Blog di informazioni e riflessioni su quanto concerne temi cristiani

giovedì 20 maggio 2021

IL "SIMBOLO" COME PROFONDITA' DELLA REALTA'

 


Ciò che si esprime con la parola «simbolo» non riguarda affatto qualcosa di sfumato, al limite con la realtà, men che mai è un modo di dire. Spesse volte si sentono espressioni del tipo: «è un gesto simbolico»; «è un modo di fare simbolico»; «quello è un simbolo» e così via. Va bene, ma a volte il riferimento non è a ciò che il «simbolo» racchiude in sé. La concretezza di ciò che il «simbolo» esprime va al di là delle semplici espressioni verbali. 

Il termine simbolo, dal greco σύμβολον (symbolon), deriva da σύμβάλλω (symballo), e la medesima è costituita da σύμ (sym) e βάλλω (ballo). Letteralmente risulta: insieme (sym) getto/pongo (ballo). Ora, da ciò si conclude che il simbolo esprime un «gettare/porre insieme», un «mettere insieme». Anzitutto riguardava una sorta di «segno di riconoscimento», come si vedrà. 

Ad esempio, nella Scrittura troviamo alcuni gesti simbolici soprattutto riguardanti i Profeti, ossia le «azioni profetiche» nell’Antico Testamento, maggiormente in Ezechiele (cfr. 4,1-3; 5,1-2; 12,1-19; 21,11-12 e altri) e Geremia (cfr. 13,1-11; 16,1-9; 19,1-11 e altri), ma anche in altri libri (Isaia, Osea, Zaccaria ecc.). Il Nuovo Testamento presenta ugualmente gesti assai simbolici, che non sarebbe possibile trattare al momento poiché richiederebbe uno spazio considerevole. Ma ciò che è importante tenere presente è che il «simbolo» rimanda alla partecipazione di una realtà estremamente profonda che difficilmente può essere espressa come ci si esprime comunemente. Ad esempio, la «croce di Cristo» presenta una profondità infinita – compendio dell’amore di Dio per l’uomo –, e per quanto si possa discutere e fare ricerca, essa non si esaurirà mai. Ed ecco che anche il semplice «segno della croce» – ‘semplice’ per modo di dire – consta di una intensità inimmaginabile.

Ma la ricchezza del «simbolo» è chiaramente riportata anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che dà fondamento e completa quanto esposto sopra: la parola greca σύμβολον indicava la metà di un oggetto spezzato (per esempio un sigillo) che veniva presentato come un segno di riconoscimento. Le parti rotte venivano ricomposte per verificare l’identità di chi le portava. Il «Simbolo della fede» è quindi un segno di riconoscimento e di comunione tra i credenti. Σύμβολον passò poi a significare raccolta, collezione o sommario. Il «Simbolo della fede» è la raccolta delle principali verità della fede. Da qui deriva il fatto che esso costituisce il primo e fondamentale punto di riferimento della catechesi (n. 188).

In conclusione, quando si pronunciano le parole del «Credo (o Simbolo) Apostolico» o di quello «Niceno-Costantinopolitano», occorrerebbe prestare la massima attenzione, dato che ogni parola ha la sua profondità, essendo «professione di fede».

Alla classica domanda: «di che segno sei?», se proprio si volesse rispondere qualcosa, la risposta non può che essere: «del segno della croce».



Gabriele Cianfrani


mercoledì 19 maggio 2021

LA CHIESA: CONVOCAZIONE DI DIO O SEMPLICE RADUNO DI UOMINI?

maggio 19, 2021 Posted by Gabriele Cianfrani , , , , No comments



Stando al meraviglioso teso evangelico di ieri, ossia della ventunesima Domenica del Tempo Ordinario - articolo già scritto il 24 agosto 2020 e qui ripubblicato -, ciò che vi è contenuto è estremamente profondo e vasto, infatti il testo è quello di Mt 16,13-20, che viene solitamente definito come il «primato di Pietro». Ora, tra i tanti punti contenuti, ve n’è uno molto importante che risponde ad una domanda altrettanto importante: cos’è la Chiesa? La risposta a questa domanda la si può trovare benissimo in questo brano del Vangelo secondo Matteo. Per cui si cercherà, senza dilungamenti, di rispondere a tale domanda considerando il testo evangelico.

