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venerdì 15 aprile 2022

AGNUS DEI QUI TOLLIS PECCATA MUNDI


 

Il titolo «Agnus Dei qui tollis peccata mundi» rimanda a quella seconda parte della liturgia, ossia alla «Liturgia Eucaristica», preceduta dalla «Liturgia della Parola». In particolar modo ci troviamo in quel momento solenne della «fractio panis» (= frazione del pane), durante il quale si pronunciano le seguenti parole: «Agnus Dei qui tollis peccata mundi» (= Agnello di Dio che togli i peccati del mondo). È un momento estremamente importante, che merita riflessione, durante il quale si presenta il Cristo come l’«Agnello di Dio». Certamente si capisce che in tal caso il Cristo stesso viene presentato come il vero agnello sacrificale, a differenza degli agnelli che venivano sacrificati nell’Antico Testamento. Al riguardo, ci sono dei particolari riscontrabili nei Vangeli che sono davvero sorprendenti, soprattutto confrontando i Vangeli sinottici (Matteo, Marco, Luca) con il Vangelo secondo Giovanni. Vediamo brevemente cosa emerge da alcuni estratti dei rispettivi racconti in merito al giorno dell’ultima cena e della crocifissione di Gesù.

 

Dal Vangelo secondo Marco:

- Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?» (14,12).

- Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici. Ora, mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà» (14,17-18).

- Venuta ormai la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d'Arimatea, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anch'egli il regno di Dio, con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù (15,42-43).

 

Dal Vangelo secondo Matteo:

- Terminati tutti questi discorsi, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi sapete che fra due giorni è la Pasqua e il Figlio dell'uomo sarà consegnato per essere crocifisso». Allora i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo si riunirono nel palazzo del sommo sacerdote, che si chiamava Caifa, e tennero consiglio per catturare Gesù con un inganno e farlo morire. Dicevano però: «Non durante la festa, perché non avvenga una rivolta fra il popolo» (26,1-5).

- Il primo giorno degli Azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Ed egli rispose: «Andate in città da un tale e ditegli: «Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli»». I discepoli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua (26, 17-19).

- Il giorno seguente, quello dopo la Parasceve, si riunirono presso Pilato i capi dei sacerdoti e i farisei, dicendo: «Signore, ci siamo ricordati che quell'impostore, mentre era vivo, disse: «Dopo tre giorni risorgerò». Ordina dunque che la tomba venga vigilata fino al terzo giorno, perché non arrivino i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: «È risorto dai morti» (27,62-64).

 

Dal Vangelo secondo Luca:

- Venne il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la Pasqua. Gesù mandò Pietro e Giovanni dicendo: «Andate a preparare per noi, perché possiamo mangiare la Pasqua» (22,7-8).

- Ed ecco, vi era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, buono e giusto. Egli non aveva aderito alla decisione e all'operato degli altri. Era di Arimatea, una città della Giudea, e aspettava il regno di Dio. Egli si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo depose dalla croce, lo avvolse con un lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia, nel quale nessuno era stato ancora sepolto. Era il giorno della Parasceve e già splendevano le luci del sabato (23,50-54).

 

Questi passi sono stati estratti dai Vangeli sinottici. Nonostante nella Bibbia si trovi come primo Vangelo quello secondo Matteo, secondo gli ultimi studi sulla redazione degli stessi, risulta che quello secondo Marco sarebbe più antico. Non è il caso di entrare nel campo delle varie teorie o proposte di redazione dei Vangeli, ma pare che sull’antichità di Marco concordino la maggior parte degli studiosi.

Cosa si può dedurre dai brani scelti? Non è ancora possibile esprimersi più di tanto, in quanto occorre richiamare il contenuto del libro dell’Esodo e del libro dei Numeri.

 

Dal libro dell’Esodo:

- Il Signore disse a Mosè e ad Aronne in terra d'Egitto: «Questo mese sarà per voi l'inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell'anno. Parlate a tutta la comunità d'Israele e dite: «Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. Se la famiglia fosse troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, il più prossimo alla sua casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l'agnello secondo quanto ciascuno può mangiarne. Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell'anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo conserverete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l'assemblea della comunità d'Israele lo immolerà al tramonto. Preso un po' del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull'architrave delle case nelle quali lo mangeranno. In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare […]» (12,1-8).

- «Osservate la festa degli Azzimi, perché proprio in questo giorno io ho fatto uscire le vostre schiere dalla terra d'Egitto; osserverete tale giorno di generazione in generazione come rito perenne. Nel primo mese, dal giorno quattordici del mese, alla sera, voi mangerete azzimi fino al giorno ventuno del mese, alla sera […]» (12,17-18).

- «Osserverai la festa degli Azzimi. Per sette giorni mangerai pane azzimo, come ti ho comandato, nel tempo stabilito del mese di Abìb: perché nel mese di Abìb sei uscito dall'Egitto […]» (34,18).

 

Dal libro dei Numeri:

- Il Signore parlò a Mosè nel deserto del Sinai, il secondo anno dalla loro uscita dalla terra d'Egitto, nel primo mese, e disse: «Gli Israeliti celebreranno la Pasqua nel tempo stabilito. La celebrerete nel tempo stabilito, il giorno quattordici di questo mese tra le due sere; la celebrerete secondo tutte le leggi e secondo tutte le prescrizioni». Mosè parlò agli Israeliti perché celebrassero la Pasqua. Essi celebrarono la Pasqua il giorno quattordici del primo mese tra le due sere, nel deserto del Sinai. Secondo quanto il Signore aveva ordinato a Mosè, così fecero gli Israeliti (9,1-5).

 

Ecco che le cose iniziano a schiarirsi. Anzitutto si capisce che la data della Pasqua ebraica cadeva il giorno 14, tra le due sere (14 e 15), del mese di Abìb, successivamente chiamato «Nisan». Proprio in tale data venivano immolati gli «agnelli» per la Pasqua, per cui veniva celebrata la Pasqua del Signore.

Dai brani estratti dai Sinottici si pone in evidenza la «Parasceve», ossia il giorno che precede il sabato settimanale o un sabato festivo, che solitamente cade di venerdì.

