto riguarda l’amore ci si renderà conto che sempre più avanzano descrizioni dello stesso, o meglio, di alcuni aspetti, ma non definizioni.

 

- «Seduzione»: interessante questa parola, in quanto vuol dire conduzione a sé («sedurre» da se-ducere, ossia condurre a sé), non intesa esclusivamente nel campo affettivo. Infatti, si intende anche l’azione di condurre a sé per distogliere l’altro dal compiere il bene, per separarlo dal compiere il bene o ciò che dovrebbe. Ed è su questo senso che ci si soffermerà.

Il testo biblico riporta ciò che Eva rispose a Dio: «il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato» (Gen 3,13).

Senza entrare in particolari molto interessanti ma che richiederebbero troppo spazio, è possibile notare che l’«inganno» segue quell’atto di «conduzione a sé» da parte del serpente, che in ultimo separa Eva – e con ella Adamo – da Dio. Il punto è che i progenitori non potevano cadere in «inganno» nel vero senso della parola, se per inganno si intende un raggiro, un condurre in errore o cercare di far credere vere le cose che sono false e viceversa, dal momento che i progenitori non erano ignorantelli, come spesse volte vengono presentati in merito a questo evento, in quanto non soggetti ad ignoranza. La scelta fu consapevole e la «seduzione» del serpente non ha fatto altro che spingere ulteriormente a commettere esternamente ciò che poi è stato commesso, volontariamente, ma già a partire dall’interno (peccato interno), per cui il credere alle parole del serpente e il commettere quel peccato, non sarebbe stato possibile se prima non vi fosse stato l’amore del proprio potere e una superba presunzione di sé (cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 94, 4; Ibid. ad 1). Ed ecco l’anomalia: la scelta di un bene transitorio, il cui fondamento risiede in Colui che è il Bene sussistente, al posto dello stesso Bene sussistente dal quale deriva il bene. Anomalia che si fonda sulla superbia, ossia il considerare solo la propria eccellenza, una sorta di ripiegamento su se stessi.

Come è possibile notare, la questione è molto profonda e ci sarebbe tanto altro da aggiungere, ma è chiaro che un argomento come questo non può essere oggetto di scherno.

 

- «Narcotizzante»: in tal caso la seduzione ha effetto narcotizzante, dal momento che – mi dispiace per la durezza, ma il tono è polemico – si ha uno svuotamento anzitutto intellettuale, tale da portare a promuovere messaggi pubblicitari come quelli sopra. Ma lo svuotamento non è solo intellettuale, dato che coinvolge tanti aspetti dell’uomo, compreso quello della riverenza.

È davvero interessante quanto il genio di C.S. Lewis mette in bocca a Berlicche, tutto intenzionato ad istruire il nipote Malacoda: «È buffo che i mortali ci rappresentino sempre come esseri che mettono loro in testa questa o quella cosa: in realtà il nostro lavoro migliore consiste nel tenere le cose fuori dalla loro testa» (C.S. Lewis, Lettere di Berlicche, trad. A. Castelli, Mondadori, Milano 2015, p. 20. Titolo originale: The Screwtape Letters). Effetto narcotizzante.

 

Tirando le somme, risulta chiaro il messaggio ultimo: proposta ridicolizzata di Dio conducente all’adesione vuota e negatrice di Dio, ossia il dolce avvelenamento. Cosa ne consegue? Semplice: l’adesione al nulla, ossia all’imperfezione assoluta. Senza troppi giri di parole, si tratta di un vero messaggio anticristico, nei confronti del quale non è possibile restare imperturbabili. Ciò interpella chi sta scrivendo proprio perché membro della Chiesa per mezzo del Battesimo, per cui ritengo doverosa la polemica a difesa di verità fondamentali per la vita cristiana. Inoltre, e non so se vi sia consapevolezza o meno, queste oscenità intaccano soprattutto la dignità umana – Dio non è soggetto di mutazione ontologica –, dal momento che l’uomo ha ragione di ritenersi superiore a tutto l’universo, a motivo della sua intelligenza, con cui partecipa della luce della mente di Dio (Conc. Vat. II, Gaudium et spes, n. 15). Pertanto, la grandezza dell’uomo è in riferimento a Dio, altrimenti ci sarà sempre quel ripiegamento che oggi comporta l’essere assoggettati a se stessi, o peggio, ai prodotti delle proprie mani, delle mani dell’uomo (cfr. Sal 115). Ma questa non è libertà e la visione cristiana mira all’innalzamento, non all’abbassamento. Tra i tanti aspetti fondamentali dell’Incarnazione, vi è anche la manifestazione della dignità umana: mentre mediteranno tutto ciò, i fedeli non dimenticheranno che Dio volle sottostare all’umile fragilità della nostra carne, affinché il genere umano fosse innalzato al più alto livello della dignità (Catechismo Tridentino o Romano, n. 51). Dio non può essere attaccato, dal momento che è Dio, ma l’uomo può esserlo e in tal caso nel suo nucleo: lo smarrimento di Dio comporta anche lo smarrimento dell’uomo.