In latino, poiché rende meglio, il passo riguardante l’edificazione della Chiesa su san Pietro è il seguente: Et ego dico tibi, quia tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam, et portae inferi non praevalebunt adversus eam (Mt 16,18). Dal testo latino si pone l’accento su quell’«ecclesiam (meam)», infatti, la derivazione è dal greco «ἐκκλησία» (ekklēsía), che deriva dal verbo greco «καλέω» che significa «chiamare». Ora, nella Bibbia dei LXX (versione greca della Bibbia), si riscontra che il termine greco «ekklēsía» traduce l’ebraico «קהל» (qahal), mentre il greco «συναγωγή» traduce l’ebraico «עֵדָה‎» (‘edah). Ci si chiederà quale sia la differenza. Ebbene la differenza è che «synagoge» esprime una sorta di passività, ossia una semplice assemblea, un raduno; «ekklēsía» esprime più attività, ossia una convocazione, una assemblea ma sorta per chiamata. In tal caso, poiché il termine «Chiesa» viene dal greco «ekklēsía», il quale traduce l’ebraico «qahal» ed esprime attività della chiamata, la Chiesa è soprattutto la «chiamata di Dio», la «convocazione da parte di Dio» e non un semplice raduno di uomini. In ciò si comprende che il fondamento ultimo della Chiesa è Dio stesso poiché la chiamata è da parte di Dio. Certamente la roccia sulla quale il Cristo edificherà la Chiesa sarà quella di Pietro, ma la Chiesa in quanto tale è opera di Dio – Gesù è pienamente uomo e pienamente Dio, poiché è il Verbo eterno incarnato –, infatti Gesù dice che edificherà la «sua» Chiesa. Ed è per questo che la Chiesa non dipende, in ultima istanza, dagli uomini, ma da Dio stesso. Pietro prenderà in mano il timone, ma di una Chiesa che non è sua, ma di Dio. 

A questo punto vi è lo spunto per quel che riguarda la «santità» della Chiesa, ossia come può dirsi santa se ancora si commette peccato. Ma la risposta è che alla santità occorre non solo che si risponda ma che si corrisponda. A quale santità? A quella a cui siamo stati chiamati col santo Battesimo, il quale rigenera la persona umana nelle profondità della sua natura, intrinsecamente. Pertanto, nonostante il peccato venga commesso – questo è un tema molto importante, ma che non è possibile sviluppare adesso –, la Chiesa può dirsi «santa» in quanto non è l’uomo ad averla convocata, ma Dio. E Dio è santo, o meglio, è il Santo! Per cui il fondamento ultimo è sempre Dio. La Chiesa, nonostante sia chiamata anche a purificarsi nel tempo, tale purificazione è in vista del raggiungimento della santità totale, del compimento della santità. Ma ciò che deve giungere come messaggio, è che la Chiesa non ha origini umane ma divine, dacché è la convocazione di Dio, è la Chiesa di Dio.


Gabriele Cianfrani


PS. Articolo già pubblicato in https://bussolaculturale.it/la-chiesa-convocazione-di-dio-o-semplice-raduno-di-uomini-a-cura-di-gabriele-cianfrani/

giovedì 1 aprile 2021

QUANDO AVRETE INNALZATO IL FIGLIO DELL'UOMO, ALLORA CONOSCERETE CHE IO SONO


 

In questo Triduo pasquale e in questo momento di grande prova per tutti, ancora una volta nella croce di Gesù si trova compendiato tutto. Certamente seguirà la risurrezione, come Gesù stesso annunciò (Cfr. Mt 16,21; 17,22-23; 20,17-19; Mc 8,31; 9,31; 10,32-34; Lc 9,22; 9,43-44; 18,31-33), ma prima della risurrezione vi è la croce.

Ma per quale motivo la croce? Per quale motivo tante sofferenze dovettero precedere la croce? In che modo tutto ciò è servito alla redenzione? Diverse sono le domande che possono essere poste e non vi è da meravigliarsi. Riportare tutto ciò che occorrerebbe riportare vorrebbe dire non finire più, considerando anche le innumerevoli pagine scritte in merito. Ciò che si potrebbe tentare di fare è una «sintesi», nel senso etimologico della parola (dal greco synthesis (σύνθεσις), che significa composizione, unione, mescolanza), che sarà anche riassuntiva.