Secondo alcune osservazioni, in merito alla immolazione degli agnelli per la celebrazione della Pasqua, questa cadde in un giovedì. Dopo il tramonto sarebbe iniziata la Pasqua, perciò Gesù consumò il pasto nella notte tra giovedì e venerdì, poi fu arrestato. Pertanto, nel giorno di venerdì fu crocifisso, in quel venerdì in cui cadeva la Pasqua. Venne la Parasceve, ossia la vigilia del sabato, e Giuseppe d’Arimatea chiese che gli fosse consegnato il corpo di Gesù. Al sopraggiungere della Parasceve, della vigilia del sabato, Gesù era già stato crocifisso. Insomma, in seguito ad alcune osservazioni risulta che nella cronologia dei Sinottici la crocifissione di Gesù sarebbe avvenuta venerdì, per cui il giovedì corrisponderebbe al 14 di Abìb e il venerdì al 15 di Abìb, in piena festività pasquale, che cadeva di venerdì.

Ciò ha sollevato alcuni problemi, dato che risulta alquanto problematico il fatto che la crocifissione potesse avvenire proprio nella festa di Pasqua. Infatti, il problema viene sollevato proprio nel Vangelo secondo Marco:

- Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturarlo con un inganno per farlo morire. Dicevano infatti: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo» (Mc 14,1-2).

Come risolvere questo problema che alcune osservazioni hanno fatto emergere? Proviamo a leggere alcuni brani tratti dal Vangelo secondo Giovanni.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni:

- Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine (13,1).

- Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l'alba ed essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua (18,28).

- E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui colpa alcuna. Vi è tra voi l'usanza che, in occasione della Pasqua, io rimetta uno in libertà per voi: volete dunque che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?» (18,38-39).

- Era la Parasceve della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!». Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?». Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare». Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso (19,14-16a).

- Era il giorno della Parasceve e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato - era infatti un giorno solenne quel sabato -, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via (19,31).

- Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatea, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù (19,38).

- Il primo giorno della settimana [«il giorno dopo il sabato»], Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro (20,1).

 

Dal quarto Vangelo emergono alcuni dati: il 14 e il 15 di Abìb non corrispondono al giovedì e al venerdì, come nei Sinottici, ma al venerdì e al sabato, il quale sabato era un giorno solenne (Cfr. Gv 19,31). Coloro che condussero Gesù da Pilato non vollero entrare nel Pretorio, così da non contaminarsi per poter mangiare la Pasqua, dunque ci si trova prima della Pasqua. La Parasceve è la vigilia del sabato, e proprio in tal momento vi fu la crocifissione, sicché ci si trova sempre di venerdì, come nei Sinottici. Il punto è che in Giovanni la Pasqua si estende dalla sera del venerdì alla sera del sabato – era anche la Parasceve della Pasqua –, mentre nei Sinottici si estende dalla sera del giovedì alla sera del venerdì. Nei Sinottici quel venerdì coincide con la festività pasquale, per Giovanni coincide con il giorno in cui venivano immolati gli agnelli per la festività pasquale. Questo è lo sfasamento cronologico tra i Sinottici e Giovanni che alcuni studiosi hanno fatto emergere, nonostante i fatti siano stati gli stessi.

 

Sinottici: 13 Abìb (mercoledì) – 14 Abìb (giovedì – ultima cena) – 15 Abìb (venerdì – Pasqua – crocifissione) – 16 Abìb (sabato);

Giovanni: 13 Abìb (giovedì – ultima cena) – 14 Abìb (venerdì – Parasceve – crocifissione) 15 Abìb (sabato – Pasqua).

 

Dopo tutto ciò, alcuni studiosi hanno cercato di armonizzare le due cronologie, ma vi è una certa preferenza per quella riportata nel Vangelo secondo Giovanni. Inoltre, bisogna doverosamente osservare anche una nota teologica molto profonda riportata nel quarto Vangelo: quel venerdì in cui Gesù fu crocifisso era anche il venerdì in cui si immolavano gli agnelli per la Pasqua. Vi è da pensare che non si tratti solo di una nota teologica alquanto profonda, come del resto la profondità innegabile di alcuni passi del quarto Vangelo, ma di una nota avente a che fare con quanto avvenne storicamente. Ed ecco che quell’«Agnus Dei qui tollis peccata mundi» acquista tutta la sua forza, in quanto il Cristo stesso diviene l’Agnello pasquale per la piena e definitiva Pasqua, l’Agnello della Nuova Alleanza, che culminerà nella sua gloriosa risurrezione.


Gabriele Cianfrani

mercoledì 16 marzo 2022

UNO SGUARDO SULLA FEDE


 

La parola «fede» è quanto mai comune e spesse volte pare sia avvolta da una nebbia che impedisca di coglierne la chiarezza, la profondità, la solidità che tale parola implica. Ci si chiede soprattutto se avere fede sia ragionevole oppure no; se l’atto di fede sia verso l’ignoto o verso una realtà concreta; se la fede goda di inesprimibilità oppure no. Tutto questo per poi giungere al tanto atteso rapporto tra scienza e fede, tra ragione e fede. Anzitutto, porre la fede da una parte e la ragione da un’altra non è corretto, per il semplice fatto che la fede suppone la ragione e la eleva, cosa che si vedrà a breve. Pertanto, cosa vuole indicare la parola fede? Si ritiene opportuno partire da preziose distinzioni terminologiche che si riscontrano nel testo biblico, per poi procedere con la riflessione all’interno della fede stessa.