Gabriele Cianfrani 


martedì 16 agosto 2022

CAUSALITA' FINALE O FINE CASUALE? UNA QUESTIONE IMPERITURA

 



La questione imperitura circa la «causalità finale» o il «fine casuale» sembra essere davvero tale, dal momento che ancora oggi si propongono dibattiti al riguardo, i quali risultano non poco interessanti. Ma bisogna riconoscere che rispetto al passato si verifica una certa propensione ad accogliere la seconda posizione, ossia il «fine casuale», nel senso che l’esistenza, non solo umana, non abbia «un fine» ma semplicemente «una fine».

Non si tratta di giochi di parole, o meglio, si tratta di considerare le parole per l’importanza che hanno, soprattutto quando si tratta di argomenti che richiedono una terminologia ben precisa. L’uso improprio di tante parole o lo scorretto accostamento di precise parole ha condotto ad una vera e propria confusione nella comunicazione, non è il caso di nasconderlo. Si richiedono esempi? Nessun problema: «abbiamo creato un’azienda»; «sono tempi apocalittici»; «Tizio è più umano di Caio»; «non va bene questa speculazione»; «non è un confronto equo, è come se si confrontassero Davide e Golia [commiserando il piccolo Davide, nonostante nel racconto biblico abbia vinto proprio lui]»; «il semaforo o la chiave intelligente» ecc. Si potrebbe continuare, ma l’anomalia è evidente.

Tornando alle due posizioni della questione, ciò che potrebbe permettere di apportare chiarimenti decisivi, pare essere il discorso sulla «causalità». Tale discorso implica necessariamente il campo filosofico, in particolar modo quello metafisico, in quanto l’indagine è soprattutto metafisica, mirante alla risoluzione nelle cause ultime o prime.

Ora, il rifiuto nei confronti del discorso metafisico, spesse volte domina indisturbato. Senza fare nomi, vi sono autori che rigettano del tutto la speculazione metafisica in favore di quella che definiscono scientifica, sfociando in una vera e propria riduzione del concetto di «scienza», il quale è molto più ampio dell’esperimento. Inoltre, il rifiuto si presenta non con argomenti metafisici o, nel caso della sacra teologia, con argomenti teologici, ma con argomenti estranei ad entrambe le discipline, distorcendole tremendamente.

Molto brevemente, dal momento che il subiectum della metafisica (ciò su cui verte la ricerca) è l’ente in quanto ente (non in quanto è tale, ad esempio un gatto, ma in quanto è ente), l’indagine riguarda sia i princìpi intrinseci e costitutivi dell’ente sia i princìpi estrinseci dell’ente. La prima indagine prende il nome di resolutio secundum rationem (interna all’ente); la seconda prende il nome di resolutio secundum rem (esterna all’ente). Quando l’indagine resta confinata all’interno dell’ente si avrà la resolutio secundum rationem, ma dato che la metafisica parte da ciò che è fondato per arrivare a ciò che è fondante, ossia dall’effetto alla causa e soprattutto alla causa ultima, a ragione si può dire che è risolutiva. Pertanto, il punto di partenza è l’ente ma il punto di arrivo è il fondamento dell’ente.

L’ente si definisce come ciò che è (id quod est), per cui esercita fortemente l’essere e gode di consistenza ontologica. Quali sono le caratteristiche dell’ente? Anzitutto riscontriamo che l’ente gode di determinatezza, ossia non solo è un soggetto ma un soggetto ben preciso, il cui contenuto è appunto determinato (il gatto non è solo un animale, ma è gatto; la tigre non è solo un animale o un felino, ma è tigre). Inoltre, riscontriamo anche il fatto di essere separato, per cui l’ente non ha bisogno di altro per essere, poiché gode di autonomia ontologica. E certamente ciò che traspare con forza è  la sussistenza. Perciò, l’ente è qualcosa di sussistente, determinato, separato.

La metafisica può indagare sulla tigre, sul libro, sull’albero di ulivo ecc., considerando la tigre, il libro, l’albero di ulivo in quanto enti con le caratteristiche sopra riportate, non dal punto di vista biologico, biofisico, chimico, botanico ecc. Da ciò si evince che la ricerca si pone su altri piani e adotta un lessico diverso. Questo è importante, poiché il termine «accidente» non ha lo stesso significato in metafisica, in medicina e in musica.