Eloquente e mirabile ciò che è riportato nella prima lettera di Pietro: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia. Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime (1Pt 2,22-25). Gesù ha preso su di sé i nostri peccati, dunque lo fece volontariamente e di conseguenza liberamente. Ugualmente mirabili sono i quattro canti o carmi del servo del Signore riportati nel libro di Isaia (42,1-4; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12), con riferimento chiaro a ciò che si verificherà per mezzo e in Gesù di Nazareth, il Cristo.

Ora, in Cristo siamo stati redenti, ma la redenzione non è propriamente sinonimo di salvezza. La «salvezza» era presente dall’inizio, per cui l'elevazione dell’uomo affinché raggiungesse il massimo bene era presente dall'inizio. Certamente si concretizza come storia della salvezza da Abramo in poi, ma in ogni caso l’uomo, per raggiungere la sua meta ultima, ha sempre bisogno di Dio, e questo trova pienezza in Cristo che ci salva riconciliandoci con Dio (CCC, 457). La «redenzione» significa il riacquisto, il riscatto dell’uomo che si era venduto schiavo al peccato (Cfr. Gv 8,34), quel peccato che trova origine appunto in Gen 3,1-7: il peccato originale. Escludere la colpa di origine comporta escludere anche l’evento pasquale, dato che la redenzione è in riferimento alla schiavitù del peccato, che parte dalla colpa originaria, dal peccato originale. E con il peccato, per invidia del diavolo, fece ingresso anche quel male che sarà annientato per ultimo: la morte (Cfr. Sap 2,24; 1Cor 15,26;). Ma il riscatto è avvenuto per mezzo di Cristo a prezzo del suo sangue, in quanto il suo sangue è il prezzo del nostro riscatto, essendo egli il vero agnello pasquale senza difetti e senza macchia (Cfr. 1Pt 1,18). L’espiazione, la purificazione dalle colpe viene effettuata per mezzo del sangue perché il sangue, in quanto vita, espia (Cfr. Lv 11,17). Dunque Cristo ci riscatta dalla schiavitù del peccato pagando tale riscatto, con il prezzo del suo sangue, al Padre. Dal primo istante della sua incarnazione il Figlio abbraccia nella sua missione redentrice il disegno divino di salvezza: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34; CCC, 606). E la possibilità di ritornare in grazia di Dio per mezzo del sacramento della Riconciliazione è dovuto al sacrificio espiatorio sulla croce, sacrificio dal quale, in ultimo, provengono anche tutti gli altri sacramenti.

Mai avrebbe potuto un semplice essere umano, per quanto santo potesse essere, riscattare il genere umano dal peccato, se non un essere umano che non fosse solo umano, o meglio, Dio che assumesse natura umana – per natura umana si intende l’essenza umana, ossia il corpo e l’anima – e precisamente la seconda Persona della Santissima Trinità, il Verbo di Dio. Gesù di Nazareth non è il risultato di due persone (eresia nestoriana), ma di due nature, umana e divina, e poiché la natura divina del Verbo coincide con la sua Persona, in Gesù vi è una sola persona, quella eterna del Verbo che assume natura umana in Maria e da Maria, col risultato di essere vero Dio e vero uomo, perfetto Dio e perfetto uomo. L’umanità di Cristo non ha altro soggetto che la Persona divina del Figlio di Dio, che l’ha assunta e fatta sua al momento del suo concepimento. Maria è Madre di Dio non certo perché la natura del Verbo o la sua divinità avesse avuto origine dalla santa Vergine, ma, poiché nacque da lei il santo corpo dotato di anima razionale a cui il Verbo è unito sostanzialmente, si dice che il Verbo è nato secondo la carne (CCC, 466). Il peccato è dell’uomo, non di Dio, ma nessun uomo avrebbe potuto riscattare il genere umano dalla schiavitù del peccato, considerando anche che i progenitori si trovavano nello stato di santità e di giustizia originale, che persero col peccato e che non poterono riacquistare più poiché tale stato in cui si trovavano era dono di Dio. Solo Dio avrebbe potuto riscattare il genere umano, assumendo natura umana in Gesù, vero Dio e vero uomo. Infatti, dopo aver accettato di dargli il Battesimo tra i peccatori, Giovanni Battista ha visto e mostrato in Gesù l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo. Egli manifesta così che Gesù è insieme il Servo sofferente che si lascia condurre in silenzio al macello e porta il peccato delle moltitudini e l’Agnello pasquale simbolo della redenzione di Israele al tempo della prima pasqua. Tutta la vita di Cristo esprime la sua missione: servire e dare la propria vita in riscatto per molti (CCC, 608). Non più la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, anche se tale azione misericordiosa di Dio viene sempre ricordata, ma la liberazione dalla schiavitù del peccato, che è più radicale ed è la liberazione determinante.

