Blog di informazioni e riflessioni su quanto concerne temi cristiani

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sabato 6 maggio 2023

TUTTO E' STATO FATTO PER MEZZO DI LUI


 

Nelle librerie e su Internet è disponibile il mio libro pubblicato pochi giorni fa dalla Tau Editrice: 

Tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Discorso sulla fede e sulla realtà (2023).

 

Dalla quarta di copertina:

Il lavoro si presenta come la riflessione dell’autore su alcuni temi riguardanti il percorso di vita cristiano. Il tutto prende spunto da due passi della Scrittura: «tutto è stato fatto per mezzo di lui» (Gv 1,3) e «[…] pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15). Pertanto, lo scopo è quello della testimonianza riflessiva circa alcuni contenuti della fede cristiana (cattolica), in modo che vi siano confronti tematici, cercando di porre in evidenza la linea del Magistero della Chiesa ed esprimendo che il senso ultimo si trova nel Verbo di Dio.


Estratto dalla prefazione del Prof. Carmelo Pandolfi:

Di ou tà pánta egéneto – per quem omnia facta sunt canta il Simbolo ripetendo il Prologo di Giovanni. Gabriele Cianfrani – lo sappiamo – sente visceralmente la densità del Lógos, tanto che sta pensando ad uno studio sulla convergenza tra lógos ed esse (tomista). 

Ma qui il lavoro non scende a tali profondità e si mantiene al livello di quella che, una volta, si chiamava Apologetica.

Non c'è dubbio che una apologetica razionalistica, elencatica e difensiva abbia in certa misura fallito. È anche vero che la reazione – la mancanza di Apologetica – ha fallito anche essa, perché ha prodotto un banale «volemose bene», offensivo del Bene stesso.

La soluzione sta dentro il mistero stesso del Lógos che è Gesù Cristo, nel senso che la dogmatica stessa è apologetica. La bellezza del dogma si difende da se stessa e va solo mostrata, come numero primo inderivato e autoconvincente. Come l’originalità assoluta di quel brano, quello lì, di Mozart. Così ha insegnato, e praticato lungo tutta la sua «Gloria», la teologia più bella e insieme colta fra i Moderni: quella di Balthasar.


P.S. Chiederei, a chi decidesse di acquistarlo, di contattarmi - anche tramite l'indirizzo email che si trova a pagina 316 -, dal momento che è in corso l'elaborazione dell'Errata Corrige in riferimento alle pagine 66 e 67, in modo da poterla inviare tramite email.


sabato 11 febbraio 2023

PROFESSIO FIDEI E IMPLICAZIONE DELL'INTELLETTO 1/2


 

Il 31 dicembre 2022 il Santo Padre Benedetto XVI è tornato alla Casa del Padre. Inutile riportare quanto grande sia stata la sua importanza per la Chiesa odierna e per quella che dovrà attraversare le gioie e le difficoltà del futuro, poiché ci saranno entrambe. Il mio augurio e la mia preghiera per la sua proclamazione, un giorno, di «Dottore della Chiesa».

Tuttavia, pare che vi sia un aspetto fondamentale della ricerca condotta da Joseph Ratzinger – lo si chiamerà così per il riferimento al suo essere studioso, eccellente teologo e non solo – che si spera potrà essere ripreso al più presto: la «ragionevolezza della fede», ossia che la «professione di fede» implica la «ragione». Sì, in quanto spesse volte si parla della «fede» e della «ragione» come se tale accostamento fosse, come dire, sospetto o strano. Comprensibile, nel caso in cui si avesse più o meno bene la nozione di «fede», ma si tratta di un accostamento obbligato, dal momento che non può esservi fede senza ragione e la ragione non può non essere la sede della fede. Sarebbe meglio parlare di «intelletto» anziché di «ragione», poiché l’intelletto indica direttamente quella facoltà/potenza dell’anima che consente atti intellettivi, come la ragione, la quale implica quel procedere, proprio dell’essere umano, in modo discorsivo di conoscenza in conoscenza per giungere alla verità. Gli angeli non apprendono la verità in maniera discorsiva, ma con la semplice intellezione. Pertanto, è proprio dell’essere umano il ragionamento, ma non degli angeli; è proprio dell’essere umano essere definito come razionale, non degli angeli, i quali sono esseri intellettuali (Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 79, a. 8). Tuttavia, non sembra male riportare una precisazione, con buona pace di quanti oggi adoperano la parola «intelligente» per indicare anche ciò che non ha vita (es. la chiave, il semaforo, la lavatrice, uno schermo e il computer stesso, che vuol dire calcolatore, ma non ha nessuna intelligenza) o riducendo l’intelligenza al puro calcolo. Semmai l’intelligenza fosse riducibile al calcolo, allora un calcolatore elettronico, ossia un computer, sarebbe enormemente più intelligente di un cosiddetto «cervellone umano», ma non è così. Tutto ciò che osserviamo nella realtà materiale, sensibile, consta di singolarità, di particolarità, non di universalità. Osserviamo che vi è un albero, certo, ma quell’albero. Non osserviamo che vi è l’albero in quanto tale, ma quel determinato albero. Eppure sappiamo cosa sia un albero in quanto tale, che si tratti di un ulivo, di un faggio, di un platano, di una quercia o altro. Coma mai? Per mezzo di quella facoltà che si chiama «intelletto» e per quella funzione che si chiama «astrazione». Seppure molto brevemente, occorre dire qualcosa al riguardo.

Poiché il termine «patire» può essere preso in vari sensi, in questa sede viene preso nel senso di «ricevere qualcosa da parte di», per cui l’intelletto stesso si trova in potenza rispetto a ciò che deve ricevere. Cosa deve ricevere? Il dato intelligibile. Ma nella realtà sensibile, della quale si fa esperienza con i sensi, troviamo il dato sensibile, non l’intelligibile in atto. Il dato intelligibile si radica nella realtà, ma è in potenza di essere tale. Ora, dal momento che quel «patire» deve fare in modo che l’intelligibile in potenza diventi intelligibile in atto, in modo tale che si possa ricevere (patire) tale dato, occorre porre una capacità da parte dell’intelletto di «astrarre», ossia di «separare» quel dato sensibile che si trova nella realtà materiale per far sì che diventi intelligibile, e così effettuare il passaggio dall’intelligibile in potenza all’intelligibile in atto. Soltanto con questo passaggio, che va sotto il nome di «astrazione», è possibile ottenere l’intelligibile astratto dal sensibile concreto. Ma sopra è stato riportato che da una parte l’intelletto si trova in potenza di ricevere il dato intelligibile astratto e dall’altra che occorre una capacità da parte del medesimo di astrarre il dato intelligibile dal sensibile concreto. Nulla di strano e soprattutto nulla di contraddittorio. Ciò è doveroso, dal momento che nulla di quel che è in potenza passa all’atto se non per mezzo di ciò che è già in atto. Pertanto, occorrono due princìpi: quello che astrae il dato intelligibile dal sensibile concreto prende il nome di «intelletto agente»; quello che riceve il dato intelligibile astratto prende il nome di «intelletto paziente o possibile». In questo caso è l’intelletto agente che attua l’intelletto paziente. In virtù di questo è possibile scorgere l’immaterialità dell’intelletto, che è dell’anima (Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 79, aa. 1-4).

È solo una breve esposizione, che sarà ripresa, ma può bastare per non associare l’«intelligenza» a oggetti che non sono neanche vivi.