A questo punto si capisce che l’indagine metafisica non mira alla scomposizione delle cose o di arricchire la tavola periodica degli elementi, bensì di giungere al fondamento dell’ente. Poiché l’ente è ciò che è, esprimendo in senso forte l’essere, la ricerca metafisica non può non guardare all’essere dell’ente, al suo fondamento, e in ultimo alla «causa» dell’essere dell’ente.

Il discorso in merito alla «causa», in merito alla «causalità», implica anzitutto la dipendenza nell’essere o nel modo di essere di ciò che è causato da ciò che è causa. Si tratta della costituzione dell’ente.

Per quel che riguarda le divisioni della causa, secondo il modo di esercizio e i generi, considerando la questione, l’attenzione si sposta sulla divisione secondo i generi. Tali sono quelli aristotelici, ripresi anche da san Tommaso d’Aquino, e sono generi supremi di causalità:

1) Causa materiale; 2) Causa formale; 3) Causa efficiente; 4) Causa finale.

Vi sarà modo di tornare su tutte le cause, ma quella che per il momento richiede attenzione è la causa finale, ossia ciò in virtù della quale una cosa viene fatta.

Ora, senza andare per le lunghe e senza scrutare profondamente la causalità finale – lo si farà in altra sede –, se mancasse il «bene» non vi sarebbe causa finale, ossia non vi sarebbe azione alcuna che abbia un «fine», dal momento che il fine non può non avere carattere di «bontà». La causa finale è la causa delle cause, dacché ciò che si compie deve essere prima nell’intenzione e poi nell’esecuzione. Certo, ciò suppone la natura intellettiva che possa intendere il fine, ma anche gli altri enti – che non siano persone umane o angeliche o Dio stesso – godono di un fine naturalmente, ad esso sono diretti. Vi sono, infatti, agenti per ragione e agenti per natura. Che la rondine non si prefigga dei fini intenzionali è chiaro, ma essa è comunque diretta ad un fine – già i bellissimi nidi di rondine fanno trasparire ciò, oltre alle meravigliose api e al mondo cellulare –, così come altri enti naturali che non hanno natura intellettiva. Non vi è un’azione che abbia come fine, naturalmente o intellettualmente, il male. Certo, l’essere umano è capace di azioni malvagie, tanto malvagie che a volte non si trovano spiegazioni soddisfacenti, ma questo chiama in campo altre discipline.

Vi sarebbero altre cose da aggiungere, ma è comunque possibile considerare il «fine casuale» come alquanto fragile, poiché se vi fosse la casualità come fondamento non avremmo possibilità né di agenti per ragione né di agenti per natura, che non trova riscontro nella realtà.

Ricordo che durante una lezione del corso di laurea in professioni sanitarie, trattando alcuni aspetti di anatomia e di fisiologia umana, il professore affermò che il fine degli esseri umani consiste nella nutrizione e nella riproduzione, per fare in modo che la specie continui… Mi domando come mai in quel momento egli stesse insegnando, dal momento che l’insegnamento non rientra tra questi fini.

Non è un caso che spesse volte si parli di «ecosistema», il quale non è casuale, altrimenti non si potrebbe parlare di «sistema» nel vero senso della parola. Ma qualora si propendesse ugualmente non per la causalità ma per la casualità, questa non potrebbe esser tale se non vi fosse una causa. Ora, osservando la realtà nella quale siamo immersi, possiamo constatare che vi sono eventi casuali ed eventi che scaturiscono in seguito ad una causa ben precisa. Non solo, in quanto anche per l’essere umano è così: apro il libro per leggere un determinato argomento (intenzionale) e proprio in quel momento si strappa la pagina (non intenzionale). Lo strappo della pagina è avvenuto per caso, ossia non rientrava nella mia intenzione (praeter intentionem), ma ciò non sarebbe avvenuto se fosse mancata la causa finale, ossia la lettura dell’argomento che mi ha condotto ad aprire il libro, oltre alla causa efficiente. Questo esempio, quello dello strappo (praeter intentionem), rimanda ai modi di esercizio della causa.

Insomma, dopo tutte queste parole, la domanda è la seguente: vi è un fine o la semplice fine?

Le parole sono identiche, ma il significato è radicalmente diverso.

Semmai vi fosse una semplice fine, ci troveremmo nella totale contrarietà, dal momento che ogni essere umano – lo notiamo soprattutto nella società occidentale – si adopera per il raggiungimento di uno scopo, di un fine che va al di là di quello puramente fisiologico. Nel caso di altri enti, cioè quelli di natura non intellettiva, pur non proponendosi un fine sono comunque condotti ad un fine, vi è una sorta di indirizzamento naturale, che non è casuale! Non si tratta di riscontrare, nella realtà, eventi che si verificano in maniera ritmicamente perfetta come se ci trovassimo al Luna Park, ma l’indirizzamento ad un fine di quegli enti che non si propongono un fine intenzionale e di quegli enti si propongono un fine intenzionale.