Ora, vien da chiedersi se era necessario che Cristo patisse per la liberazione del genere umano. Se si considera ciò che è necessario come se una cosa non può essere altrimenti o come se si trattasse di una necessità di coazione, allora non vi è alcuna necessità dei patimenti di Cristo, dato che l’azione redentrice è stata libera. Invece, se si considera ciò che è necessario in base al fine, come se non fosse possibile raggiungere un certo fine in alcun modo oppure non in modo conveniente, allora è possibile parlare di necessità, ma una necessità che ha come fondamento la libertà di Dio. Infatti, si capisce ciò per tre motivi: considerando la passione di Cristo dal lato nostro possiamo dire che siamo stati redenti; considerando la passione di Cristo dal lato suo possiamo dire che l’umiliazione della passione doveva meritare la gloria dell’esaltazione; considerando la passione di Cristo dal lato di Dio possiamo dire che il decreto della medesima era stato preannunziato dalle Scritture e prefigurato nelle osservanze dell’Antico Testamento. Pertanto, la liberazione dell’uomo per mezzo della passione di Cristo fu conveniente e alla «misericordia» e alla «giustizia» sua. Alla giustizia, perché per mezzo della sua passione Cristo riparò per il peccato del genere umano, e così per la giustizia di Cristo l’uomo è liberato. Alla misericordia, perché, non essendo l’uomo per sé in grado di soddisfare per il peccato di tutta la natura umana, Dio gli concesse quale riparatore suo Figlio. Tale atto di misericordia fu più grande del condono dei peccati senza soddisfazione (Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIIa, q. 46, a. 1). La passione di Cristo, che avvenne per libera e infinita misericordia di Dio, oltre che insieme alla giustizia – in Dio nulla è separabile da Lui, poiché Egli è assolutamente semplice –, fu il modo più conveniente per raggiungere il fine, poiché una cosa è tanto più conveniente quanto più sono i vantaggi che con essa si raggiungono. Infatti, oltre alla liberazione dal peccato, la passione di Cristo ha procurato all’uomo molti vantaggi: per questo l’uomo conosce quanto Dio lo ami e per questo viene indotto ad amarlo; perché Cristo ci ha dato l’esempio di obbedienza, di umiltà, di costanza, di giustizia e di tutte le altre virtù mostrate nella passione, indispensabili per la nostra salvezza, come ricorda la prima lettera di Pietro: anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme (1Pt 2,21); perché in tal modo Cristo non solo ha redento l’uomo dal peccato, ma gli ha meritato anche la grazia giustificante e la gloria della beatitudine ed altri (Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIIa, q. 46, a. 3). Ed è stato molto conveniente che Cristo morisse sulla croce: affinché nessun genere di morte spaventasse l’uomo che vive rettamente, fu necessario mostrarlo con la croce di Cristo: poiché fra tutti i generi di morte nessuno era più esecrabile e terribile; tale morte era il più indicato per soddisfare il peccato dei nostri progenitori, che mangiarono il frutto dell’albero proibito da Dio, per cui tale morte sulla croce restituì quanto Adamo aveva sottratto. Tutto ciò che Adamo perse, Cristo lo recuperò sulla croce (Cfr. Ibid., q. 46, a. 4). Pertanto, il Triduo pasquale culminante con la Pasqua di risurrezione del Signore Gesù, risponde alla domanda circa il perché il Verbo si è fatto uomo (?). Egli si è fatto uomo per la nostra salvezza (CCC, 456); per salvarci riconciliandoci con Dio (CCC, 457); perché noi conoscessimo l’amore di Dio (CCC, 458); per essere nostro modello di santità (CCC, 459); perché diventassimo partecipi della natura divina (2Pt 1,4; CCC, 460), perché l’uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio (Ireneo di Lione, Adversus haereses, 3, 19, 1). Ciò per mezzo del Battesimo.