Quando si pronunciano le parole «credo» e «amen», ossia la parola iniziale e quella finale del Credo, occorre prestare attenzione a ciò che si pronuncia, dal momento che non esprime affatto il gettarsi nell’irrazionalità. Infatti, scrive Ratzinger:

[…] ciò che qui accade non è affatto un buttarsi in braccio all’irrazionale. Viceversa, è un accedere al lógos, alla ratio, al senso e quindi alla stessa Verità, perché in definitiva il fondamento su cui l’uomo si pone non può né deve esser altro che la stessa Verità che si schiude a noi. […] L’atto di fede cristiana include quindi sostanzialmente la convinzione che il fondamento significativo, il lógos sul quale ci collochiamo, proprio in quanto senso è anche verità. Un senso che non fosse al contempo anche verità, sarebbe non-senso. L’inseparabilità di senso, fondamento, verità, che si esprime tanto nel termine ebraico ‘amen’ quanto in quello greco di lógos, annuncia nello stesso tempo tutta un’immagine del mondo. Nell’inscindibilità di senso, fondamento e verità, così come la implicano – in maniera per noi intraducibile – queste parole, viene in luce l’intera rete di coordinate nella quale la fede cristiana considera il mondo e prende posizione di fronte ad esso. Ne consegue però anche che la fede, per la sua stessa originaria essenza, non è affatto un cieco affastellamento di paradossi incomprensibili. E inoltre che è sbagliato addurre a pretesto il mistero, come in realtà non di rado avviene, per trovare una scusa alla mancanza di comprensione. Quando la teologia va a impelagarsi in un mare di assurdità, ostinandosi non solo a scusarle, ma magari addirittura a canonizzarle richiamandosi al mistero, ci troviamo dinanzi a un abuso della vera idea di ‘mistero’, il cui senso non è certo la distruzione dell’intelletto, bensì di rendere possibile la fede in quanto comprendere. In altri termini, la fede non è certamente un sapere nel senso della scienza del fattibile e secondo la sua forma di calcolabilità. Non lo potrà mai diventare e finirebbe solo per rendersi ridicola, qualora tentasse di proporsi in queste forme (J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 201722).

Lo scopo di questa prima parte è quello di comunicare non solo che si tratta di un’assurdità l’esclusione della fede dall’intelletto – oppure, se si preferisce, dalla ragione, ma con la precisazione riportata sopra – e il necessario richiamo dell’intelletto per la fede, ma soprattutto che per «intelletto» il riferimento è ben preciso, lungi dagli stravaganti accoppiamenti che spesse volte – troppe! – giungono all’attenzione. Tuttavia, l’implicazione vicendevole della fede e dell’intelletto sarà trattata nella seconda parte, la quale avrà lo scopo di chiarire in che modo la fede opera sull’intelletto e come l’intelletto opera mediante la fede, in particolar modo sul tipo di «assenso» e cosa comporta nei confronti della volontà, e in ultimo nei confronti della persona stessa.


Gabriele Cianfrani

martedì 16 agosto 2022

CAUSALITA' FINALE O FINE CASUALE? UNA QUESTIONE IMPERITURA

 



La questione imperitura circa la «causalità finale» o il «fine casuale» sembra essere davvero tale, dal momento che ancora oggi si propongono dibattiti al riguardo, i quali risultano non poco interessanti. Ma bisogna riconoscere che rispetto al passato si verifica una certa propensione ad accogliere la seconda posizione, ossia il «fine casuale», nel senso che l’esistenza, non solo umana, non abbia «un fine» ma semplicemente «una fine».

Non si tratta di giochi di parole, o meglio, si tratta di considerare le parole per l’importanza che hanno, soprattutto quando si tratta di argomenti che richiedono una terminologia ben precisa. L’uso improprio di tante parole o lo scorretto accostamento di precise parole ha condotto ad una vera e propria confusione nella comunicazione, non è il caso di nasconderlo. Si richiedono esempi? Nessun problema: «abbiamo creato un’azienda»; «sono tempi apocalittici»; «Tizio è più umano di Caio»; «non va bene questa speculazione»; «non è un confronto equo, è come se si confrontassero Davide e Golia [commiserando il piccolo Davide, nonostante nel racconto biblico abbia vinto proprio lui]»; «il semaforo o la chiave intelligente» ecc. Si potrebbe continuare, ma l’anomalia è evidente.

Tornando alle due posizioni della questione, ciò che potrebbe permettere di apportare chiarimenti decisivi, pare essere il discorso sulla «causalità». Tale discorso implica necessariamente il campo filosofico, in particolar modo quello metafisico, in quanto l’indagine è soprattutto metafisica, mirante alla risoluzione nelle cause ultime o prime.

Ora, il rifiuto nei confronti del discorso metafisico, spesse volte domina indisturbato. Senza fare nomi, vi sono autori che rigettano del tutto la speculazione metafisica in favore di quella che definiscono scientifica, sfociando in una vera e propria riduzione del concetto di «scienza», il quale è molto più ampio dell’esperimento. Inoltre, il rifiuto si presenta non con argomenti metafisici o, nel caso della sacra teologia, con argomenti teologici, ma con argomenti estranei ad entrambe le discipline, distorcendole tremendamente.

Molto brevemente, dal momento che il subiectum della metafisica (ciò su cui verte la ricerca) è l’ente in quanto ente (non in quanto è tale, ad esempio un gatto, ma in quanto è ente), l’indagine riguarda sia i princìpi intrinseci e costitutivi dell’ente sia i princìpi estrinseci dell’ente. La prima indagine prende il nome di resolutio secundum rationem (interna all’ente); la seconda prende il nome di resolutio secundum rem (esterna all’ente). Quando l’indagine resta confinata all’interno dell’ente si avrà la resolutio secundum rationem, ma dato che la metafisica parte da ciò che è fondato per arrivare a ciò che è fondante, ossia dall’effetto alla causa e soprattutto alla causa ultima, a ragione si può dire che è risolutiva. Pertanto, il punto di partenza è l’ente ma il punto di arrivo è il fondamento dell’ente.

L’ente si definisce come ciò che è (id quod est), per cui esercita fortemente l’essere e gode di consistenza ontologica. Quali sono le caratteristiche dell’ente? Anzitutto riscontriamo che l’ente gode di determinatezza, ossia non solo è un soggetto ma un soggetto ben preciso, il cui contenuto è appunto determinato (il gatto non è solo un animale, ma è gatto; la tigre non è solo un animale o un felino, ma è tigre). Inoltre, riscontriamo anche il fatto di essere separato, per cui l’ente non ha bisogno di altro per essere, poiché gode di autonomia ontologica. E certamente ciò che traspare con forza è  la sussistenza. Perciò, l’ente è qualcosa di sussistente, determinato, separato.

La metafisica può indagare sulla tigre, sul libro, sull’albero di ulivo ecc., considerando la tigre, il libro, l’albero di ulivo in quanto enti con le caratteristiche sopra riportate, non dal punto di vista biologico, biofisico, chimico, botanico ecc. Da ciò si evince che la ricerca si pone su altri piani e adotta un lessico diverso. Questo è importante, poiché il termine «accidente» non ha lo stesso significato in metafisica, in medicina e in musica.

A questo punto si capisce che l’indagine metafisica non mira alla scomposizione delle cose o di arricchire la tavola periodica degli elementi, bensì di giungere al fondamento dell’ente. Poiché l’ente è ciò che è, esprimendo in senso forte l’essere, la ricerca metafisica non può non guardare all’essere dell’ente, al suo fondamento, e in ultimo alla «causa» dell’essere dell’ente.

Il discorso in merito alla «causa», in merito alla «causalità», implica anzitutto la dipendenza nell’essere o nel modo di essere di ciò che è causato da ciò che è causa. Si tratta della costituzione dell’ente.

Per quel che riguarda le divisioni della causa, secondo il modo di esercizio e i generi, considerando la questione, l’attenzione si sposta sulla divisione secondo i generi. Tali sono quelli aristotelici, ripresi anche da san Tommaso d’Aquino, e sono generi supremi di causalità:

1) Causa materiale; 2) Causa formale; 3) Causa efficiente; 4) Causa finale.