Nel testo biblico, in riferimento alla «fede», si riscontrano soprattutto due parole: ʼāman (אמן) e baṭaḥ (בטח). La prima parola, ʼāman, è forse la più importante per esprimere il radicamento della fede, dal momento che tale parola vuol dire «credere» e da cui deriva il nostro amen che pronunciamo al termine di ogni preghiera. Contrariamente a quanto si pensa, la parola amen vuol dire «è così», «così dev’essere», «dev’essere certo» ecc. Pertanto, non sarebbe tanto corretto tradurre amen con «così sia», ma con «così è». Il motivo è che l’ebraico ʼāman sta ad indicare la fermezza, la solidità, l’attendibilità di ciò che si crede, espressa soprattutto dal «padre di tutti coloro che credono», ossia Abramo (Cfr. Rm 4,11). Se qualcuno provasse a soffermarsi su quell’amen alla fine di una qualsiasi preghiera (ad esempio l’Ave Maria) e dicesse «così sia», si renderebbe conto di quanto suoni strano. Certo, poiché il «così sia» esprime il volere che una cosa sia tale, in futuro, ma che in quel momento ancora non è. Domanda: Maria è già piena di grazia oppure dovrà esserlo? Lo è già, ovviamente, da un po' di tempo e lo sarà per sempre. Per cui «è così», «così è». Così come per quanto riguarda il «Credo» (il Simbolo Apostolico o quello Niceno-Costantinopolitano), che più di ogni altra preghiera esprime la fede cristiana, o meglio, il fondamento e il contenuto della fede cristiana. Ciò che si pronuncia durante il «Credo» è appunto creduto fermamente, saldamente, per cui ci troviamo in ciò che è espresso dalla parola ʼāman. Il «così sia», soprattutto in merito al «Credo», non gode di piena correttezza, poiché non riguarda un compimento futuro, dato che Dio è tale dall’eternità e tutta la storia della salvezza, che ha principalmente Dio come autore, gode di piena solidità. Non si rischia nulla con il «così sia», ci mancherebbe, ma non sarebbe male se lo si pronunciasse tenendo in mente l’originale ʼāman. Certamente occorre riportare che il «così sia» può indicare anche la disposizione da parte di colui che prega affinché si compia ciò che viene espresso nella preghiera, come nel Salmo 41: «Sia benedetto il Signore, Dio d'Israele, da sempre e per sempre. Amen, amen» (v.14); come anche in Geremia 28,6. Tuttavia, nonostante le sfumature del termine e l'accostamento al soggetto orante affinché si compia ciò che è contenuto nella preghiera, il senso principale di ʼāman (da cui il nostro amen) riguarda ciò in cui si crede, Colui in cui si crede, che gode di stabilità, di fermezza, di certezza, di verità, senza possibilità di alterazione. 

Tale senso di solidità, di attendibilità, di credibilità riguarda anzitutto Dio, così come traspare soprattutto da quel momento storico in cui Abramo uscì da Ur dei Caldei su richiesta di Dio (Cfr. Gen 12,1-3), credendo fermamente in Lui, dacché la solidità risiede in Dio stesso. Il tutto viene espresso molto bene in 2Sam 22,2-3: «Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore, mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio; mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo, mio nascondiglio che mi salva, dalla violenza tu mi salvi». È questa solidità che risiede nel Signore, il quale si è manifestato evidentemente con parole e opere, che viene espressa dalla parola ʼāman, parole e opere che hanno portato il salmista ad esprimersi precisamente: «Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore, che ha fatto cielo e terra» (Sal 121,1-2). Non un credere nell’ignoto, ma credere in Colui che è saldo come la roccia, o meglio, in Colui che ha conferito solidità alla roccia stessa, in quanto Egli l’ha fatta. Egli è il Dio fedele, il Dio di verità (Cfr. Is 65,16). Ma il riferimento può essere anche nei confronti di un testimone fedele (Cfr. Pr 14,5) o di chi risulta degno di fede, e chi risulta più degno di fede è Dio.

Ora, chiarito ciò a cui la parola ʼāman rimanda (credere stabilmente), seppure con una certa brevità, occorre soffermarsi sulla seconda parola: baṭaḥ. Per far ciò, si riportano alcuni passi: «Chi confida nel Signore è come il monte Sion: non vacilla, è stabile per sempre» (Sal 125,1); «Ecco, Dio è la mia salvezza; io confiderò, non temerò mai, perché mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza» (Is 12,2); «Offrite sacrifici legittimi e confidate nel Signore» (Sal 4,6). Al credere stabilmente nel Signore, la cui credibilità è data dal fatto che è il Signore, segue l’«atteggiamento del credente». Il credente è colui che confida nel Signore, si fida del Signore perché saldo è ciò in cui crede, e orienta la propria volontà verso Colui la cui volontà è salvifica. Credere nelle parole del Signore perché è il Signore. Perciò, baṭaḥ sta ad indicare l’aspetto del fedele, il suo atteggiamento, che lo impegna totalmente, come risulta dal bellissimo passo del Deuteronomio: «amerai il Signore con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze» (6,5). Inoltre, l’atteggiamento di colui che crede deve essere stabile così come è stabile ciò in cui crede: «[…] davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno. Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,8-9).

Ci sarebbe tanto altro da aggiungere, ma bisogna accontentarsi. Quel che emerge è che il credente ripone la sua fede in ciò che è «degno di fede», in ciò che è «saldo», altrimenti non ci sarebbe motivo per credere. Pertanto, da quanto riportato, risultano due aspetti importanti della fede: a) la realtà stabile in cui si crede, con la possibilità di credere ragionevolmente a ciò che comunque oltrepassa la ragione creaturale, ma che gode di conoscibilità; b) la fiducia da parte di colui che crede, che lo impegna integralmente, considerando che ciò in cui crede è stabile e perciò può fidarsi della sua parola.

In latino, al termine ʼāman corrispondono fidescredereveritas; al termine baṭaḥ corrispondono spessperareconfido (Cfr. X. Leon-Dufour, Dizionario di Teologia Biblica, Marietti 1965, p. 326. Titolo originale: Vocabulaire de Theologie Biblique, Les Editions du Cerf).

A questo punto è alquanto obbligatorio inserire colei in cui la fede ha trovato la sua massima espressione: la Vergine Maria. Due passi risultano estremamente incisivi: l’annuncio dell’angelo a Maria (Lc 1,26-38) e il successivo saluto di Elisabetta (Lc 1,39-45).

Due passi che richiederebbero un trattato, per cui si cercherà di evidenziare solo alcuni aspetti.

Il primo è quello riguardante l’annuncio dell’angelo, al quale Maria crede fermamente e sapientemente, constatando la solidità del contenuto del messaggio, lei che più di ogni altra creatura era in piena sintonia con la volontà di Dio. Il secondo punto, riguardante il coinvolgimento pieno di Maria, viene reso manifesto dalle parole di Elisabetta: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? […] E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (Lc 1,42-45). Al riguardo, risultano importanti le parole di san Giovanni Paolo II:

Nell’annunciazione, infatti, Maria si è abbandonata a Dio completamente, manifestando «l’obbedienza della fede» a colui che le parlava mediante il suo messaggero e prestando «il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà». Ha risposto, dunque, con tutto il suo «io» umano, femminile, e in tale risposta di fede erano contenute una perfetta cooperazione con «la grazia di Dio che previene e soccorre» e una perfetta disponibilità all’azione dello Spirito Santo, il quale «perfeziona continuamente la fede mediante i suoi doni» (Redemptoris mater, 13).