Inoltre, riprendendo un passaggio precedente, risulta interessante una parte del sermone 18 di S. Tommaso d’Aquino: il genere umano venne ferito dall’albero, poiché il primo uomo mangiò dell’albero proibito; e così la divina Sapienza ricavò dall’albero la medicina. Il genere umano fu ferito dalla disobbedienza: infatti il primo uomo colse avidamente il frutto dell’albero proibito; ed ecco che l’uomo nuovo quasi come frutto salutare restituì se stesso all’albero. Perciò il Salmista (Sal 69[68],5) dice: «Quanto non rapinai, io restituivo». Egli restituì se stesso all’albero per ricompensare il danno e portare il rimedio; perciò Sap 14,7 dice: «È benedetto l’albero per mezzo del quale si compie la giustizia» (Sermone 18, conferenza vespertina).

Dunque l’argomento è estremamente vasto, tanto quanto ciò che tratta, per cui sarebbe infinito.

Questa breve sintesi è una tra le tantissime, ma tutte hanno in comune una cosa: l’attesa della risurrezione di Gesù, che è la verità culminante della nostra fede in Cristo, creduta e vissuta come verità centrale dalla prima comunità cristiana, trasmessa come fondamentale dalla Tradizione, stabilita dai documenti del Nuovo Testamento, predicata come parte essenziale del mistero pasquale insieme con la croce (CCC, 638). Senza la risurrezione tutto sarebbe vano (Cfr. 1Cor 15,14). Nel complesso, la risurrezione di Cristo è principio e sorgente della nostra risurrezione (CCC, 655).

Ed è possibile concludere con le stesse parole della Scrittura: «Ecco, sono compiute! Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine. A colui che ha sete io darò gratuitamente da bere alla fonte dell’acqua della vita. Chi sarà vincitore erediterà questi beni; io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio» (Ap 21,6-7).



Santa Pasqua!


Gabriele Cianfrani 

lunedì 29 marzo 2021

LA LUCE DELL'ATTO PRIMO

marzo 29, 2021 Posted by Gabriele Cianfrani , , , , No comments


È possibile discutere in merito a ciò che non esisterebbe se mancasse il fondamento, escludendo «di proposito» il fondamento? Eppure pare proprio che tante volte si voglia escludere il fondamento. Quale fondamento? Quello dell’atto primo: ciò che fa sì che una cosa sia e che sia tale cosa e non altra. Si tratta della forma sostanziale, la quale è ciò che apporta vita, specifica la cosa e media l’atto d’essere (actus essendi), che fondamenta anche la forma sostanziale. In ultimo, l’atto d’essere è conferito da Colui che è il Suo stesso Essere (Ipsum Esse subsistens), ossia Dio. Dunque l’atto primo gode di una importanza notevole! In merito al discorso circa l’atto primo e la vita in generale, ma soprattutto in merito a quella umana, è possibile cliccare qui.


mercoledì 24 marzo 2021

LA TRAGICA SCELTA: PADRE - MADRE O GENITORE 1 - GENITORE 2?

marzo 24, 2021 Posted by Gabriele Cianfrani , , , , , No comments

 


Pare sia tornata nuovamente in campo la proposta di apporre sul documento d’identità, per i ragazzi e ragazze al di sotto di 14 anni, la dicitura «genitore 1» e «genitore 2». Se spetti al padre o alla madre essere genitore 1 o genitore 2 è una decisione alquanto ardua… Ma se si decidesse per una sorta di equivalenza, tanto vale che resti la dicitura tradizionale, senza porsi aporie circa la «privacy», che potrebbe esser considerata come una aporia camuffata. Proviamo una riflessione.

Nelle Litaniae Lauretanae beatae Mariae Virginis, in merito a Maria «Madre di Dio», troviamo il latino «Sancta Dei génetrix». Ciò gode di una certa importanza, in quanto vuol dire «genitrice», al femminile. Ma a questo punto non sarebbe neanche pensabile il fatto di sostituire la dicitura genitore 1/genitore 2 con genitore/genitrice, per il semplice motivo che chi vuole apportare tale modifica – senza fare nomi, tanto per molti è chiaro – rientra sempre tra coloro che si battono per le «discriminazioni», con lo scopo di ottenere una sorta di egualitarismo assoluto. Pertanto, anche questa volta, pare che il problema della «privacy» rimandi ad una impostazione antropologica ben precisa. E in ciò consiste la contraddizione, dato che si recherebbe più discriminazione di quel che non si pensa!