Cosa si vuole esprimere? Si vuole esprimere che il discorso circa la causalità non è la pura concatenazione di eventi o non solo questo, ma un discorso che dovrebbe essere trattato in maniera tale da chiamare in causa altre discipline. In aggiunta, sono fermamente convinto che i drammi di oggi, siano essi umani, ecologici, sociali ecc., non potranno essere superati nella triste realtà del rifiuto del fondamento ultimo, che richiede speculazioni ben precise, scienze ben precise e che non possono essere rifiutate, pena l’impoverimento dell’uomo stesso.

Concludendo, il «fine casuale» gode di contrarietà intrinseca, poiché la mancanza di una causa comporta la mancanza del caso e la mancanza di un effetto verificatosi casualmente. La ricerca sulla causalità è quanto mai importante, ancor più la ricerca sulla «Causa prima».


Gabriele Cianfrani 

venerdì 25 febbraio 2022

COMPRENDERE INCOMPRENSIBILMENTE IL COMPRENSIBILE

febbraio 25, 2022 Posted by Gabriele Cianfrani , , No comments


 

Un titolo, quello sopra, che pare non abbia possibilità alcuna di giustificazione. Eppure non è così. Potrebbe anche sembrare un gioco di parole, per certi aspetti lo è, ma ha la sua giustificazione. Tante sono le volte – forse troppe – in cui si ascoltano parole adoperate in modo quasi del tutto avulso da ciò che quella parola significa, col risultato della mancata comunicazione o di una comunicazione, come dire, storpiata.

Probabilmente non tutti condivideranno ciò che seguirà, ma non è neanche possibile che un pensiero sia condiviso generalmente, tanto meno rincorrere questo esito.

Ora, appoggiandomi ad alcuni autori che hanno già espresso la loro posizione, vorrei esprimere anche la mia.

Da alcuni anni a questa parte, parole come «smart working», «election day», «jobs act», «covid free», «lockdown», «smart key», «fake news» e tante altre hanno fatto irruzione, o meglio, sono state poste prepotentemente nel linguaggio comune. Pare sia emersa anche una parola come «smartabile». Non nascondiamo nulla, dato che soprattutto il mondo della politica sta sfoderando ciò. Ma ci tengo a precisare una cosa, ossia che non mi pongo neanche minimamente contro l’uso di tali parole e di altre – contro «smartabile» ovviamente sì –, ma non sarebbe affatto male se ciò fosse fatto in contesti che ne richiedano l’uso, e si tratta di contesti non italiani. Se infatti si provasse ad ascoltare traduzioni di discorsi americani o inglesi, ci si renderebbe conto che tutto viene tradotto ad eccezione di parole come quelle sopra riportate. Faccio un esempio: gli americani si preparano per l’election day! Perché non si traduce anche «election day»? Cosa ci sarebbe di male nel farlo? Da cosa dipende la non traduzione? Ricordo quando seguivo un corso di laurea e puntualmente spuntavano fuori parole come «debridement» (sbrigliamento), «follow-up» (continuare, seguire, approfondire) e roba simile. Mi chiedo per quale motivo alcune parole non vengano tradotte. Certamente il riferimento non è a tutto, l’esclusione riguarda, ad esempio, nomi propri e altro.

Ciò a cui si assiste è un crescendo dell’uso di parole straniere moderne fino a non reperire più quelle italiane corrispondenti, con il risultato di non riuscire più ad esprimersi agevolmente. Sono consapevole che una lingua non emerga all’improvviso, ma sarebbe bene se si difendesse la propria tradizione letteraria, che contribuisce ad evidenziare caratteristiche culturali e far sì che si verifichi un vero arricchimento culturale. Da preferire parole latine o greche, le quali racchiudono quella ricchezza linguistica dalla quale non si può prescindere. Preciso ancora la non contrarietà dell’utilizzo di parole inglesi o di altra lingua, ma sarebbe cosa buona se si evitasse di inserirle così tante volte in discorsi italiani a tal punto da rischiare di non trovare parole italiane per esprimere quanto si vuole esprimere, con l’unica soluzione di fare ricorso a parole di altra lingua. Non costituisce una tragedia adoperare parole come «followers», «chat», «tout court», «chapeau», ci mancherebbe, ma non andrei verso l’eccesso.

Altro punto, forse quello principale, riguarda espressioni con parole che non hanno nulla a che vedere con il contesto nel quale vengono poste. Faccio un esempio: «è un’apocalisse!»; «egli è molto umano, ha una grande umanità»; «abbiamo creato...» e altro. Ci sarebbe tanto da discutere anche sulla «intelligenza artificiale», dato che si fatica a capire come queste due parole possano stare insieme, ma ciò non può essere trattato, dato che l’argomento è molto vasto e richiederebbe molto tempo. Per quanto riguarda l’«essere molto umano», verrebbe da chiedersi se l’«umanità» in quanto tale possa subire aumenti o diminuzioni. Non mi pare che un essere umano possa essere più o meno umano di un altro, nonostante vi saranno differenze: uno è più clemente di un altro, più crudele, più o meno emotivo ecc. Tuttavia, non è trascurabile questo aspetto, dato che non poche volte si tende ad umanizzare ciò che umano non è, ma anche il contrario, disumanizzare ciò che è umano.