Estremamente importante il fatto che anche l’atto di credere è supportato da Dio, dalla sua grazia.

Inoltre,

Maria ha pronunciato questo fiat mediante la fede. Mediante la fede si è abbandonata a Dio senza riserva e «ha consacrato totalmente se stessa, quale ancella del Signore, alla persona e all’opera del Figlio suo». E questo figlio – come insegnano i Padri – l’ha concepito prima nella mente che nel grembo: proprio mediante la fede! (Ibid.).

Questo è ciò che emerge, brevemente, da uno sguardo sulla «fede». Si dovrà trattare l’argomento in modo più sistematico, ma per questo si richiede altro spazio, includendo ciò che comporta l’atto di fede e l’aspetto circa la «ragionevolezza della fede».



Gabriele Cianfrani 

venerdì 25 febbraio 2022

COMPRENDERE INCOMPRENSIBILMENTE IL COMPRENSIBILE

febbraio 25, 2022 Posted by Gabriele Cianfrani , , No comments


 

Un titolo, quello sopra, che pare non abbia possibilità alcuna di giustificazione. Eppure non è così. Potrebbe anche sembrare un gioco di parole, per certi aspetti lo è, ma ha la sua giustificazione. Tante sono le volte – forse troppe – in cui si ascoltano parole adoperate in modo quasi del tutto avulso da ciò che quella parola significa, col risultato della mancata comunicazione o di una comunicazione, come dire, storpiata.

Probabilmente non tutti condivideranno ciò che seguirà, ma non è neanche possibile che un pensiero sia condiviso generalmente, tanto meno rincorrere questo esito.

Ora, appoggiandomi ad alcuni autori che hanno già espresso la loro posizione, vorrei esprimere anche la mia.

Da alcuni anni a questa parte, parole come «smart working», «election day», «jobs act», «covid free», «lockdown», «smart key», «fake news» e tante altre hanno fatto irruzione, o meglio, sono state poste prepotentemente nel linguaggio comune. Pare sia emersa anche una parola come «smartabile». Non nascondiamo nulla, dato che soprattutto il mondo della politica sta sfoderando ciò. Ma ci tengo a precisare una cosa, ossia che non mi pongo neanche minimamente contro l’uso di tali parole e di altre – contro «smartabile» ovviamente sì –, ma non sarebbe affatto male se ciò fosse fatto in contesti che ne richiedano l’uso, e si tratta di contesti non italiani. Se infatti si provasse ad ascoltare traduzioni di discorsi americani o inglesi, ci si renderebbe conto che tutto viene tradotto ad eccezione di parole come quelle sopra riportate. Faccio un esempio: gli americani si preparano per l’election day! Perché non si traduce anche «election day»? Cosa ci sarebbe di male nel farlo? Da cosa dipende la non traduzione? Ricordo quando seguivo un corso di laurea e puntualmente spuntavano fuori parole come «debridement» (sbrigliamento), «follow-up» (continuare, seguire, approfondire) e roba simile. Mi chiedo per quale motivo alcune parole non vengano tradotte. Certamente il riferimento non è a tutto, l’esclusione riguarda, ad esempio, nomi propri e altro.

Ciò a cui si assiste è un crescendo dell’uso di parole straniere moderne fino a non reperire più quelle italiane corrispondenti, con il risultato di non riuscire più ad esprimersi agevolmente. Sono consapevole che una lingua non emerga all’improvviso, ma sarebbe bene se si difendesse la propria tradizione letteraria, che contribuisce ad evidenziare caratteristiche culturali e far sì che si verifichi un vero arricchimento culturale. Da preferire parole latine o greche, le quali racchiudono quella ricchezza linguistica dalla quale non si può prescindere. Preciso ancora la non contrarietà dell’utilizzo di parole inglesi o di altra lingua, ma sarebbe cosa buona se si evitasse di inserirle così tante volte in discorsi italiani a tal punto da rischiare di non trovare parole italiane per esprimere quanto si vuole esprimere, con l’unica soluzione di fare ricorso a parole di altra lingua. Non costituisce una tragedia adoperare parole come «followers», «chat», «tout court», «chapeau», ci mancherebbe, ma non andrei verso l’eccesso.

Altro punto, forse quello principale, riguarda espressioni con parole che non hanno nulla a che vedere con il contesto nel quale vengono poste. Faccio un esempio: «è un’apocalisse!»; «egli è molto umano, ha una grande umanità»; «abbiamo creato...» e altro. Ci sarebbe tanto da discutere anche sulla «intelligenza artificiale», dato che si fatica a capire come queste due parole possano stare insieme, ma ciò non può essere trattato, dato che l’argomento è molto vasto e richiederebbe molto tempo. Per quanto riguarda l’«essere molto umano», verrebbe da chiedersi se l’«umanità» in quanto tale possa subire aumenti o diminuzioni. Non mi pare che un essere umano possa essere più o meno umano di un altro, nonostante vi saranno differenze: uno è più clemente di un altro, più crudele, più o meno emotivo ecc. Tuttavia, non è trascurabile questo aspetto, dato che non poche volte si tende ad umanizzare ciò che umano non è, ma anche il contrario, disumanizzare ciò che è umano.

La «parola» esterna non è altro che il verbum exterius che si radica nel verbum interius, ossia nella «parola interna». La «parola esterna» è appunto segno della «parola interna», che in tal modo diventa esterna e di conseguenza comunicabile, diventa espressione linguistica concreta. Ma la «parola interna» rimanda alla dimensione del «pensiero», alla dimensione intellettiva della conoscenza, che a sua volta rimanda alla realtà. Inoltre, sono sempre rimasto affascinato dagli «atti della mente», che si trovano sul piano intellettivo e sono quelle operazioni della mente che godono di una certa importanza. Sono tre: semplice apprensione, giudizio e ragionamento. Vediamo brevemente le tre operazioni.

