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venerdì 4 giugno 2021

IL DIABOLOS TRA "PERSONIFICAZIONE" E "PERSONA"

 



Il discorso circa il «diavolo» (dal greco διάβολος, dal tema διαβολ/διαβαλ di διαβάλλω)[1], risulta più che mai complicato, soprattutto al tempo di oggi, dato che pare vi sia un vero e proprio svuotamento non solo di tale realtà ma anche – forse ancor prima – di ciò che la parola «diavolo» indichi.

Nella Scrittura la parola, dall’ebraico דָּבָר (dāḇār), ha una importanza notevole. Da un lato essa esprime il «contenuto» che sta in fondo alla parola stessa, per cui non è possibile separare la parola dal suo contenuto; dall’altro lato esprime una realtà che è disponibile soltanto nella parola.[2]

 Ora, la parola in esame è quella di «diavolo». Lungi dal voler essere un esame esaustivo di tale parola e del suo contenuto – di conseguenza della realtà ben precisa a cui rimanda –, ci si concentrerà su alcuni aspetti presi dal saggio «Alberto Castaldini, Dolore del mondo e mistero di iniquità. Il male in Rm 8,18-39, Aracne editrice, Canterano 2020».

Anzitutto la parola diabolos del Nuovo Testamento (NT) rimanda all’ebraico שָׂטָן (śātān), che è quella che si trova nell’Antico Testamento (AT). La radice di tale parola significa «avversare», «accusare», per cui il satana significa l’«accusatore», l’«avversario» (di Dio). I riferimenti nell’AT sono vari, come ad esempio Gb 1,6-12; Zc 3,1s. Anche nel libro della Sapienza vi è un chiaro riferimento (Sap 2,24), ma il medesimo fu redatto totalmente in greco e circa nel I sec. a. C., per cui non rientra nel canone ebraico. Infatti, non compare שָׂטָן (śātān) ma διάβολος (diabolos).

Nel NT troviamo ugualmente vari riferimenti riguardanti la medesima realtà espressa dalla parola diabolos e dalla parola śātān, espressa anche con altre parole («demonio»; «maligno» ecc.) come ad esempio Mt 4,3; 13,24-30; Mc 5, 1-13; Lc 4,1-13; 10, 14-20; Gv 3,12; 13,27; 17,15 solo per riportarne alcuni, dato che nel NT la parola diavolo compare 37 volte mentre la parola satana compare 36 volte. L’identificazione della stessa realtà espressa dalle due parole è confermata dal libro dell’Apocalisse (12,9): Fu scacciato il grande drago, il serpente antico, che è chiamato il diavolo e il satana […]. Inoltre, in questo passo dell’Apocalisse compare anche il «serpente antico», che si identifica col diavolo o il satana. Pertanto, «serpente antico», «diavolo» e «satana» designano la stessa realtà. Ciò non può non rimandare anche al serpente di Gen 3. Ed ecco che sorge la domanda: come intendere dunque la realtà espressa dalle parole «diavolo» e/o «satana», ma anche da «serpente antico»?

Una prima risposta è fornita, seppure non in maniera assolutamente esplicita, dalla Scrittura stessa.

Quello che emerge è che certamente non si tratta di qualcosa di ambiguo o di «impersonale», dato che l’azione di opposizione, di avversione, di accusatore è svolta da un «soggetto» ben preciso, il principale, ma non è il solo (Cfr. Mt 25,41). Insomma, ci si chiede se il diavolo, se il Satana – con l’iniziale maiuscola in quanto indica un soggetto ben preciso, nominandolo, – sia una «personificazione» del male o una «persona». La questione, per quanto riguarda in particolar modo il diavolo, non è così semplice, ma comunque non è da considerare come un principio alternativo a Dio.[3]