La «parola» esterna non è altro che il verbum exterius che si radica nel verbum interius, ossia nella «parola interna». La «parola esterna» è appunto segno della «parola interna», che in tal modo diventa esterna e di conseguenza comunicabile, diventa espressione linguistica concreta. Ma la «parola interna» rimanda alla dimensione del «pensiero», alla dimensione intellettiva della conoscenza, che a sua volta rimanda alla realtà. Inoltre, sono sempre rimasto affascinato dagli «atti della mente», che si trovano sul piano intellettivo e sono quelle operazioni della mente che godono di una certa importanza. Sono tre: semplice apprensione, giudizio e ragionamento. Vediamo brevemente le tre operazioni.

- Semplice apprensione: atto della mente che coglie un aspetto della realtà (animale, vegetale, spirituale, anima ecc.), senza esprimere affermazioni o divisioni. L’«operato» che si trova ancora nella mente si chiama concetto, che non è ancora oggetto di conoscenza, ma strumento per la conoscenza. L’«espressione linguistica» si chiama termine (parola);

- Giudizio: esso è componente o dividente, ossia attribuisce un termine ad un altro oppure lo nega (es. «il gatto è un felino» o «il gatto non abbaia»). L’«operato» del giudizio si chiama enunciazione, mentre l’«espressione linguistica» si chiama proposizione;

- Ragionamento: esso consta degli atti del giudizio, i quali atti nel ragionamento son posti in maniera discorsiva, cioè in modo da discorrere su quegli atti che in tal caso vengono posti come premesse. L’«operato» è un’argomentazione intelligibile, mentre l’«espressione linguistica» è appunto un’argomentazione linguistica. Si tratta del famoso «sillogismo», che è un ragionamento: «gli alberi sono piante, la quercia è un albero, dunque la quercia è una pianta»; «l’anima intellettiva è spirituale e immortale, l’anima umana è intellettiva, dunque l’anima umana è spirituale e immortale».

 

Evidentemente quando parliamo non ci soffermiamo su ogni atto della mente, ma tali atti sono collegati.

Per concludere, ognuno può svolgere la sua analisi, ma non sarebbe male se vi fosse più accortezza nel parlare in modo più chiaro e senza l’inclusione di termini che starebbero ad esprimere una sorta di «tecnicismo», che tale non è, dal momento che ci sono parole italiane con le quali tradurre ciò che occorre. Vi sono anche parole difficilmente traducibili, ma questa è un’altra storia.  


Gabriele Cianfrani 

sabato 23 ottobre 2021

BREVE RICHIAMO ALL'"ENS"

 


Sotto il nome di «Metafisica» è conosciuta la raccolta dei quattordici libri aristotelici, per opera di Andronico di Rodi (Peripatetico del I sec. a.C.). La parola «Metafisica» viene dal greco τὰ μετὰ τὰ φυσικά, che potrebbe essere così tradotta: «le cose che vengono [o che sono] dopo quelle fisiche». Questo vuol dire che non si aggirano le cose fisiche, ma si suppongono per poi andare oltre, per cui lo studio della filosofia della natura precede lo studio metafisico. Ma lo studio metafisico mira a ricondurre alle cause (prime), perciò la Metafisica mira ai princìpi primi e alle cause.[1] Ora, l’oggetto proprio della Metafisica, o meglio, il suo subiectum, è l’«ente in quanto ente»:

«C’è una scienza che considera l’ente in quanto ente e le proprietà che gli competono in quanto tale. Essa non si identifica con nessuna delle scienze particolari: infatti nessuna delle altre scienze considera l’ente in quanto ente in universale, ma, dopo aver delimitato una parte di esso, ciascuna studia le caratteristiche di questa parte».[2]

Non si tratta di scienze come la Biologia, la quale indaga le proprietà dell’ente in quanto vivente con tutte le sue implicazioni, oppure della Chimica, la quale indaga l’ente circa la sua composizione molecolare ecc. l’Attenzione metafisica non è posta su ciò che riguarda le scienze particolari, ma sull’ente in quanto tale, in maniera universale, per cui sul fatto che l’«ente» è ciò che «è» (id quod est). Dal momento che l’ente è l’id quod est ed è ciò che primeggia maggiormente nella realtà, l’attenzione verterà maggiormente sull’«est» dell’ente, ossia sul fatto che l’ente anzitutto «è». Ciò rimanda ad una certa energia ontologica che pone l’ente, con il suo contenuto, nel reale. Questo vuol dire che l’ente è ciò che prima di tutto primeggia sul nulla. Il gatto non potrebbe miagolare se prima non «è»; il melo non potrebbe portare frutto se prima non «è»; la persona umana non potrebbe possedere queste o quelle qualità se prima non «è». Insomma, se mancasse l’ente mancherebbe anche la nostra capacità di intellezione. Per una breve spiegazione dell’ente, si può cliccare qui.