Vi sarà modo di tornare su tutte le cause, ma quella che per il momento richiede attenzione è la causa finale, ossia ciò in virtù della quale una cosa viene fatta.

Ora, senza andare per le lunghe e senza scrutare profondamente la causalità finale – lo si farà in altra sede –, se mancasse il «bene» non vi sarebbe causa finale, ossia non vi sarebbe azione alcuna che abbia un «fine», dal momento che il fine non può non avere carattere di «bontà». La causa finale è la causa delle cause, dacché ciò che si compie deve essere prima nell’intenzione e poi nell’esecuzione. Certo, ciò suppone la natura intellettiva che possa intendere il fine, ma anche gli altri enti – che non siano persone umane o angeliche o Dio stesso – godono di un fine naturalmente, ad esso sono diretti. Vi sono, infatti, agenti per ragione e agenti per natura. Che la rondine non si prefigga dei fini intenzionali è chiaro, ma essa è comunque diretta ad un fine – già i bellissimi nidi di rondine fanno trasparire ciò, oltre alle meravigliose api e al mondo cellulare –, così come altri enti naturali che non hanno natura intellettiva. Non vi è un’azione che abbia come fine, naturalmente o intellettualmente, il male. Certo, l’essere umano è capace di azioni malvagie, tanto malvagie che a volte non si trovano spiegazioni soddisfacenti, ma questo chiama in campo altre discipline.

Vi sarebbero altre cose da aggiungere, ma è comunque possibile considerare il «fine casuale» come alquanto fragile, poiché se vi fosse la casualità come fondamento non avremmo possibilità né di agenti per ragione né di agenti per natura, che non trova riscontro nella realtà.

Ricordo che durante una lezione del corso di laurea in professioni sanitarie, trattando alcuni aspetti di anatomia e di fisiologia umana, il professore affermò che il fine degli esseri umani consiste nella nutrizione e nella riproduzione, per fare in modo che la specie continui… Mi domando come mai in quel momento egli stesse insegnando, dal momento che l’insegnamento non rientra tra questi fini.

Non è un caso che spesse volte si parli di «ecosistema», il quale non è casuale, altrimenti non si potrebbe parlare di «sistema» nel vero senso della parola. Ma qualora si propendesse ugualmente non per la causalità ma per la casualità, questa non potrebbe esser tale se non vi fosse una causa. Ora, osservando la realtà nella quale siamo immersi, possiamo constatare che vi sono eventi casuali ed eventi che scaturiscono in seguito ad una causa ben precisa. Non solo, in quanto anche per l’essere umano è così: apro il libro per leggere un determinato argomento (intenzionale) e proprio in quel momento si strappa la pagina (non intenzionale). Lo strappo della pagina è avvenuto per caso, ossia non rientrava nella mia intenzione (praeter intentionem), ma ciò non sarebbe avvenuto se fosse mancata la causa finale, ossia la lettura dell’argomento che mi ha condotto ad aprire il libro, oltre alla causa efficiente. Questo esempio, quello dello strappo (praeter intentionem), rimanda ai modi di esercizio della causa.

Insomma, dopo tutte queste parole, la domanda è la seguente: vi è un fine o la semplice fine?

Le parole sono identiche, ma il significato è radicalmente diverso.

Semmai vi fosse una semplice fine, ci troveremmo nella totale contrarietà, dal momento che ogni essere umano – lo notiamo soprattutto nella società occidentale – si adopera per il raggiungimento di uno scopo, di un fine che va al di là di quello puramente fisiologico. Nel caso di altri enti, cioè quelli di natura non intellettiva, pur non proponendosi un fine sono comunque condotti ad un fine, vi è una sorta di indirizzamento naturale, che non è casuale! Non si tratta di riscontrare, nella realtà, eventi che si verificano in maniera ritmicamente perfetta come se ci trovassimo al Luna Park, ma l’indirizzamento ad un fine di quegli enti che non si propongono un fine intenzionale e di quegli enti si propongono un fine intenzionale.

Cosa si vuole esprimere? Si vuole esprimere che il discorso circa la causalità non è la pura concatenazione di eventi o non solo questo, ma un discorso che dovrebbe essere trattato in maniera tale da chiamare in causa altre discipline. In aggiunta, sono fermamente convinto che i drammi di oggi, siano essi umani, ecologici, sociali ecc., non potranno essere superati nella triste realtà del rifiuto del fondamento ultimo, che richiede speculazioni ben precise, scienze ben precise e che non possono essere rifiutate, pena l’impoverimento dell’uomo stesso.

Concludendo, il «fine casuale» gode di contrarietà intrinseca, poiché la mancanza di una causa comporta la mancanza del caso e la mancanza di un effetto verificatosi casualmente. La ricerca sulla causalità è quanto mai importante, ancor più la ricerca sulla «Causa prima».


Gabriele Cianfrani 

sabato 23 ottobre 2021

BREVE RICHIAMO ALL'"ENS"

 


Sotto il nome di «Metafisica» è conosciuta la raccolta dei quattordici libri aristotelici, per opera di Andronico di Rodi (Peripatetico del I sec. a.C.). La parola «Metafisica» viene dal greco τὰ μετὰ τὰ φυσικά, che potrebbe essere così tradotta: «le cose che vengono [o che sono] dopo quelle fisiche». Questo vuol dire che non si aggirano le cose fisiche, ma si suppongono per poi andare oltre, per cui lo studio della filosofia della natura precede lo studio metafisico. Ma lo studio metafisico mira a ricondurre alle cause (prime), perciò la Metafisica mira ai princìpi primi e alle cause.[1] Ora, l’oggetto proprio della Metafisica, o meglio, il suo subiectum, è l’«ente in quanto ente»:

«C’è una scienza che considera l’ente in quanto ente e le proprietà che gli competono in quanto tale. Essa non si identifica con nessuna delle scienze particolari: infatti nessuna delle altre scienze considera l’ente in quanto ente in universale, ma, dopo aver delimitato una parte di esso, ciascuna studia le caratteristiche di questa parte».[2]

Non si tratta di scienze come la Biologia, la quale indaga le proprietà dell’ente in quanto vivente con tutte le sue implicazioni, oppure della Chimica, la quale indaga l’ente circa la sua composizione molecolare ecc. l’Attenzione metafisica non è posta su ciò che riguarda le scienze particolari, ma sull’ente in quanto tale, in maniera universale, per cui sul fatto che l’«ente» è ciò che «è» (id quod est). Dal momento che l’ente è l’id quod est ed è ciò che primeggia maggiormente nella realtà, l’attenzione verterà maggiormente sull’«est» dell’ente, ossia sul fatto che l’ente anzitutto «è». Ciò rimanda ad una certa energia ontologica che pone l’ente, con il suo contenuto, nel reale. Questo vuol dire che l’ente è ciò che prima di tutto primeggia sul nulla. Il gatto non potrebbe miagolare se prima non «è»; il melo non potrebbe portare frutto se prima non «è»; la persona umana non potrebbe possedere queste o quelle qualità se prima non «è». Insomma, se mancasse l’ente mancherebbe anche la nostra capacità di intellezione. Per una breve spiegazione dell’ente, si può cliccare qui.



[1]ARISTOTELE, Metafisica, A 1, 982b, 5-10.  

[2] Ibid., Γ 1, 1003a, 20-23  


giovedì 20 maggio 2021

IL "SIMBOLO" COME PROFONDITA' DELLA REALTA'

 


Ciò che si esprime con la parola «simbolo» non riguarda affatto qualcosa di sfumato, al limite con la realtà, men che mai è un modo di dire. Spesse volte si sentono espressioni del tipo: «è un gesto simbolico»; «è un modo di fare simbolico»; «quello è un simbolo» e così via. Va bene, ma a volte il riferimento non è a ciò che il «simbolo» racchiude in sé. La concretezza di ciò che il «simbolo» esprime va al di là delle semplici espressioni verbali. 