Il percorso storico che ha conosciuto la nozione di «persona» è abbastanza noto, per cui in questa sede non verrà trattato, ma soltanto accennato. Tuttavia è importante notare che il termine «volto», in greco πρόσωπον (prόsopon), in ebraico risulta פָּנִים (pānīm). Di per sé, il volto, rimanda ad un soggetto, il quale non cade neanche in una sorta di anonimato. Ora, se col tempo il πρόσωπον passò ad indicare la «maschera» posta sul volto, il termine stabilito per indicare la «persona» fu quello di «ὑπόστασις» (hypόstasis), che significa «base», «fondamento», «soggetto», «sostanza reale» ecc., per cui indica una realtà ontologica concreta.[4] Infatti, è nota anche la definizione di «persona» di san Severino Boezio: persona est rationalis naturae individua substantia. Al riguardo, è importante precisare in che modo può esser preso il termine «sostanza»: nel primo modo si dice sostanza l’essenza della cosa (quidditas rei) espressa dalla sua definizione (es.: uomo; animale); nell’altro modo si dice sostanza il soggetto o supposito che sussiste nel genere di sostanza (quod subsistit in genere substantiae), indica il sussistente concreto, per cui è detto anche soggetto o supposito (es.: Pietro; Giovanni).[5] Dal punto di vista logico, nel primo modo si tratta della «sostanza seconda», nel secondo modo si tratta della «sostanza prima». Nel caso della persona ci si trova nella sostanza prima, ma il termine persona aggiunge a quello di sostanza la determinazione della natura, cioè la razionalità.[6] Pertanto, la persona significa ciò che di più perfetto/nobile si trova nell’universo, cioè il sussistente nella natura razionale.[7] Ora, ciò che sussiste nella natura razionale è «persona»; ma gli angeli, come emerge anche dalla Scrittura, sono esseri di natura razionale o intellettuale; per cui gli angeli sono «persone». Ma dato che anche il diavolo viene presentato come un essere angelico, si conclude che anch’egli debba essere una «persona», dotato di «personalità».[8]

Pertanto, la persona è il sussistente nella natura razionale, e appunto per questo esprime fortemente l’esistere per sé, avere l’essere per sé, sempre partecipato da Colui che è l’Essere per sé sussistente (Ipsum esse subsistens). Da qui sorge una questione molto interessante: Dio è l’Essere per sé sussistente ed è somma Bontà, che partecipa l’essere al mondo creaturale, e l’essere come atto esprime «perfezione». Ma il diavolo è colui che si frappone, colui che divide e va contro le perfezioni stabilite da Dio, per cui andrebbe anche contro quell’essere che Dio comunica per via partecipativa al mondo creaturale. Infatti, il diavolo o il Satana, non è mai se stesso, anzi è la negazione continua di ogni precisazione del suo essere […]. Come si presenta Mefistofele con una frase lapidaria molto espressiva: «Io sono lo spirito che nega sempre!».[9]

Il diavolo, in radicale opposizione alla possibilità creatrice (che coinvolgerà l’uomo nella “nuova creazione” alla fine del tempo), si conferma il principale costante nemico del progetto divino edificato sull’amore e sulla libertà.[10]

Per cui l’azione del diavolo è anche una vera azione di spersonalizzazione nei confronti dell’uomo, che smarrisce se stesso aderendo a questi, al suo piano di morte.[11] In merito a questo smarrimento, Joseph Ratzinger (Papa Benedetto XVI) si esprime chiaramente riguardo alla considerazione del «peccato» in questi ultimi anni:

il peccato è uno dei temi su cui regna un perfetto silenzio. La predicazione religiosa cerca di evitarlo accuratamente. Il teatro e la cinematografia utilizzano il termine in senso ironico e come tema di intrattenimento. La sociologia e la psicologia cercano di smascherarlo come un’illusione o un complesso. Persino il diritto tenta di fare sempre più a meno della nozione di colpa e preferisce servirsi di una terminologia sociologica, che riduce l’idea del bene e del male a un dato statistico e si limita a distinguere tra comportamento normale e comportamento deviante. Ciò implica che le proporzioni statistiche possono anche capovolgersi: quel che oggi è la deviazione può un giorno diventare la regola […].[12]

Altro punto, molto interessante e messo in luce nel saggio, è quello riguardante l’«anomos» [ἄνομος, da ἀ- privativo e νόμος], che vuol dire «senza legge», «ingiusto», che è strettamente connesso ad ἀνομία (anomia), ossia «illegalità», «ingiustizia», «empietà».[13] Dunque un tratto importante da considerare è che il diavolo cercherà sempre di confondere la giustizia con l’iniquità, con lo scopo dello smarrimento dell’uomo e affinché l’umanità non sappia capacitarsi della persistenza della propria sofferenza in un mondo che fu creato per la sua felicità. E nonostante ciò è l’uomo stesso che lo permette con l’adesione ai piani dell’iniquità.[14] Ma in principio era il Logos, Colui che non è solo Via e Verità, ma anche Vita, e l’ultima parola non spetta alla morte ma alla Vita (Cfr. Ap 1,17-18).