[1]ARISTOTELE, Metafisica, A 1, 982b, 5-10.  

[2] Ibid., Γ 1, 1003a, 20-23  


venerdì 4 giugno 2021

IL DIABOLOS TRA "PERSONIFICAZIONE" E "PERSONA"

 



Il discorso circa il «diavolo» (dal greco διάβολος, dal tema διαβολ/διαβαλ di διαβάλλω)[1], risulta più che mai complicato, soprattutto al tempo di oggi, dato che pare vi sia un vero e proprio svuotamento non solo di tale realtà ma anche – forse ancor prima – di ciò che la parola «diavolo» indichi.

Nella Scrittura la parola, dall’ebraico דָּבָר (dāḇār), ha una importanza notevole. Da un lato essa esprime il «contenuto» che sta in fondo alla parola stessa, per cui non è possibile separare la parola dal suo contenuto; dall’altro lato esprime una realtà che è disponibile soltanto nella parola.[2]

 Ora, la parola in esame è quella di «diavolo». Lungi dal voler essere un esame esaustivo di tale parola e del suo contenuto – di conseguenza della realtà ben precisa a cui rimanda –, ci si concentrerà su alcuni aspetti presi dal saggio «Alberto Castaldini, Dolore del mondo e mistero di iniquità. Il male in Rm 8,18-39, Aracne editrice, Canterano 2020».

Anzitutto la parola diabolos del Nuovo Testamento (NT) rimanda all’ebraico שָׂטָן (śātān), che è quella che si trova nell’Antico Testamento (AT). La radice di tale parola significa «avversare», «accusare», per cui il satana significa l’«accusatore», l’«avversario» (di Dio). I riferimenti nell’AT sono vari, come ad esempio Gb 1,6-12; Zc 3,1s. Anche nel libro della Sapienza vi è un chiaro riferimento (Sap 2,24), ma il medesimo fu redatto totalmente in greco e circa nel I sec. a. C., per cui non rientra nel canone ebraico. Infatti, non compare שָׂטָן (śātān) ma διάβολος (diabolos).

Nel NT troviamo ugualmente vari riferimenti riguardanti la medesima realtà espressa dalla parola diabolos e dalla parola śātān, espressa anche con altre parole («demonio»; «maligno» ecc.) come ad esempio Mt 4,3; 13,24-30; Mc 5, 1-13; Lc 4,1-13; 10, 14-20; Gv 3,12; 13,27; 17,15 solo per riportarne alcuni, dato che nel NT la parola diavolo compare 37 volte mentre la parola satana compare 36 volte. L’identificazione della stessa realtà espressa dalle due parole è confermata dal libro dell’Apocalisse (12,9): Fu scacciato il grande drago, il serpente antico, che è chiamato il diavolo e il satana […]. Inoltre, in questo passo dell’Apocalisse compare anche il «serpente antico», che si identifica col diavolo o il satana. Pertanto, «serpente antico», «diavolo» e «satana» designano la stessa realtà. Ciò non può non rimandare anche al serpente di Gen 3. Ed ecco che sorge la domanda: come intendere dunque la realtà espressa dalle parole «diavolo» e/o «satana», ma anche da «serpente antico»?

Una prima risposta è fornita, seppure non in maniera assolutamente esplicita, dalla Scrittura stessa.

Quello che emerge è che certamente non si tratta di qualcosa di ambiguo o di «impersonale», dato che l’azione di opposizione, di avversione, di accusatore è svolta da un «soggetto» ben preciso, il principale, ma non è il solo (Cfr. Mt 25,41). Insomma, ci si chiede se il diavolo, se il Satana – con l’iniziale maiuscola in quanto indica un soggetto ben preciso, nominandolo, – sia una «personificazione» del male o una «persona». La questione, per quanto riguarda in particolar modo il diavolo, non è così semplice, ma comunque non è da considerare come un principio alternativo a Dio.[3]