Il termine simbolo, dal greco σύμβολον (symbolon), deriva da σύμβάλλω (symballo), e la medesima è costituita da σύμ (sym) e βάλλω (ballo). Letteralmente risulta: insieme (sym) getto/pongo (ballo). Ora, da ciò si conclude che il simbolo esprime un «gettare/porre insieme», un «mettere insieme». Anzitutto riguardava una sorta di «segno di riconoscimento», come si vedrà. 

Ad esempio, nella Scrittura troviamo alcuni gesti simbolici soprattutto riguardanti i Profeti, ossia le «azioni profetiche» nell’Antico Testamento, maggiormente in Ezechiele (cfr. 4,1-3; 5,1-2; 12,1-19; 21,11-12 e altri) e Geremia (cfr. 13,1-11; 16,1-9; 19,1-11 e altri), ma anche in altri libri (Isaia, Osea, Zaccaria ecc.). Il Nuovo Testamento presenta ugualmente gesti assai simbolici, che non sarebbe possibile trattare al momento poiché richiederebbe uno spazio considerevole. Ma ciò che è importante tenere presente è che il «simbolo» rimanda alla partecipazione di una realtà estremamente profonda che difficilmente può essere espressa come ci si esprime comunemente. Ad esempio, la «croce di Cristo» presenta una profondità infinita – compendio dell’amore di Dio per l’uomo –, e per quanto si possa discutere e fare ricerca, essa non si esaurirà mai. Ed ecco che anche il semplice «segno della croce» – ‘semplice’ per modo di dire – consta di una intensità inimmaginabile.

Ma la ricchezza del «simbolo» è chiaramente riportata anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che dà fondamento e completa quanto esposto sopra: la parola greca σύμβολον indicava la metà di un oggetto spezzato (per esempio un sigillo) che veniva presentato come un segno di riconoscimento. Le parti rotte venivano ricomposte per verificare l’identità di chi le portava. Il «Simbolo della fede» è quindi un segno di riconoscimento e di comunione tra i credenti. Σύμβολον passò poi a significare raccolta, collezione o sommario. Il «Simbolo della fede» è la raccolta delle principali verità della fede. Da qui deriva il fatto che esso costituisce il primo e fondamentale punto di riferimento della catechesi (n. 188).

In conclusione, quando si pronunciano le parole del «Credo (o Simbolo) Apostolico» o di quello «Niceno-Costantinopolitano», occorrerebbe prestare la massima attenzione, dato che ogni parola ha la sua profondità, essendo «professione di fede».

Alla classica domanda: «di che segno sei?», se proprio si volesse rispondere qualcosa, la risposta non può che essere: «del segno della croce».



Gabriele Cianfrani


lunedì 29 marzo 2021

LA LUCE DELL'ATTO PRIMO

marzo 29, 2021 Posted by Gabriele Cianfrani , , , , No comments


È possibile discutere in merito a ciò che non esisterebbe se mancasse il fondamento, escludendo «di proposito» il fondamento? Eppure pare proprio che tante volte si voglia escludere il fondamento. Quale fondamento? Quello dell’atto primo: ciò che fa sì che una cosa sia e che sia tale cosa e non altra. Si tratta della forma sostanziale, la quale è ciò che apporta vita, specifica la cosa e media l’atto d’essere (actus essendi), che fondamenta anche la forma sostanziale. In ultimo, l’atto d’essere è conferito da Colui che è il Suo stesso Essere (Ipsum Esse subsistens), ossia Dio. Dunque l’atto primo gode di una importanza notevole! In merito al discorso circa l’atto primo e la vita in generale, ma soprattutto in merito a quella umana, è possibile cliccare qui.


mercoledì 24 marzo 2021

LA TRAGICA SCELTA: PADRE - MADRE O GENITORE 1 - GENITORE 2?

marzo 24, 2021 Posted by Gabriele Cianfrani , , , , , No comments

 


Pare sia tornata nuovamente in campo la proposta di apporre sul documento d’identità, per i ragazzi e ragazze al di sotto di 14 anni, la dicitura «genitore 1» e «genitore 2». Se spetti al padre o alla madre essere genitore 1 o genitore 2 è una decisione alquanto ardua… Ma se si decidesse per una sorta di equivalenza, tanto vale che resti la dicitura tradizionale, senza porsi aporie circa la «privacy», che potrebbe esser considerata come una aporia camuffata. Proviamo una riflessione.

Nelle Litaniae Lauretanae beatae Mariae Virginis, in merito a Maria «Madre di Dio», troviamo il latino «Sancta Dei génetrix». Ciò gode di una certa importanza, in quanto vuol dire «genitrice», al femminile. Ma a questo punto non sarebbe neanche pensabile il fatto di sostituire la dicitura genitore 1/genitore 2 con genitore/genitrice, per il semplice motivo che chi vuole apportare tale modifica – senza fare nomi, tanto per molti è chiaro – rientra sempre tra coloro che si battono per le «discriminazioni», con lo scopo di ottenere una sorta di egualitarismo assoluto. Pertanto, anche questa volta, pare che il problema della «privacy» rimandi ad una impostazione antropologica ben precisa. E in ciò consiste la contraddizione, dato che si recherebbe più discriminazione di quel che non si pensa!

Genitore e genitrice, di per sé, hanno a che fare con la «generazione», con il generare – da γενναω (genero, produco) –, per cui ci troviamo nella vera «complementarietà». Se mancasse questo punto si rischierebbe di incorrere in quella autonoma forza di affermazione non esente da egoismo.[1] La prima comunione è quella che si instaura e si sviluppa tra i coniugi: in forza del patto d’amore coniugale, l’uomo e la donna «non sono più due, ma una carne sola» (Mt 19,6; cfr. Gen 2,24) e sono chiamati a crescere continuamente nella loro comunione attraverso la fedeltà quotidiana alla promessa matrimoniale del reciproco dono totale. Questa comunione coniugale affonda le sue radici nella naturale complementarietà che esiste tra l’uomo e la donna, e si alimenta mediante la volontà personale degli sposi di condividere l’intero progetto di vita, ciò che hanno e ciò che sono: perciò tale comunione è il frutto e il segno di una esigenza profondamente umana.[2]

Per tal motivo, che poi risulta intrinsecamente umano, difficilmente si può essere indotti a credere che la dicitura genitore 1 e genitore 2 sia richiesta solo per motivi di privacy. Ciò che traspare è il mettere in discussione la complementarietà tra i genitori. Ma tale complementarietà, che possa piacere o meno, la si riscontra già sul piano biologico, su quello sessuale, ma non solo. Interessante il fatto che la parola «sesso», secondo alcune ricerche, abbia a che fare con il greco τίκτω (partorisco, genero) e che «figlio» si dica anche – in tal caso – τέκνον, ma anche in altri modi con sfumature importanti. Ma nonostante l’etimologia esatta sia ancora sotto ricerca, la parola «sesso» deriverebbe anche dal latino secare (dividere). In ogni caso, lasciando ampio spazio per discussioni, pare che si ponga sempre in evidenza la «complementarietà». Dunque non si vede il motivo per cui ciò che rientra nella essenza di una persona umana – nella sua φύσις (natura) – sia problematico per la privacy, in virtù della quale occorre porre rimedio.[3] Se ciò risultasse un problema, allora il discorso interesserebbe la persona umana nella sua interezza, per cui l’attenzione verterebbe sul piano antropologico. Se così fosse il pensiero sarebbe molto più radicale di quello della «privacy». Pertanto, per concludere – non definitivamente, poiché la questione merita di essere ripresa –, pare proprio che questa complementarietà, che si riscontra concretamente nei genitori, per cui nella famiglia, sia uno dei bersagli della nuova dicitura. Il bersaglio principale pare che sia l’identità stessa della persona, con le sue differenze essenziali, all’insegna di una sorta di egualitarismo assoluto. C’è da chiedersi: è possibile realizzare un puzzle eliminando le differenze di ogni pezzo?