Genitore e genitrice, di per sé, hanno a che fare con la «generazione», con il generare – da γενναω (genero, produco) –, per cui ci troviamo nella vera «complementarietà». Se mancasse questo punto si rischierebbe di incorrere in quella autonoma forza di affermazione non esente da egoismo.[1] La prima comunione è quella che si instaura e si sviluppa tra i coniugi: in forza del patto d’amore coniugale, l’uomo e la donna «non sono più due, ma una carne sola» (Mt 19,6; cfr. Gen 2,24) e sono chiamati a crescere continuamente nella loro comunione attraverso la fedeltà quotidiana alla promessa matrimoniale del reciproco dono totale. Questa comunione coniugale affonda le sue radici nella naturale complementarietà che esiste tra l’uomo e la donna, e si alimenta mediante la volontà personale degli sposi di condividere l’intero progetto di vita, ciò che hanno e ciò che sono: perciò tale comunione è il frutto e il segno di una esigenza profondamente umana.[2]

Per tal motivo, che poi risulta intrinsecamente umano, difficilmente si può essere indotti a credere che la dicitura genitore 1 e genitore 2 sia richiesta solo per motivi di privacy. Ciò che traspare è il mettere in discussione la complementarietà tra i genitori. Ma tale complementarietà, che possa piacere o meno, la si riscontra già sul piano biologico, su quello sessuale, ma non solo. Interessante il fatto che la parola «sesso», secondo alcune ricerche, abbia a che fare con il greco τίκτω (partorisco, genero) e che «figlio» si dica anche – in tal caso – τέκνον, ma anche in altri modi con sfumature importanti. Ma nonostante l’etimologia esatta sia ancora sotto ricerca, la parola «sesso» deriverebbe anche dal latino secare (dividere). In ogni caso, lasciando ampio spazio per discussioni, pare che si ponga sempre in evidenza la «complementarietà». Dunque non si vede il motivo per cui ciò che rientra nella essenza di una persona umana – nella sua φύσις (natura) – sia problematico per la privacy, in virtù della quale occorre porre rimedio.[3] Se ciò risultasse un problema, allora il discorso interesserebbe la persona umana nella sua interezza, per cui l’attenzione verterebbe sul piano antropologico. Se così fosse il pensiero sarebbe molto più radicale di quello della «privacy». Pertanto, per concludere – non definitivamente, poiché la questione merita di essere ripresa –, pare proprio che questa complementarietà, che si riscontra concretamente nei genitori, per cui nella famiglia, sia uno dei bersagli della nuova dicitura. Il bersaglio principale pare che sia l’identità stessa della persona, con le sue differenze essenziali, all’insegna di una sorta di egualitarismo assoluto. C’è da chiedersi: è possibile realizzare un puzzle eliminando le differenze di ogni pezzo?

 

 Gabriele Cianfrani



[1] Cfr. Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, n. 6.

[2] Ibid., n. 19.

[3] Dal punto di vista metafisico, la differenza sessuale rientra nella categoria degli «accidenti», ma sono «inseparabili». Vi sono accidenti «propri», ossia dai princìpi della specie, per cui dipendono dalla forma (sostanziale): il nitrito del cavallo non è il cavallo, ma promana dalla sua natura, che si fondamenta nella sua forma sostanziale; vi sono accidenti «inseparabili», ossia dai princìpi dell’individuo e hanno causa permanente nell’individuo: un cavallo è tale per la forma, ma è maschio o femmina a causa dell’accidente inseparabile che rientra nei princìpi dell’individuo; poi vi sono accidenti «separabili», con causa esterna. Dunque la sessualità non rientra nella separabilità dall’individuo (Cfr. C. Ferraro, Appunti di metafisica. Un percorso speculativo, pedagogico e tomistico, Lateran University Press, Roma 20182, pp. 331-332). Tali accidenti «inseparabili» hanno la causa permanente nel soggetto – habent causam permanentem in subiecto, et haec sunt accidentia inseparabilia, sicut masculinum et feminum et alia huiusmodi (Tommaso d’Aquino, QD anima, a. 12 ad 7um).

venerdì 5 febbraio 2021

L'UOMO: E' CONCEPITO TALE O CI DIVENTA?