Il percorso storico che ha conosciuto la nozione di «persona» è abbastanza noto, per cui in questa sede non verrà trattato, ma soltanto accennato. Tuttavia è importante notare che il termine «volto», in greco πρόσωπον (prόsopon), in ebraico risulta פָּנִים (pānīm). Di per sé, il volto, rimanda ad un soggetto, il quale non cade neanche in una sorta di anonimato. Ora, se col tempo il πρόσωπον passò ad indicare la «maschera» posta sul volto, il termine stabilito per indicare la «persona» fu quello di «ὑπόστασις» (hypόstasis), che significa «base», «fondamento», «soggetto», «sostanza reale» ecc., per cui indica una realtà ontologica concreta.[4] Infatti, è nota anche la definizione di «persona» di san Severino Boezio: persona est rationalis naturae individua substantia. Al riguardo, è importante precisare in che modo può esser preso il termine «sostanza»: nel primo modo si dice sostanza l’essenza della cosa (quidditas rei) espressa dalla sua definizione (es.: uomo; animale); nell’altro modo si dice sostanza il soggetto o supposito che sussiste nel genere di sostanza (quod subsistit in genere substantiae), indica il sussistente concreto, per cui è detto anche soggetto o supposito (es.: Pietro; Giovanni).[5] Dal punto di vista logico, nel primo modo si tratta della «sostanza seconda», nel secondo modo si tratta della «sostanza prima». Nel caso della persona ci si trova nella sostanza prima, ma il termine persona aggiunge a quello di sostanza la determinazione della natura, cioè la razionalità.[6] Pertanto, la persona significa ciò che di più perfetto/nobile si trova nell’universo, cioè il sussistente nella natura razionale.[7] Ora, ciò che sussiste nella natura razionale è «persona»; ma gli angeli, come emerge anche dalla Scrittura, sono esseri di natura razionale o intellettuale; per cui gli angeli sono «persone». Ma dato che anche il diavolo viene presentato come un essere angelico, si conclude che anch’egli debba essere una «persona», dotato di «personalità».[8]

Pertanto, la persona è il sussistente nella natura razionale, e appunto per questo esprime fortemente l’esistere per sé, avere l’essere per sé, sempre partecipato da Colui che è l’Essere per sé sussistente (Ipsum esse subsistens). Da qui sorge una questione molto interessante: Dio è l’Essere per sé sussistente ed è somma Bontà, che partecipa l’essere al mondo creaturale, e l’essere come atto esprime «perfezione». Ma il diavolo è colui che si frappone, colui che divide e va contro le perfezioni stabilite da Dio, per cui andrebbe anche contro quell’essere che Dio comunica per via partecipativa al mondo creaturale. Infatti, il diavolo o il Satana, non è mai se stesso, anzi è la negazione continua di ogni precisazione del suo essere […]. Come si presenta Mefistofele con una frase lapidaria molto espressiva: «Io sono lo spirito che nega sempre!».[9]

Il diavolo, in radicale opposizione alla possibilità creatrice (che coinvolgerà l’uomo nella “nuova creazione” alla fine del tempo), si conferma il principale costante nemico del progetto divino edificato sull’amore e sulla libertà.[10]

Per cui l’azione del diavolo è anche una vera azione di spersonalizzazione nei confronti dell’uomo, che smarrisce se stesso aderendo a questi, al suo piano di morte.[11] In merito a questo smarrimento, Joseph Ratzinger (Papa Benedetto XVI) si esprime chiaramente riguardo alla considerazione del «peccato» in questi ultimi anni:

il peccato è uno dei temi su cui regna un perfetto silenzio. La predicazione religiosa cerca di evitarlo accuratamente. Il teatro e la cinematografia utilizzano il termine in senso ironico e come tema di intrattenimento. La sociologia e la psicologia cercano di smascherarlo come un’illusione o un complesso. Persino il diritto tenta di fare sempre più a meno della nozione di colpa e preferisce servirsi di una terminologia sociologica, che riduce l’idea del bene e del male a un dato statistico e si limita a distinguere tra comportamento normale e comportamento deviante. Ciò implica che le proporzioni statistiche possono anche capovolgersi: quel che oggi è la deviazione può un giorno diventare la regola […].[12]

Altro punto, molto interessante e messo in luce nel saggio, è quello riguardante l’«anomos» [ἄνομος, da ἀ- privativo e νόμος], che vuol dire «senza legge», «ingiusto», che è strettamente connesso ad ἀνομία (anomia), ossia «illegalità», «ingiustizia», «empietà».[13] Dunque un tratto importante da considerare è che il diavolo cercherà sempre di confondere la giustizia con l’iniquità, con lo scopo dello smarrimento dell’uomo e affinché l’umanità non sappia capacitarsi della persistenza della propria sofferenza in un mondo che fu creato per la sua felicità. E nonostante ciò è l’uomo stesso che lo permette con l’adesione ai piani dell’iniquità.[14] Ma in principio era il Logos, Colui che non è solo Via e Verità, ma anche Vita, e l’ultima parola non spetta alla morte ma alla Vita (Cfr. Ap 1,17-18).