 

 Gabriele Cianfrani



[1] Cfr. Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, n. 6.

[2] Ibid., n. 19.

[3] Dal punto di vista metafisico, la differenza sessuale rientra nella categoria degli «accidenti», ma sono «inseparabili». Vi sono accidenti «propri», ossia dai princìpi della specie, per cui dipendono dalla forma (sostanziale): il nitrito del cavallo non è il cavallo, ma promana dalla sua natura, che si fondamenta nella sua forma sostanziale; vi sono accidenti «inseparabili», ossia dai princìpi dell’individuo e hanno causa permanente nell’individuo: un cavallo è tale per la forma, ma è maschio o femmina a causa dell’accidente inseparabile che rientra nei princìpi dell’individuo; poi vi sono accidenti «separabili», con causa esterna. Dunque la sessualità non rientra nella separabilità dall’individuo (Cfr. C. Ferraro, Appunti di metafisica. Un percorso speculativo, pedagogico e tomistico, Lateran University Press, Roma 20182, pp. 331-332). Tali accidenti «inseparabili» hanno la causa permanente nel soggetto – habent causam permanentem in subiecto, et haec sunt accidentia inseparabilia, sicut masculinum et feminum et alia huiusmodi (Tommaso d’Aquino, QD anima, a. 12 ad 7um).

venerdì 5 febbraio 2021

L'UOMO: E' CONCEPITO TALE O CI DIVENTA?



Quando si trattano temi come l’aborto, in se stesso e nelle sue sfaccettature, spesse volte si sfocia nel discorso riguardante l’anima (umana). Al riguardo vi sono ancora alcune posizioni che colgono una sorta di giustificazione all’aborto – l’etimologia di tale termine non riguarda affatto ciò che oggi si esprime, come tanti altri termini - in ciò che il grande San Tommaso d’Aquino avrebbe scritto circa l’animazione umana, argomento da poter esser preso come una sorta di giustificazione. Ma ciò è insostenibile, dato che in nessun passo in merito all’animazione umana si riscontra tale giustificazione. Prima di tutto per ciò che riguarda l’uccisione dell’innocente nel grembo materno (leggere il commento del V comandamento), poi perché si tratta di una lettura sbagliata dei testi dell’Aquinate. Inoltre, leggendo bene i suoi testi, si riscontra che le cose stanno ben diversamente, come già a partire da Summa Theologiae, Ia, q. 76, aa. 3-4. E poi non bisogna dimenticare un passo molto importante di Geremia: «prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni» (Ger 1,5).

 Per approfondire la questione è possibile cliccare qui!


sabato 22 agosto 2020

PER L'UNIVERSO IN DIREZIONE DEL FONDAMENTO

 

Le domande circa l’«universo» sono tante: Ha avuto inizio o è sempre esistito? È infinito o finito? Se fosse infinito avrebbe comunque dei limiti oppure no? Cosa ci sarebbe oltre quei limiti qualora ci fossero? Come esprimersi sull'universo in rapporto a Dio? Queste e tante altre domande, a volte, sorgono spontanee. Motivo per il quale seguirà una riflessione, senza alcuna pretesa di esaustività, cosa che non sarebbe neanche possibile.

Prima di ciò non sarebbe male chiamare in causa due nozioni, tanto comuni quanto nuove ogni qualvolta sono oggetto di indagine: lo spazio e il tempo.

Il latino spatium viene dal greco σπάδιον (spadion) e da στάδιον (stadion) e indicava una determinata lunghezza, come quella appunto di uno «stadio». Ma vi sono altre derivazioni come quella da τόπος (topos) che significa «luogo».

Il latino tempus trova corrispondenza col greco χρόνος (kronos), e appoggiandoci sulla definizione aristotelica diremmo che il tempo è: «la misura del movimento, e del riposo, secondo il prima e il dopo». Questa definizione è molto importante in quanto comunica che il tempo non precede il movimento ma che il movimento precede il tempo, dato che questo è misurabile proprio grazie al movimento.

Senza insistere molto sui tipi di spazio e di tempo, ciò che in tal caso interessa riguarda i cosiddetti spazio assoluto e tempo assoluto. In quanto tali, lo spazio e il tempo assoluti avrebbero una sussistenza per sé, indipendentemente e sciolti da ogni altra realtà, o meglio, all'interno dello spazio e tempo assoluti troverebbero collocazione tutte le cose. Da uno spazio assoluto deriva lo spazio relativo e da un tempo assoluto un tempo relativo. In poche parole lo spazio relativo sarebbe «contenuto» e si «collocherebbe» all'interno dello spazio assoluto e il tempo relativo sarebbe tale perché «rientrante» nel tempo assoluto. Questa posizione, di origine newtoniana e in parte comune, non è stata risparmiata da critiche, ma quel che interessa in questo caso è che tale posizione esagera ciò che riguarda lo spazio e il tempo. Infatti, non avremmo consapevolezza di uno spazio – qualunque esso sia – se non in riferimento a corpi fisici che vanno a determinare quello spazio. Lo spazio assoluto non sarebbe riscontrabile nella realtà. Ugualmente per il tempo. Non potrebbe esserci consapevolezza del tempo se non in riferimento al movimento, che consente la misurabilità del tempo. Pertanto, lo spazio, incluse tutte le sue dimensioni, è dato dall'insieme dei corpi, mentre il tempo è dato dall'insieme dei movimenti. È possibile applicare una proporzione: «l’insieme dei corpi : spazio reale = l’insieme dei movimenti : tempo reale».

Cosa c’entra questo con l’universo e con Dio? C’entra molto, soprattutto per la realtà materiale che non a caso chiamiamo «spazio-temporale». Ora, se considerassimo tutto quanto esiste nella realtà spazio-temporale, noteremmo che vi è un aspetto comune a tutto: la finitezza. Tutto ciò che esiste nella realtà materiale è finito, e in quanto tale è misurabile. Il tempo, in quanto costituito dall'insieme dei movimenti, è misurabile e dunque non gode di una sorta di «eternità», la quale non sarebbe tale se fosse temporale, così come la temporalità non sarebbe tale se presentasse eternità. In merito vengono in mente le grandi parole di sant'Agostino: «Non ci fu dunque un tempo, durante il quale avresti fatto nulla, poiché il tempo stesso l’hai fatto tu; e non vi è un tempo eterno con te, poiché tu sei stabile, mentre un tempo che fosse stabile non sarebbe tempo» (Confessioni, XI, 14.17).

Lo spazio, in quanto costituito dall'insieme dei corpi, è anch'esso misurabile ed è perciò definibile come tale. Se fosse «infinito» non ci sarebbe possibilità di misurarlo materialmente, poiché gli strumenti di indagine strettamente empirici sono per la realtà materiale, la quale è finita e in quanto finita è misurabile empiricamente. Ciò che è finito nella propria costituzione ontologica non deve essere visto esclusivamente in modo negativo, ma questo è un altro discorso.