- Semplice apprensione: atto della mente che coglie un aspetto della realtà (animale, vegetale, spirituale, anima ecc.), senza esprimere affermazioni o divisioni. L’«operato» che si trova ancora nella mente si chiama concetto, che non è ancora oggetto di conoscenza, ma strumento per la conoscenza. L’«espressione linguistica» si chiama termine (parola);

- Giudizio: esso è componente o dividente, ossia attribuisce un termine ad un altro oppure lo nega (es. «il gatto è un felino» o «il gatto non abbaia»). L’«operato» del giudizio si chiama enunciazione, mentre l’«espressione linguistica» si chiama proposizione;

- Ragionamento: esso consta degli atti del giudizio, i quali atti nel ragionamento son posti in maniera discorsiva, cioè in modo da discorrere su quegli atti che in tal caso vengono posti come premesse. L’«operato» è un’argomentazione intelligibile, mentre l’«espressione linguistica» è appunto un’argomentazione linguistica. Si tratta del famoso «sillogismo», che è un ragionamento: «gli alberi sono piante, la quercia è un albero, dunque la quercia è una pianta»; «l’anima intellettiva è spirituale e immortale, l’anima umana è intellettiva, dunque l’anima umana è spirituale e immortale».

 

Evidentemente quando parliamo non ci soffermiamo su ogni atto della mente, ma tali atti sono collegati.

Per concludere, ognuno può svolgere la sua analisi, ma non sarebbe male se vi fosse più accortezza nel parlare in modo più chiaro e senza l’inclusione di termini che starebbero ad esprimere una sorta di «tecnicismo», che tale non è, dal momento che ci sono parole italiane con le quali tradurre ciò che occorre. Vi sono anche parole difficilmente traducibili, ma questa è un’altra storia.  


Gabriele Cianfrani 

sabato 1 gennaio 2022

MARIA SS. MADRE DI DIO


 

La «maternità divina di Maria» (in greco Θεοτόκος, da Θεός e τόκος, a sua volta dal tema τοκ di τίκτω, ossia «genero») è considerata la verità principale in merito alla Vergine, oltre ad essere il primo dogma mariano e quello fondante. Al riguardo, sarebbe opportuno chiedersi come mai la Vergine Maria possa essere chiamata «Madre di Dio». Infatti, il tutto rimanda all’incarnazione del Verbo nel grembo di Maria, fondamentale in ambito cristologico e soteriologico (riguardante la salvezza).

Occorre un trampolino di lancio per riportare alcuni tra i dati più importanti sulla «maternità divina di Maria», e le parole del Sommo Poeta (Dante Alighieri) costituiscono un trampolino perfetto:

 

«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,

umile e alta più che creatura,

termine fisso d’etterno consiglio,

 

tu se’ colei che l’umana natura

nobilitasti sì, che ‘l suo fattore

non disdegnò di farsi sua fattura.

 

Nel ventre tuo si raccese l’amore,

per lo cui caldo ne l’etterna pace

così è germinato questo fiore»

 

(Paradiso, canto XXXIII, vv. 1-9)

 

Il primo dogma mariano, ossia quello della Θεοτόκος, fu stabilito al concilio di Efeso nell’anno 431 d.C. Un momento importante fu quello che vide coinvolti il patriarca di Costantinopoli Nestorio (386 – 451 d.C.) e il patriarca di Alessandria d’Egitto Cirillo (370 ca. – 444 d.C). In base all’unione delle due nature in Cristo (divina e umana), Nestorio propendeva per una posizione talmente marcata da considerare in Cristo due persone. Del resto, Maria ha generato l’umanità di Cristo e non la sua divinità, per cui sembra che tutto sia corretto. Eppure vi è un aspetto molto importante, o meglio, fondamentale: l’«unione ipostatica» del Verbo. Sarà questa la posizione di Cirillo di Alessandria, seppure con una terminologia che richiede attenzione e per la quale si ritiene opportuno rimandare ad un prossimo articolo, così da riportare tutto in modo abbastanza puntuale.

Con l’espressione «unione ipostatica» si rimanda al tema dell’incarnazione del Verbo, maggiormente al modo attraverso cui vi è stata l’unione delle due nature in Cristo. Ciò è avvenuto mediante l’assunzione della natura umana da parte della Persona del Verbo («ipostasi» viene dal greco, in latino «persona»). Vi è un’unica Persona, ossia quella eterna del Verbo, che dopo l’incarnazione presenta due nature, quella divina e quella umana, ma il Soggetto è uno e la natura umana sussiste nella Persona del Verbo. Per quanto riguarda la natura divina, questa coincide con la stessa Persona del Verbo per via della «semplicità» in Dio, in cui non vi è composizione ontologica, ma solo distinzione di relazione con il Padre e lo Spirito Santo, per cui in Dio la relazione è sussistente, in noi no.

Per quanto riguarda la natura umana, il Verbo carne divenne (Gv 1,14) assumendola, facendo sì che il Soggetto della natura umana sia non una persona umana ma la stessa Persona del Verbo. In poche parole, attribuire un’ipostasi alla natura umana di Cristo equivale ad attribuirle una persona propria, una sussistenza propria. Semmai si attribuisse ciò, allora in Cristo si troverebbero due persone con due sussistenze proprie, ma ciò costituisce appunto l’«eresia nestoriana». Tale eresia, che ha come esponente Nestorio, prevede l’unione di due persone in Cristo e non l’unione di due nature nell’unico Soggetto del Verbo incarnato. Da ciò deriva la posizione, da parte di Nestorio, di non chiamare Maria Θεοτόκος ma Χριστοτόκος, per cui non «Madre di Dio» ma «Madre di Cristo», madre della persona umana e non della Persona divina.

Occorre precisare che a quel tempo tanti termini e tante ricerche che per noi oggi sono note e che abbiamo a portata di mano non godevano di tanta chiarezza, nel V secolo d.C. non tutto era così lampante. Inoltre, se ancora oggi vi sono dei passaggi che risultano difficili, figuriamoci a quel tempo. Come ho scritto, vi è da porre attenzione all’uso di parole che furono adoperate in questa ricerca, alcune delle quali trovarono corretto impiego successivamente.

Ora, la Scrittura riporta che il Verbo è venuto nella carne (Cfr. Gv 1,14; 1Gv 4,2) e che si tratta del Figlio di Dio nato da donna (Cfr. Gal 4,4; Lc 1,31-35). Senza contare le parole con le quali Elisabetta saluta Maria, che non lasciano dubbi: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?» (Lc 1,42-43). Pertanto, non solo compare il titolo di «Signore», riservato solo a Dio, ma Elisabetta saluta Maria come «Madre del suo Signore», ossia come «Madre di Dio». Sono dati della Scrittura abbastanza eloquenti, ma che consentono e richiedono di capire perché Maria non è solo madre della natura umana di Cristo ma Madre di Dio.