Quando si trattano temi come l’aborto, in se stesso e nelle sue sfaccettature, spesse volte si sfocia nel discorso riguardante l’anima (umana). Al riguardo vi sono ancora alcune posizioni che colgono una sorta di giustificazione all’aborto – l’etimologia di tale termine non riguarda affatto ciò che oggi si esprime, come tanti altri termini - in ciò che il grande San Tommaso d’Aquino avrebbe scritto circa l’animazione umana, argomento da poter esser preso come una sorta di giustificazione. Ma ciò è insostenibile, dato che in nessun passo in merito all’animazione umana si riscontra tale giustificazione. Prima di tutto per ciò che riguarda l’uccisione dell’innocente nel grembo materno (leggere il commento del V comandamento), poi perché si tratta di una lettura sbagliata dei testi dell’Aquinate. Inoltre, leggendo bene i suoi testi, si riscontra che le cose stanno ben diversamente, come già a partire da Summa Theologiae, Ia, q. 76, aa. 3-4. E poi non bisogna dimenticare un passo molto importante di Geremia: «prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni» (Ger 1,5).

 Per approfondire la questione è possibile cliccare qui!


domenica 22 novembre 2020

SOLENNITA' DI CRISTO RE DELL'UNIVERSO


 

Con la solennità di Cristo Re si chiude l’anno liturgico, per poi riaprirsi con la Domenica successiva, prima Domenica di Avvento.

Nel rito romano antico - la forma straordinaria del rito romano -, nel Messale promulgato da Papa Pio V nel 1570, tale solennità cade nell’ultimo giorno del mese di ottobre. Nella forma ordinaria del rito romano cade nell’ultima Domenica dell’anno liturgico.

La solennità di Cristo Re venne istituita da Papa Pio XI con l’enciclica Quas Primas dell’11 dicembre 1925.



Un breve estratto della suddetta enciclica:

Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l'appellativo di Re per il sommo grado di eccellenza, che ha in modo sovraeminente fra tutte le cose create. In tal modo, infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini non solo per l'altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è Verità ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da Lui la verità; similmente nelle volontà degli uomini, sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perché con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana ( Supereminentem scientiae caritatem) e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità: nessuno infatti degli uomini fu mai tanto amato e mai lo sarà in avvenire quanto Gesù Cristo.

Ma per entrare in argomento, tutti debbono riconoscere che è necessario rivendicare a Cristo Uomo nel vero senso della parola il nome e i poteri di Re; infatti soltanto in quanto è Uomo si può dire che abbia ricevuto dal Padre la potestà, l'onore e il regno, perché come Verbo di Dio, essendo della stessa sostanza del Padre, non può non avere in comune con il Padre ciò che è proprio della divinità, e per conseguenza Egli su tutte le cose create ha il sommo e assolutissimo impero.

[…] Che poi questo Regno sia principalmente spirituale e attinente alle cose spirituali, ce lo dimostrano i passi della sacra Bibbia sopra riferiti, e ce lo conferma Gesù Cristo stesso col suo modo di agire.

In varie occasioni, infatti, quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, egli cercò di togliere e abbattere questa vana attesa e speranza; e così pure quando stava per essere proclamato Re dalla moltitudine che, presa di ammirazione, lo attorniava, Egli rifiutò questo titolo e questo onore, ritirandosi e nascondendosi nella solitudine; finalmente davanti al Preside romano annunciò che il suo Regno "non è di questo mondo".

Questo Regno nei Vangeli viene presentato in tal modo che gli uomini debbano prepararsi ad entrarvi per mezzo della penitenza, e non possano entrarvi se non per la fede e per il Battesimo, il quale benché sia un rito esterno, significa però e produce la rigenerazione interiore. Questo Regno è opposto unicamente al regno di Satana e alla "potestà delle tenebre", e richiede dai suoi sudditi non solo l'animo distaccato dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e sete di giustizia, ma anche che essi rinneghino se stessi e prendano la loro croce. Avendo Cristo come Redentore costituita con il suo sangue la Chiesa, e come Sacerdote offrendo se stesso in perpetuo quale ostia di propiziazione per i peccati degli uomini, chi non vede che la regale dignità di Lui riveste il carattere spirituale dell'uno e dell'altro ufficio?