Dunque lo spazio e il tempo possono essere misurati. Ora, qualora si dovesse considerare l’universo, questo non potrebbe essere considerato escludendo la materia presente, che è tantissima! Stando a quanto si è giunti in campo scientifico, con particolare riferimento alla relatività generale di Einstein, lo spazio presenta una curvatura, dovuta alla massa. Per cui maggiore è la massa e maggiore è la curvatura. Ma la curvatura riguarda anche il tempo, per cui si tratta di una curvatura spazio-temporale, e la domanda da porsi sarebbe quella su quanto influisca la massa totale presente su questa curvatura. Ora, da qui vi sono diverse posizioni circa la geometria dell’universo. Una posizione che esprime la finitezza dell’universo dovuto alla totale curvatura ma al contempo l’assenza di limiti; un’altra posizione che include la curvatura, ma non «del tutto», e al contempo la linearità e l’assenza di limiti...  Nonostante le differenti posizioni, pare si convenga sulla finitezza dell’universo, anche per ciò che rientra nella osservabilità, ma comunque in espansione.

Dal punto di vista temporale, la teoria più utilizzata circa l’origine dell’universo pare sia quella del Big Bang, lanciata dal sacerdote e fisico Georges E. Lemaître. Questo dato, ricordando ciò che è stato esposto sopra in merito al tempo (l’insieme dei movimenti), può dar risposte sulla «temporalità», ma non sull'inizio della stessa, per il fatto che il tipo di indagine va ben oltre la ricerca legata alla materialità delle cose. In tal caso il movimento non deve essere considerato solo di tipo «locale», ma anche «quantitativo» e «qualitativo». Ciò sarebbe compito arduo anche per la sola ragione umana, come ricorda san Tommaso d’Aquino, dato che l’inizio del mondo – l’universo – non può essere dimostrato partendo dal mondo stesso (Summa Theologiae, Ia, q. 46, a. 2). Pertanto, l’universo sarebbe finito in estensione e temporalmente, nonostante l’assenza di limiti e la continua espansione. Ma ciò, strettamente parlando, è compito degli esperti dell’argomento, il quale è molto interessante e importante. Questa breve esposizione permette di fare un salto – si spera – verso il motivo principale della esposizione stessa, che sarebbe più di tipo ontologico.

Per cui da ciò è possibile pervenire ad alcune conclusioni, ossia che l’universo presenta movimento; non ha una sussistenza assoluta come se fosse il suo essere; non sarebbe associabile all'universo la nozione di «eterno» e così via. Conclusioni che esprimono non solo la totale tranquillità del discorso sull'universo e su Dio, ma anche il fatto che l’universo stesso ha la sua dipendenza ontologica da Dio. Solo Dio è l’Essere per sé sussistente, tutto il resto possiede l’essere in maniera «partecipata» e non assoluta. Inoltre, ci troviamo su due piani diversi, per cui non potrà mai esserci contrasto alcuno, semmai garanzia, da parte di Dio, del reale in quanto tale. Infatti, strettamente parlando, la parola «creazione» rimanda solo a Dio, dato che «creare» implica la produzione dell’essere in modo assoluto, e questo può farlo solo Dio (Cfr. Summa Theologiae, Ia, q. 45, a. 5). Per questo anche l’universo, nella sua vastità, dipende ontologicamente da Dio.

Nel caso ci si ponesse la domanda su cosa vi fosse al di là dell’universo espanso, questa pare non avrebbe molta differenza circa quella riguardante il «prima» dell’universo, anche se alcune differenze vi sono. Quale potrebbe essere la risposta? Pura possibilità di essere? La risposta non risulta semplice, anche perché l’indagine fisica non va oltre l’universo, ma una cosa è certa: qualsiasi risposta non potrebbe mai prescindere dal fatto che nulla all'infuori di Dio può essere considerato come avente l'essere per sé sussistente, per cui l’«oltre», in tal caso, non potrà mai identificarsi con Dio dacché Dio trascende la realtà materiale e non si identifica affatto con essa. Pertanto, anche l’universo non presenta alcuna necessità, e non presentando alcuna necessità il fondamento ultimo non può risiedere nell'universo stesso, il quale non essendo necessario presenta dipendenza. In conclusione, il fondamento ultimo risiede in colui che è l’Essere per sé sussistente: Dio.



Gabriele Cianfrani


lunedì 10 agosto 2020

SCUSA MAMMA, HO SBAGLIATO POSTO...

 



In merito a quanto stabilito dall'attuale ministro della salute Roberto Speranza sull’aborto, ripropongo il testo di un articolo presente su un altro mio spazio internet, ma che probabilmente chiuderò. Questo è il motivo per cui il testo inizia con l’evento del 22 gennaio 2019. È chiaro a tutti che è possibile, appunto da quanto stabilito ultimamente (intervento dello stesso ministro della salute su Twitter in data 8 agosto 2020), procedere con l’aborto farmacologico (pillola RU486) fino alla nona settimana. Per alcuni versi non mi interessano neanche i «confronti legislativi», ma ciò che vi è di fondo riguardo a precise scelte, anche se un minimo di confronto seguirà nel testo. Sinceramente, il ministro parla di «linee guida basate sull'evidenza scientifica», ma sarebbe doveroso spiegare quali siano queste evidenze, altrimenti si corre il rischio, come spesso accade, di utilizzare l’espressione «evidenza scientifica» in maniera non solo non evidente ma anche del tutto vaga, o peggio, ambigua. 

                                                                                 ***

Il 22 gennaio 2019 il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo ha firmato una legge che prevede l’aborto anche dopo 24 settimane di gravidanza. Del resto è una legge simile – ma non uguale – a quella italiana (legge n.194 del 22 maggio 1978, ratificata nel 1981), anche se quella italiana prevede la possibilità di abortire dopo i 90 giorni solo per motivi terapeutici, quando vi siano rischi per la salute psichica della madre o insorga la minaccia di malattie e di malformazioni del nascituro – e da questo non si escludono affatto manipolazioni, o meglio, queste risultano essere in numero notevole. In poche parole, ciò permette l’uccisione del nascituro senza alcun limite di tempo, l’importante è che non sia ancora uscito dal grembo materno. Ora, questa legge, che rievoca la sentenza del 1973 per la legalizzazione dell’aborto (Norma Leah McCovery alias Jane Roe vs Henry Menasco Wade), si presenta come una vera conquista per i diritti della donna e per la tutela della vita in generale… Fino a questo punto, nonostante l’aborto sia «intrinsecamente» azione cattiva – anche i dati scientifici parlano chiaramente –, pare ci sia una sorta di proporzionalità, tra la tutela di una vita e l’eliminazione di un’altra. Ma il punto è che ci si ritrova dinanzi al mascheramento della realtà mediante termini volti a far credere la logicità della contrarietà, o meglio, se volessimo dirla con le parole del grande Card. Giacomo Biffi diremmo che «una volta, per fare notizia bisognava dire un’eresia, oggi invece occorre un’ortodossia». Ebbene queste parole del Card. Biffi si possono inserire tranquillamente anche in tal contesto: il favorire la vita viene visto come antica mentalità da superare; l’impedimento della vita viene visto come la massima espressione di libertà, di quella libertà di cui l’uomo ne sarebbe il possessore assoluto. Beh, tutto questo per «tutelare» la vita… Ma vi sono degli atti «intrinsecamente cattivi» e lo sono di per sé, ossia per il loro stesso oggetto – il mezzo con cui l’intenzione viene realizzata –, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze, e uno di questi è l’aborto (Cfr. Rm 3,8). Alla fine riporterò alcuni testi per l’approfondimento dell’argomento.

Senza cadere nelle solite affermazioni del «sì» o del «no» alla vita, qui non si tratta di una realtà soggetta a sua volta a interpretazioni soggettive, bensì di una realtà oggettiva. E questo non vale solo per l’America settentrionale o per l’Asia, ma anche per l’Italia e per tutti quei Paesi che legalizzano l’aborto o lo consentano con delle restrizioni, condizioni… Ma gira e rigira sempre viene permesso. Che il tutto venga presentato con parole dolci e allettanti non ha senso, anche perché il governatore Cuomo, stando ad alcune informazioni, ha espresso che «a New York, le donne avranno il diritto fondamentale di controllare il proprio corpo». Il fatto che vi siano casi di gravidanza difficili, sui quali occorrono studi e mezzi giusti per far sì che la stessa gravidanza si svolga nel modo più sicuro possibile è un dato innegabile, così come lo è stato in passato. Oggi si dispone di mezzi per consentire la sicurezza della gravidanza, o almeno far sì che vada incontro a un minor numero di problemi, qualora dovessero presentarsi, ma senza soppressione della vita causata da mani d’uomo.