A questo punto vi è quel documento fondamentale del Papa san Leone Magno (390 ca. – 461 d.C) dal titolo Tomus ad Flavianum, ed è il documento imprescindibile per la comprensione del primo dogma mariano proclamato ad Efeso. In tale documento è riportata una base dottrinale fondamentale, quella della «communicatio idiomatum», vale a dire la «comunicazione degli idiomi (proprietà)». Perciò, «il Soggetto dell’unione (ipostatica) è il Verbo eterno e ciascuna delle nature compie ciò che le è proprio, restando in comunione con l’altra». Il tutto scaturisce proprio dall’Incarnazione. L’unità in Cristo, che consta di aspetti umani e divini, si devono affermare del medesimo Soggetto: il Verbo incarnato. A questo punto, per il fatto che la natura umana è stata assunta dal Verbo e Maria ha concepito e partorito non una natura umana qualsiasi, ma quella unita ipostaticamente al Verbo, allora Maria è «Madre di Dio», a maggior ragione del fatto che le proprietà delle due nature (umana e divina) hanno come Soggetto il Verbo incarnato, la Persona del Figlio unigenito di Dio.

Per concludere questa breve esposizione, non possono mancare le parole del Doctor Angelicus:

Se poi qualcuno volesse dire che la Beata Vergine non deve essere detta Madre di Dio perché da lei non è stata assunta la divinità ma soltanto l’umanità, come diceva Nestorio, costui manifestamente non sa quel che dice. Infatti una donna è detta madre di qualcuno non per il fatto che tutto ciò che è in lui è preso da lei. L’uomo infatti è formato di anima e di corpo, ed è tale più a motivo dell’anima che del corpo; ora, di nessun uomo l’anima viene presa dalla madre, ma o è creata immediatamente da Dio, come accade effettivamente, oppure, se derivasse per trasmissione come insegnarono alcuni, non verrebbe trasmessa dalla madre, ma piuttosto dal padre, perché nella generazione degli altri animali, secondo la dottrina dei filosofi, il maschio dà l’anima e la femmina invece il corpo. Come dunque di ogni uomo è detta madre quella donna dalla quale è assunto il corpo, così deve essere della Madre di Dio la Beata Vergine Maria dal momento che il corpo da lei assunto è il corpo di Dio. E bisogna dire che è il corpo di Dio, dato che viene assunto nell’unità della persona del Figlio di Dio, che è vero Dio. Quindi coloro che confessano che la natura umana è stata assunta dal Figlio di Dio nell’unità della persona, devono necessariamente affermare che la Beata Vergine Maria è la Madre di Dio (Tommaso d’Aquino, Compendio di teologia, I, c. 222).

 

 

Gabriele Cianfrani


sabato 23 ottobre 2021

BREVE RICHIAMO ALL'"ENS"

 


Sotto il nome di «Metafisica» è conosciuta la raccolta dei quattordici libri aristotelici, per opera di Andronico di Rodi (Peripatetico del I sec. a.C.). La parola «Metafisica» viene dal greco τὰ μετὰ τὰ φυσικά, che potrebbe essere così tradotta: «le cose che vengono [o che sono] dopo quelle fisiche». Questo vuol dire che non si aggirano le cose fisiche, ma si suppongono per poi andare oltre, per cui lo studio della filosofia della natura precede lo studio metafisico. Ma lo studio metafisico mira a ricondurre alle cause (prime), perciò la Metafisica mira ai princìpi primi e alle cause.[1] Ora, l’oggetto proprio della Metafisica, o meglio, il suo subiectum, è l’«ente in quanto ente»:

«C’è una scienza che considera l’ente in quanto ente e le proprietà che gli competono in quanto tale. Essa non si identifica con nessuna delle scienze particolari: infatti nessuna delle altre scienze considera l’ente in quanto ente in universale, ma, dopo aver delimitato una parte di esso, ciascuna studia le caratteristiche di questa parte».[2]

Non si tratta di scienze come la Biologia, la quale indaga le proprietà dell’ente in quanto vivente con tutte le sue implicazioni, oppure della Chimica, la quale indaga l’ente circa la sua composizione molecolare ecc. l’Attenzione metafisica non è posta su ciò che riguarda le scienze particolari, ma sull’ente in quanto tale, in maniera universale, per cui sul fatto che l’«ente» è ciò che «è» (id quod est). Dal momento che l’ente è l’id quod est ed è ciò che primeggia maggiormente nella realtà, l’attenzione verterà maggiormente sull’«est» dell’ente, ossia sul fatto che l’ente anzitutto «è». Ciò rimanda ad una certa energia ontologica che pone l’ente, con il suo contenuto, nel reale. Questo vuol dire che l’ente è ciò che prima di tutto primeggia sul nulla. Il gatto non potrebbe miagolare se prima non «è»; il melo non potrebbe portare frutto se prima non «è»; la persona umana non potrebbe possedere queste o quelle qualità se prima non «è». Insomma, se mancasse l’ente mancherebbe anche la nostra capacità di intellezione. Per una breve spiegazione dell’ente, si può cliccare qui.



[1]ARISTOTELE, Metafisica, A 1, 982b, 5-10.  

[2] Ibid., Γ 1, 1003a, 20-23  


sabato 14 agosto 2021

15 AGOSTO - GLORIFICAZIONE DI MARIA ASSUNTA IN CIELO


 

Il sensus fidei gode di grande importanza nel Magistero della Chiesa, dacché rimanda alla infallibilitas in credendo, l’altra è l’infallibilitas in docendo, che si esercita mediante l’ordinazione nel grado episcopale, in particolari momenti. Argomenti importanti e interessanti, ma che meritano di essere trattati in altra sede.

In che modo si potrebbe definire l’infallibilitas in credendo? A questo punto converrebbe seguire le parole della Lumen gentium (Costituzione dogmatica sulla Chiesa del Concilio Vaticano II):

 

L’universalità dei fedeli che tengono l’unzione dello Spirito Santo (cfr. 1Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il soprannaturale senso della fede di tutto il popolo, quando «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici» mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità il Popolo di Dio, sotto la guida del sacro magistero, al quale fedelmente conformandosi accoglie non la parola degli uomini, ma qual è in realtà, la parola di Dio (cfr. 1Ts 2,13), aderisce indefettibilmente alla fede una volta trasmessa ai santi (cfr. Gd 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita (n. 12).