Per concludere, certamente occorre approfondire l’aspetto riguardante l’ἄνομος (anomos), dato che ciò rimanda senza dubbio al piano «morale», che gode di una importanza notevole e che spesse volte, purtroppo, subisce una vera e propria distorsione a causa di un vero e proprio snaturamento. Allora è da considerare, poiché questo aspetto riguarda l’ἀνομία, ciò che concerne non soltanto la legge morale naturale ma ancor prima la Legge eterna di Dio, poiché colui che è l’ἄνομος si pone già contro la Legge di Dio, e di conseguenza contro la legge naturale partecipata da Dio all’uomo. Ora, poiché ogni agente agisce per un fine (omne agens agit propter finem), e il primo principio della ragione pratica si fonda sulla nozione di «bene», che è ciò che tutte le cose desiderano, il primo precetto della legge è che bisogna «fare e cercare il bene e bisogna evitare il male». Su questo si fondano gli altri precetti.[15] Ed è appunto per questo che occorre prestare attenzione all’aspetto dell’ἀνομία, dacché si pone contro ogni forma di legge, compresa quella (morale) naturale, e di conseguenza contro il bene. Non solo, ma l’adesione umana all’ἄνομος certamente avrebbe modo di sfociare in una legge (umana positiva) contro la legge naturale, sulla quale invece dovrebbe fondarsi. Ma in tal modo non si avrebbe più una legge, bensì corruzione della legge.[16] Per cui è importante l’approfondimento, considerando ciò che molto spesso si cerca – non a caso – di negare: la «libertà», che ha a che fare fortemente con il subsistens in rationali natura, ossia la «persona», e in questa si fondamenta, la quale trova il suo fondamento ultimo in «Ego sum qui sum» (Es 3,14).



Gabriele Cianfrani



[1] Dal Vocabolario etimologico e ragionato del Romizi. Pertanto, διαβάλλω vuol dire «getto attraverso», «metto discordia», «calunnio», «accuso». Evince l’aspetto di separazione, di mettersi di traverso.

[2] Cfr. AA. VV., Nuovo dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Piemme, Casale Monferrato (AL) 20052, p. 772.

[3] Cfr. A. Castaldini, Dolore del mondo e mistero di iniquità. Il male in Rm 8,18-39, Aracne editrice, Canterano 2020, pp. 32-33.

[4] È importante il fatto che il percorso della nozione di «persona» sia avvenuta certamente per mezzo di speculazioni filosofiche, ma le esigenze erano fortemente teologiche (trinitarie e cristologiche). Infatti, ci troviamo nei primi secoli del Cristianesimo, meglio ancora nei primi Concilȋ: Nicea I (325 d.C.); Costantinopoli I (381 d.C.); Efeso (431); Calcedonia (451). Al riguardo va espresso il contributo determinante dei Padri Cappadoci san Basilio, san Gregorio di Nissa e san Gregorio di Nazianzo.

[5] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia, q. 29, a.2.

[6] Cfr. Ibid., IIIa, q. 2, a. 3.

[7] Ibid., Ia, q. 29, a. 3. In questa definizione san Tommaso perfeziona quella di san Severino Boezio.

[8] In questa sede non ci si sofferma sulla gerarchia angelica risalente allo Pseudo-Dionigi l’Areopagita (De Coelesti Hierarchia) e sul posto gerarchico del Satana, che comunque viene identificato con Lucifero (per esempio in Origene, san Gregorio di Nazianzo, san Girolamo, sant’Anselmo d’Aosta e altri). In ogni caso il Catechismo della Chiesa Cattolica riporta che all’inizio era un angelo buono, creato da Dio, come gli altri angeli ribelli, ma che da se stessi si sono trasformati in malvagi (Cfr. CCC., n. 391).

[9] R. Lavatori, Satana, l’angelo del male, La fontana di Siloe, Torino 2018, p. 521.

[10] A. Castaldini, Dolore del mondo e mistero di iniquità. Il male in Rm 8,18-39, Aracne editrice, Canterano 2020, p. 60.

[11] Cfr. Ibid., p. 32.

[12] J. Ratzinger (Benedetto XVI), In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato, Lindau, Torino 2006, pp. 86-87.

[13] Cfr. A. Castaldini, Dolore del mondo e mistero di iniquità. Il male in Rm 8,18-39, Aracne editrice, Canterano 2020, p. 19. Il testo rimanda anche a 2Ts 2,8 in cui: l’«empio» (ἄνομος) sarà rivelato e il Signore Gesù lo distruggerà col soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta. Tale contesto sarebbe quello riguardante la figura dell’anticristo.

[14] Cfr. Ibid., p. 79.

[15] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia-IIa, q. 94, a.2.

[16] Cfr. Ibid., q. 95, a. 2.