Il testo di legge firmato, almeno per quel che sembrerebbe, è la perfetta espressione del ‘fai ciò che vuoi, sei tu il padrone’. Diversamente non può apparire, soprattutto se consideriamo una parte del testo – integralmente lo si trova su internet (qui) –, nella quale, se prima vi erano alcune condizioni per cui un omicidio poteva esser ritenuto tale, ora non più. Ecco il testo con alcune parti appositamente eliminate, che riporto di seguito:

 

     4                  HOMICIDE[, ABORTION] AND RELATED OFFENSES

    

     7  Homicide  means  conduct  which  causes  the  death of a person [or an

     8  unborn child with which a female has been pregnant for more  than  

     9  twenty-four  weeks] under circumstances constituting murder, 

         manslaughter in

   

   10  the first degree, manslaughter  in  the  second  degree,  or  criminally

   

   11  negligent  homicide[,  abortion  in the first degree or self-abortion in

  

   12  the first degree].

 

Traduzione dal punto 7 al punto 12 (sottolineato il testo che hanno cancellato):

Omicidio significa condotta violenta che causa la morte di una persona (o di un bambino non nato di cui una donna è incinta da più di 24 settimane) in circostanze che costituiscono assassinio, omicidio colposo di primo e secondo grado, o omicidio causato da negligenza criminale (aborto di primo grado o aborto autoinflitto di primo grado).

Ebbene, da questo testo si evince che l’aborto era considerato, inizialmente e giustamente, un vero e proprio omicidio almeno dopo le 24 settimane, compreso l’aborto auto-inflitto. Cosa è cambiato ora? Saranno forse cambiati i dati scientifici che affermano sempre più, a loro dispiacere, che la nuova creatura è «persona» già dallo stato di zigote? Sarà forse cambiata la linea della Chiesa, la quale afferma, sempre a loro dispiacere, che l’anima è creata subito dopo la fusione del gamete maschile con quello femminile, ossia con la formazione dello zigote? Come mai prima non si parlava di tutela della donna e ora sì? È conquista di vera libertà? È visione moderna o modernista? È progresso o progressismo rivoluzionario? Inoltre, con quelle parti di testo eliminate, se un domani una donna incinta subisse violenze e il nascituro morisse per le percosse ricevute, ella non potrà più chiedere «giustizia» per la morte del proprio figlio, semplicemente perché non sarà più considerato omicidio, né prima né dopo le 24 settimane, e il testo sopra riportato presenta forte ambiguità. 

Mi pare che l’unica cosa che sia cambiata è il voler universalmente impadronirsi di ciò di cui si è meno padroni: la vita. La tendenza è sempre questa ed è incontrovertibilmente antica tanto quanto l’uomo. Non solo, ma dal testo di legge traspare fortemente che nella definizione di «persona», in questo caso, non rientrerebbe affatto il bambino ancora nel grembo materno. Pertanto, il nascituro, a calcoli fatti, sarebbe un essere indefinito, anonimo e insignificante. Eh sì perché il tutto non convince affatto, dacché la formulazione delle parole godono appunto di una certa ambiguità, e a volte è proprio tale ambiguità che paradossalmente dice tutto.

Senza riportare l’origine del termine di persona come riferente a ciò che sussiste razionalmente e non esclusivamente alle maschere delle commedie teatrali – il termine persona perse il riferimento alla maschera e assunse quello di ipostasi, che in latino si traduce direttamente in «substantia, suppositum» –, il quale ha le sue origini nella Chiesa Cattolica (Concilio di Nicea I – 325 d.C.) per questioni trinitarie e cristologiche, è chiaro che la definizione stessa di «persona» si dice tanto dell’adulto, dell’essere umano nato, quanto del nascituro anche nello stato di zigote. Noi esseri umani, prima di esser ciò che siamo ora eravamo, per un tempo, nello stato di zigote. Questo non comporta il fatto che lo zigote non sia possibile considerarlo come persona umana per il fatto che non abbia ancora facoltà intellettivamente umane in atto. Certo, non le ha ancora, ma le avrà, le svilupperà così come è accaduto ad ognuno di noi. Ci sono poi dei casi difficili, sui quali non è bene che ci si esprima superficialmente, ma ciò non esclude il fatto che si parli sempre nell'ambito della natura umana, che in tal caso ha carattere personale. Noi siamo attualmente ciò che prima eravamo potenzialmente, e la potenza è ordinata al «suo» atto. Le parole del testo di legge parlano chiaro: fino a quando il bambino restasse nel grembo materno e morisse a causa di azioni criminali esterne, ciò non costituirebbe un omicidio, dacché il bambino – deducendo dal testo – non sarebbe considerato come persona integralmenteSe proprio volessimo essere precisi il bambino, stando al testo sopra riportato, non sarebbe proprio considerato come rientrante nella «natura umana», dato che la parola «omicidio» viene dal latino homicidium, che vuol dire «uccisione di uomo», e l’aborto non rientrerebbe nell'omicidio. 

Inutile negarlo, da ciò si evince che il tutto non è tanto per la ‘tutela’ della donna quanto per una volontà libertaria autodeterminante, che tenta sempre più di impossessarsi autoritariamente di ciò che più di tutto possiede solo come verità ricevuta e non causata da sé e per sé: la vita.

Nel caso in cui la donna avente nel suo grembo il feto assumesse farmaci a causa di una patologia e questi causassero il decesso del medesimo (aborto terapeutico), non ci sarebbe colpa poiché l’azione non sarà stata quella di uccidere il feto (aborto procurato o diretto), ma di curarsi, per cui non si tratterà di aborto diretto ma indiretto, e l’azione sarà stata lecita. Alle volte vi sono casi in cui le madri decidono di non curare se stesse per non causare nemmeno collateralmente la morte del figlio in grembo, ad esempio Gianna Beretta Molla (medico), che è divenuta santa per questo, ma anche Chiara Corbella Petrillo – certo, queste sono scelte e non sono imponibili. Inutile esprimere che per la Chiesa Cattolica l’aborto è peccato mortale per l’intrinsecità cattiva dell’atto e stabilisce che la vita è un dono di Dio. Basta leggere i primi versetti del primo capitolo del libro di Geremia. Tuttavia, anche volendo prescindere da ciò, non è possibile non guardare al pronunciamento della scienza empirica, quella sperimentale, come accennato sopra.

Inoltre, per chi ancora volesse sostenere il decidere del momento in cui, nel grembo materno, la creatura «divenga» persona umana, ciò viene smentito non solo dai dati antropologici, ma da quelli scientificamente empirici!