 

Tale passo riporta chiaramente ciò che concerne il sensus fidei, ossia l’universalità dei fedeli che non può sbagliarsi nel credere fermamente cose di fede e morale. Infatti, sia la Bolla Ineffabilis Deus di Papa Pio IX, mediante la quale viene proclamato il dogma della «Immacolata concezione di Maria» (1854), sia la Munificentissimus Deus di Papa Pio XII, mediante la quale viene proclamata la «glorificazione di Maria con l’assunzione in Cielo in anima e corpo» (1950), presentano evidente riferimento al sensus fidei.

Nella Bolla troviamo:

Infatti si videro non solo singoli fedeli, ma anche rappresentanti di nazioni o di province ecclesiastiche e anzi non pochi padri del concilio Vaticano chiedere con vive istanze all'apostolica sede questa definizione.

In seguito queste petizioni e voti non solo non diminuirono, ma aumentarono di giorno in giorno per numero ed insistenza. Infatti per questo scopo furono promosse crociate di preghiere; molti ed esimi teologi intensificarono i loro studi su questo soggetto, sia in privato, sia nei pubblici atenei ecclesiastici e nelle altre scuole destinate all'insegnamento delle sacre discipline; in molte parti dell'orbe cattolico furono tenuti congressi mariani sia nazionali sia internazionali. Tutti questi studi e ricerche posero in maggiore luce che nel deposito della fede affidato alla chiesa era contenuto anche il dogma dell'assunzione di Maria vergine al cielo; e generalmente ne seguirono petizioni con cui si chiedeva instantemente a questa sede apostolica che questa verità fosse solennemente definita.

In questa pia gara i fedeli furono mirabilmente uniti coi loro pastori, i quali in numero veramente imponente rivolsero simili petizioni a questa Cattedra di S. Pietro. Perciò quando fummo elevati al trono del sommo pontificato erano state già presentate a questa sede apostolica molte migliaia di tali suppliche da ogni parte della terra e da ogni classe di persone: dai nostri diletti figli cardinali del sacro collegio, dai venerabili fratelli arcivescovi e vescovi, dalle diocesi e dalle parrocchie. […] Questo «singolare consenso, dell'episcopato cattolico e dei fedeli», nel ritenere definibile, come dogma di fede, l'assunzione corporea al cielo della Madre di Dio, presentandoci il concorde insegnamento del magistero ordinario della chiesa e la fede concorde del popolo cristiano, da esso sostenuta e diretta, da se stesso manifesta in modo certo e infallibile che tale privilegio è verità rivelata da Dio e contenuta in quel divino deposito che Cristo affidò alla sua Sposa, perché lo custodisse fedelmente e infallibilmente lo dichiarasse.

 

Non a caso il discorso in merito alla assunzione di Maria in Cielo in anima e corpo, nonostante la definizione vi sia stata sotto Pio XII nel 1950, è alquanto remoto, come traspare anche in san Gregorio di Tours († 594) e nell’insegnamento di molti teologi, ma con fondamento nella Scrittura.

Non si accennerà alle posizioni, consolidate nel tempo, circa il modo in cui vi fu l’assunzione. Magari in un prossimo articolo.

È chiaro che tale dogma – sono quattro i dogmi mariani – deve essere ricollegato al precedente, ossia a quello della «Immacolata concezione di Maria» proclamato da Pio IX, come al secondo dogma, quello riguardante Maria come «sempre vergine», risalente al concilio di Calcedonia (451 d. C.) e al concilio di Costantinopoli II (553 d. C.). Ma occorre fare riferimento sempre a quel primo dogma mariano, ossia a quello riguardante Maria come «Madre di Dio» (Θεοτόκος), risalente al concilio di Efeso (431 d. C.). Il primo dogma mariano è fondamentale, per cui è doveroso scrivere al riguardo ma in altra sede.

Per concludere, la definizione solenne è contenuta nel seguente passo della Munificentissimus Deus:

 

«Pertanto, dopo avere innalzato ancora a Dio supplici istanze, e avere invocato la luce dello Spirito di Verità, a gloria di Dio onnipotente, che ha riversato in Maria vergine la sua speciale benevolenza a onore del suo Figlio, Re immortale dei secoli e vincitore del peccato e della morte, a maggior gloria della sua augusta Madre e a gioia ed esultanza di tutta la chiesa, per l'autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei santi apostoli Pietro e Paolo e Nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo essere dogma da Dio rivelato che: l'immacolata Madre di Dio sempre vergine

Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo».

 

Chi volesse leggere il testo completo, cosa che si consiglia vivamente, potrebbe farlo cliccando qui!

 

 

 


Gabriele Cianfrani


domenica 4 luglio 2021

SERVITORE DEL MONDO O SERVITORE DI DIO: IN CHE MODO?



Una riflessione cristiana in merito a un tema ricorrente.

A volte si prende consapevolezza di alcune posizioni che pare presentino delle imprecisioni. Vorrei concentrarmi su queste «imprecisioni» che non credo possano passare inosservate… e nemmeno innocue, col rischio di risultare anche un po' pungente.

Il problema risiederebbe in alcune posizioni che pare esprimano una sorta di opposizione forte, che sfocerebbe nella esclusione: o si sceglie la vita laicale, e con ciò non sarà possibile servire Dio come si deve, o si sceglie una vita da religioso, una vita da suora, e allora sarà possibile servire Dio come si deve e chi ricevesse il sacramento dell’Ordine (sacerdozio ministeriale) lo servirebbe ancora meglio… Il problema non risiede affatto nella scelta in sé, ma come questa viene presentata, quasi a voler far trapelare che «o» si sceglie in un modo «o» in un altro modo, con la differenza che uno dei due modi va bene mentre l’altro va meno bene. Una esclusione tale che, in altri termini, conduce il pensiero ad un velato aut-aut, ma questo rimanderebbe ad altre e precise considerazioni. In questo caso la vita laicale non avrebbe poi così tanta importanza, e discorso a parte meriterebbe la parola «laico» – da λαός (popolo) –, il cui significato discosta evidentemente da quello che ultimamente viene attribuito a tale parola, con forte senso di opposizione, da cui spesse volte l’espressione: «non sono cattolico ma laico». E allora? Cosa vuol dire?

Vale la pena tornare sul tema, anche perché si chiamerebbe in campo quel «sacerdozio comune» dei fedeli del quale non pare se ne senta parlare tanto. Certamente vi sarebbe da fare un discorso che tocchi anche alcuni punti di storia della Chiesa, ma con approccio storico, comprese le contestualizzazioni e senza prendere un po' di qua e un po' di là per poi suturare il tutto, anche perché verrebbe fuori una sutura inesatta, per poi attendere inevitabilmente la guarigione per seconda intenzione (espressione in ambito chirurgico).