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Solo il Creatore è universalmente re, in quanto per concedere qualcosa, per affidare qualcosa a una persona occorre che prima se ne abbia possesso di tal cosa, poiché non è possibile dare ciò che non si ha. Tuttavia il Verbo eterno non può non avere in comune con il Padre ciò che è proprio della divinità, e per conseguenza ha il sommo e assoluto impero su tutte le cose create, visibili e invisibili, dacché tutto fu creato per mezzo di Lui (Cfr. Gv 1,3). Ma Dio non ha creato tutte le cose per accrescere la propria gloria, ma per manifestarla e per comunicarla (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 293). La «terra», ossia il mondo visibile, fu affidato all’uomo sin dalla creazione, il quale uomo fu creato maschio e femmina (Cfr. Gen 1,27). Non solo, ma Dio concesse all’uomo di governare la terra e di dominare su ogni essere della stessa terra (Cfr. Gen 1,28). Il «dominio» di cui parla il testo genesiaco non rimanda affatto ad una forma di tirannia, ma alla «custodia» (Cfr. Gen 2,15), e non è possibile custodire ciò di cui non si ha il dominio. La donna era già presente in Adam, successivamente fu «formata» (Cfr. Gen 2,22-23). È chiaro che in tal caso Dio partecipa l’uomo della Sua stessa regalità, per quanto possa esser partecipata alla creatura umana. Infatti, il salmista si esprime straordinariamente in merito a ciò: « ... che cosa è mai l'uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato […]» (Sal 8,5-6). L’uomo è stato creato «a immagine di Dio», capace di conoscere e di amare il proprio Creatore, e  fu costituito da lui sopra tutte le creature terrene quale signore di esse, per governarle e servirsene a gloria di Dio (Conc. Vat. II, Gaudium et spes, n. 12).  Un punto da non trascurare: l’immagine perfetta di Dio è solo il Figlio (Cfr. Col 1,15), il Cristo, mentre l’uomo non è «immagine» di Dio, ma è «a immagine» di Dio – la preposizione «a» è fondamentale. Ciò rimanda al fatto che, essendo il Figlio l’immagine perfetta di Dio (Padre) e consustanziale, l’essere «a immagine» di Dio vuol dire che in ultima analisi l’immagine di Dio nell’uomo è secondo la Trinità delle persone divine, anche qualora si propendesse col fatto che l’uomo sia «a immagine» dell’immagine perfetta del Padre, ossia del Figlio, che è consustanziale (ὁμοούσιοςal Padre e allo Spirito Santo (Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 93, a. 5). Pertanto, Dio creò l’uomo nello stato di santità. Col separarsi da Dio l’uomo commise il primo peccato (originale), acconsentendo alle parole del serpente antico e consegnandosi a quest’ultimo. Non guardando più a Dio, l’uomo guardò a se stesso, preferendo la creatura al Creatore, preferendo così, inevitabilmente, anche il serpente. L’uomo aveva perso ciò che Dio gli aveva donato creandolo e non avrebbe mai potuto ripristinare da sé quanto occorreva ripristinare. Ciò avvenne per mezzo del Verbo incarnato, per mezzo del Verbo del quale è scritto: omnia per ipsum facta sunt: et sine ipso factum est nihil, quod factum est (Gv 1,3), per mezzo della Parola di Dio che si fece carne nel grembo verginale e purissimo di Maria, per attuare la redenzione universale e meritarci la vita, riconciliando l'uomo con Dio. È interessante quanto il Doctor Angelicus riporta in un passo, ossia che la prima creazione fu fatta dalla potenza di Dio per mezzo del Verbo. Quindi anche la ricreazione doveva avvenire dalla potenza del Padre per mezzo del Verbo, per corrispondenza, secondo 2Cor 5,19: È stato Dio in Cristo a riconciliare a sé il mondo (Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III, q. 3, a. 8 ad 2). Col Battesimo la persona umana rinasce in Cristo. L’uomo non avrebbe mai potuto pagare quanto vi era da pagare, ma il Figlio dell’uomo sì e lo ha fatto sul legno della croce. Il Cristo, il Figlio eterno del Padre, è con Lui e con lo Spirito Santo «Re dell’universo».



Gabriele Cianfrani