All'origine di un essere umano si trovano due cellule «specializzate», dedicate alla funzione generatrice: il gamete femminile (ovocito) ed il gamete maschile (spermatozoo). Circa 20 ore dopo il rapporto sessuale, la testa dello spermatozoo è penetrata nel plasma della cellula-uovo (singamia), al cui nucleo si sta avvicinando con decisione per fondere il proprio materiale genetico con quello della cellula-uovo. Questa fusione, della durata di 20 ore circa, porta alla costruzione di un nuovo sistema genetico con i suoi 46 cromosomi. Verificatasi la fusione, siamo in presenza di una cellula nuova, lo zigote. Questo nuovo essere non è la semplice somma dei codici genetici dei genitori. È un essere con un progetto e un programma nuovi, che non è mai esistito e non si ripeterà mai. Questo programma genetico (genoma) assolutamente originale individua il nuovo essere, che d’ora in poi si svilupperà secondo esso. Pertanto, ci si trova dinanzi ad una nuova identità che non è semplicemente una messa insieme del materiale genomico dei genitori. E questo è straordinario! Nel nuovo programma genetico sono determinate le caratteristiche del nuovo individuo, dall'altezza al colore degli occhi, fino al tipo di malattie ereditarie a cui andrà soggetto.  Inoltre, a 18-25 giorni dopo il concepimento il cuore della nuova creatura batte già; a 6 settimane vi è possibilità di misurare le frequenze delle sue onde cerebrali; a 8 settimane gli organi interni sono formati e inizia anche a percepire il dolore, il calore, la luce, i suoni. Prima dell’undicesima settimana gli organi vitali sono tutti formati.

Non a caso il ginecologo ateo e materialista Bernard Nathanson (1926 – 2011) divenne un grande sostenitore della vita a seguito della ecografia, che permetteva di riprendere l’aborto ‘in diretta’. Ciò fu determinante affinché Nathanson, nel 1984, diresse il documentario The Silent Scream (Il grido silenzioso), in cui viene mostrato un aborto ripreso mediante ecografia, durante il quale il feto sente un terribile dolore per ciò che gli stanno praticando Non solo, ma nel documentario vengono mostrati anche resti di feti abortiti (per dare un'occhiata, anche se alcune immagini sono abbastanza forti... ma vere: qui e qui) e di come si sentano le donne che hanno abortito, per aver ucciso il proprio figlio e non tanto per questioni di salute, dato che se queste ci fossero, andrebbero valutate attentamente e stabilire se rientrano nell'aborto diretto o in quello indiretto. Inoltre, le procedure per l’aborto entro il primo trimestre sono: l’aspirazione endouterina o la dilatazione del canale cervicale e raschiamento uterino. Dopo il primo trimestre, di solito, di utilizza la dilatazione cervicale e svuotamento dell’utero con pinza e anelli.

Ora, che si tratti dell’America settentrionale o dell’Italia, l’aborto resterà sempre, oggettivamente parlando, un vero omicidio: l’omicidio è la morte di una persona umana causata da un’altra persona umana; l’aborto (procurato) è morte di una persona umana causata da un’altra persona umana; dunque l’aborto è omicidio. Che in Italia sia illegale ma consentito in base ai punti dell’art.6 della legge 194, per il fine «tutelante» la salute della donna, non giustifica l’aborto stesso poiché esso è sempre espressione di morte di una persona umana, quale è il nascituro, ed è sempre omicidio.

Se in Italia vi sono due leggi contrarie (contro l’omicidio ma a favore dell’aborto e dunque a favore dell’omicidio), seppure quella dell’aborto con restrizioni ma non giustificanti l'intrinsecità cattiva, in America settentrionale, e in tal caso a New York, il problema viene drammaticamente risolto col fatto che non si dice omicidio nel caso del nascituro fino a quando resti ancora nel grembo materno. Questo implica di conseguenza che il nascituro non viene considerato come «persona». È appunto questo uno degli aspetti più evidenti.

Ciò che prevede la legge americana rispetto a quella italiana è un passo in avanti, ma negativo. Tante sono le manipolazioni in merito a questo atto omicida che superano enormemente i casi di vera tutela della donna, e penso che questo sia risaputo. Ma la tendenza, purtroppo, è sempre quella della autodeterminazione svincolata, la quale vuole prescindere a tutti i costi – ma a propria enorme rovina – dalla legge naturale, insita in ogni persona umana presente su questo pianeta, per il fatto stesso di essere «umano», per cui di natura ragionevole. Ciò che magari ci si potrebbe aspettare è che un domani neanche l’essere umano già nato sia considerato persona, ma un semplice essere vivente, un semplice mammifero o una semplice macchina biologica, a differenza della Chiesa, la quale ha sempre dichiarato e sempre dichiarerà la dignità infinita e unica di ciascuna persona umana, dall'inizio del concepimento fino alla morte, preferibilmente non per omicidio. È strano anche il fatto che lo stato di New York favorisca una sorta di pena di morte e la favorisca in questo modo a persone che assassini non sono poiché non ancora in grado di compiere un atto responsabile, o forse per l’unica responsabilità di trovarsi nel grembo materno. 

Ciò che sta alla base di questa critica (negativa) non è tanto il fatto che sia spuntato fuori l’aborto nello stato di New York con le evidenti dinamiche – anche in Italia è consentito l’aborto come riporta la legge n.194, seppure di per sé è illegale –, ma il fatto che in nome dell’aborto come tutela della persona della donna sia messa in grave pericolo la persona umana nella sua totalità, compresa la donna! Non ci sono solo le donne di oggi, ma anche quelle del futuro, ammesso che potranno nascere.

Che vi siano stati dei passi avanti è innegabile, ma verso il buio, in quanto se escludessimo la morte di un bambino/a non ancora nato/a come conseguenza di un atto compiuto da una persona umana esterna dalla categoria «omicidio», questo comporterebbe inevitabilmente che la creatura nel grembo materno non sia persona umana, ma un ente qualsiasi.

Per concludere, si giunge a due estremi: l’uomo come creatore o l’uomo come creatura. Che l’uomo sia creatore è cosa a dir poco assurda, per ciò che implica il significato della parola «creatore», nonostante se ne sentano tante: «abbiamo creato»; «è stato creato...»; «ho deciso di creare» ecc. L’uomo «realizza», ma non può «creare», al massimo può «procreare». Insomma, per come la si voglia portare avanti, l’uomo non si è dato l’essere da sé e di conseguenza la vita non può darsela da sé, ma può solo riceverla… e da un Creatore! Pertanto, l’uomo non può ergersi al posto del Creatore. Ne verrebbe fuori la rovina dell’uomo stesso dacché andrebbe contro se stesso, contro la sua natura «creata» e non «creatrice».

Certamente l’uomo è libero di disporre di sé, ma la libertà è propria delle creature razionali. Potrebbe anche ergersi al posto del Creatore, come già successo in passato. Ma non si incolpi Dio al verificarsi di tanti mali che saranno e che alcuni sono già. L’uomo è responsabile dei propri atti ed è sin dal principio chiamato ad essere non il padrone assoluto del creato, ma il custode (Cfr. Gen 2,15), e in tale custodia rientra anche e soprattutto quella della vita umana (Cfr. Gen 4,9).


Gabriele Cianfrani




Per approfondimenti:

- Barra Gianpaolo – Iannacone Antonio M. – Respinti M., Dizionario elementare di Apologetica, Istituto di Apologetica (IdA), Milano 2015;

 - Brambilla G. (a cura di), Riscoprire la Bioetica, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2020;

 - Carbone Giorgio M. O.P., L’embrione umano: qualcosa o qualcuno?, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 20145;

 - Giuseppe Garrone [a cura di], Contraccezione e aborto, prefazione di Mons. G. Zaccheo, Gribaudi, Milano 2004;

 - Giovanni Paolo II (San), Veritatis Splendor, Edizione Paoline, Milano 201513;

 - Lucas Lucas R., L’uomo: spirito incarnato, San Paolo, Milano 19935;

 - Paolo VI (San), Humanae Vitae, edizione Paoline (42a edizione), Milano 2016;

 - Puccetti R., L’uomo indesiderato: dalla pillola di Pincus alla RU 486, prefazione di C. Casini, presentazione di Di Pietro M.L., Società Editrice Fiorentina, Firenze 2008;

 - Rodriguez-Luño A., Scelti in Cristo per essere santi. III Morale speciale, EDUSC, Roma 20082.