Comunque verrebbe da chiedersi per quale motivo vi sono posizioni che propendono quasi per una separazione tra il «sacerdozio ministeriale» e il «sacerdozio comune», e ancor peggio quasi escludendo il secondo. In altre parole, l’attenzione non riguarda la cosa in sé, ma ciò a cui una persona è chiamata. Insomma, entriamo nel campo della «vocazione» – non è da intendere esclusivamente con il solito prendere i voti, dato che il discorso è molto più ampio –, che non è uguale per tutti e non è possibile pretendere che lo sia! È un tema abbastanza delicato che meriterebbe di essere trattato accuratamente. Dunque il problema non riguarda affatto la scelta in sé di una persona – e ci mancherebbe! –, ma come questa scelta viene presentata, quasi che la vita laicale fosse insufficiente per il cammino cristiano verso la santità. Ciò riguarda alcuni mezzi di comunicazione, attraverso i quali pervengono informazioni alquanto scorrette. Magari non rientrerà nella intenzione della comunicazione, e allora questa dovrebbe considerare meglio alcuni aspetti certamente rilevanti, in modo tale da evitare anche di distorcere la testimonianza di una persona. Alcune parole dell’Apostolo: A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo (Ef 4,7); Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato (Rm 7,24). Con questo passo di san Paolo mi collego alla esortazione apostolica postsinodale Christifideles laici di san Giovanni Paolo II, la quale risulta illuminante in merito al tema dei laici «nella Chiesa e nel mondo». Nel documento si legge: i fedeli laici sono chiamati in particolare a ridare alla creazione tutto il suo originario valore. […] La partecipazione dei fedeli laici al triplice ufficio di Cristo sacerdote, profeta e re trova la sua radice prima nell’unzione del Battesimo, il suo sviluppo nella Confermazione e il suo compimento e sostegno dinamico nell’Eucaristia (n. 14). Ed ecco che quella sorta di opposizione a modo di esclusione che traspare da alcune posizioni non ha motivo di esistere: la comune dignità battesimale assume nel fedele laico una modalità che lo distingue, senza però separarlo, dal presbitero, dal religioso e dalla religiosa (n. 15). Il testo precisa che il fedele laico non è separato, ma è comunque distinto dal presbitero, dal religioso e dalla religiosa. Tale precisazione è importante per non gettare tutto nel calderone per poi sostenere alcune posizioni aventi come fondo l’indistinzione più assoluta. Ciò non sarebbe reale dacché vi sono delle distinzioni che sono da riconoscere e da rispettare – traspare già dal passo riguardante Abramo e Melchìsedek (Cfr. Gen 14,19-20) –, ma senza separazione. Vi è diversità di ministeri ma unità di missione. I fedeli sono chiamati ad attuare, secondo la condizione propria di ciascuno, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo (CIC, can. 204, § 1). Inoltre, il testo della Christifideles laici si esprime anche in merito alla «dignità battesimale», che molto spesso pare si trovi nel dimenticatoio, col risultato di un vero e proprio prorompere di espressioni e posizioni del tutto avulse da quel che sarebbe il loro contesto. Pertanto, sia il sacerdozio ministeriale sia il sacerdozio comune di tutti i fedeli, ognuno a suo proprio modo, partecipano all’unico sacerdozio di Cristo, pur con differenze essenziali, che ci sono e vanno riconosciute e rispettate. Per cui non è possibile neanche ascoltare interventi del tipo: «quel prete ha sbagliato, se la vedrà dall’altra parte» e altri che non riporto. Anzitutto, se un prete sbaglia, ciò non riguarda lui soltanto ma l’intero Popolo di Dio, laici compresi, e bisognerebbe far sì che si rimedi a quello sbaglio, senza assumere comportamenti isolati sulla base della falsa separazione tra il sacerdozio ministeriale e quello comune. Lo stesso vale per il prete, per cui se alcuni fedeli laici commettono degli errori, non è possibile far finta di nulla.

Il titolo «servitore del mondo o servitore di Dio: in che modo?», per essere sinceri, interpella sia il sacerdozio ministeriale sia quello comune, poiché si pone sul piano del «fine». Scambiare il mezzo per il fine può riguardare entrambe le parti.

Insomma, si tratta di prendere maggiore consapevolezza della nozione di «Corpus Mysticum Christi», in cui vi è distinzione ma non separazione.

Si potrebbe continuare ulteriormente, ma a questo punto si rimanda ad alcuni documenti sul tema (per es. la Lumen gentium del Concilio Vaticano II). Inoltre, tra i sacramenti abbiamo anche il Matrimonio, il quale presenta un dato singolare: i «ministri» di tale sacramento sono gli sposi, che mediante il «consenso» fanno sì che si costituisca il Matrimonio. Ovviamente un consenso libero e senza impedimenti (Cfr. CCC, n. 1625). Il sacerdote accoglie il consenso degli sposi a nome della Chiesa e dà la benedizione della Chiesa, esprime visibilmente che il Matrimonio è una realtà ecclesiale (Cfr. Ibid., n. 1630) e gode di unità e di indissolubilità. Conosco tanti laici che sono eccellenti, persone squisite e impegnate su tanti fronti e con qualità eccelse, così come conosco sacerdoti ministeriali eccellenti e religiosi e religiose – e non solo – impregnate di quella caritas cristiana di cui parla san Paolo (Cfr. 1Cor 13,1-13). Purtroppo anche la parola «carità» è quasi diventata un modo di dire, perdendo il senso profondo dell’agape, dell’amore di dilezione, che è il solo amore che guarda al valore «intrinseco» della persona in quanto tale. Pertanto, credo sia opportuno porre in luce proprio quella «dignità battesimale», dalla quale inizia la vita cristiana. Inoltre, dopo tante cose che son state dette ultimamente proprio sul sacramento del Battesimo – per l’ennesima volta –, forse sarebbe il caso di esprimersi con termini più opportuni qualora ci si addentrasse nell’argomento.

Ci sarebbe tanto da dire – in questo caso ‘da scrivere’ –, ma credo che il messaggio si possa cogliere facilmente.

La «caritas» cristiana, questa sì che ha la sua vera esclusività… e non esclude affatto!

 

 

Gabriele Cianfrani