Per concludere, certamente occorre approfondire l’aspetto riguardante l’ἄνομος (anomos), dato che ciò rimanda senza dubbio al piano «morale», che gode di una importanza notevole e che spesse volte, purtroppo, subisce una vera e propria distorsione a causa di un vero e proprio snaturamento. Allora è da considerare, poiché questo aspetto riguarda l’ἀνομία, ciò che concerne non soltanto la legge morale naturale ma ancor prima la Legge eterna di Dio, poiché colui che è l’ἄνομος si pone già contro la Legge di Dio, e di conseguenza contro la legge naturale partecipata da Dio all’uomo. Ora, poiché ogni agente agisce per un fine (omne agens agit propter finem), e il primo principio della ragione pratica si fonda sulla nozione di «bene», che è ciò che tutte le cose desiderano, il primo precetto della legge è che bisogna «fare e cercare il bene e bisogna evitare il male». Su questo si fondano gli altri precetti.[15] Ed è appunto per questo che occorre prestare attenzione all’aspetto dell’ἀνομία, dacché si pone contro ogni forma di legge, compresa quella (morale) naturale, e di conseguenza contro il bene. Non solo, ma l’adesione umana all’ἄνομος certamente avrebbe modo di sfociare in una legge (umana positiva) contro la legge naturale, sulla quale invece dovrebbe fondarsi. Ma in tal modo non si avrebbe più una legge, bensì corruzione della legge.[16] Per cui è importante l’approfondimento, considerando ciò che molto spesso si cerca – non a caso – di negare: la «libertà», che ha a che fare fortemente con il subsistens in rationali natura, ossia la «persona», e in questa si fondamenta, la quale trova il suo fondamento ultimo in «Ego sum qui sum» (Es 3,14).



Gabriele Cianfrani



[1] Dal Vocabolario etimologico e ragionato del Romizi. Pertanto, διαβάλλω vuol dire «getto attraverso», «metto discordia», «calunnio», «accuso». Evince l’aspetto di separazione, di mettersi di traverso.

[2] Cfr. AA. VV., Nuovo dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Piemme, Casale Monferrato (AL) 20052, p. 772.

[3] Cfr. A. Castaldini, Dolore del mondo e mistero di iniquità. Il male in Rm 8,18-39, Aracne editrice, Canterano 2020, pp. 32-33.

[4] È importante il fatto che il percorso della nozione di «persona» sia avvenuta certamente per mezzo di speculazioni filosofiche, ma le esigenze erano fortemente teologiche (trinitarie e cristologiche). Infatti, ci troviamo nei primi secoli del Cristianesimo, meglio ancora nei primi Concilȋ: Nicea I (325 d.C.); Costantinopoli I (381 d.C.); Efeso (431); Calcedonia (451). Al riguardo va espresso il contributo determinante dei Padri Cappadoci san Basilio, san Gregorio di Nissa e san Gregorio di Nazianzo.

[5] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia, q. 29, a.2.

[6] Cfr. Ibid., IIIa, q. 2, a. 3.

[7] Ibid., Ia, q. 29, a. 3. In questa definizione san Tommaso perfeziona quella di san Severino Boezio.

[8] In questa sede non ci si sofferma sulla gerarchia angelica risalente allo Pseudo-Dionigi l’Areopagita (De Coelesti Hierarchia) e sul posto gerarchico del Satana, che comunque viene identificato con Lucifero (per esempio in Origene, san Gregorio di Nazianzo, san Girolamo, sant’Anselmo d’Aosta e altri). In ogni caso il Catechismo della Chiesa Cattolica riporta che all’inizio era un angelo buono, creato da Dio, come gli altri angeli ribelli, ma che da se stessi si sono trasformati in malvagi (Cfr. CCC., n. 391).

[9] R. Lavatori, Satana, l’angelo del male, La fontana di Siloe, Torino 2018, p. 521.

[10] A. Castaldini, Dolore del mondo e mistero di iniquità. Il male in Rm 8,18-39, Aracne editrice, Canterano 2020, p. 60.

[11] Cfr. Ibid., p. 32.

[12] J. Ratzinger (Benedetto XVI), In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato, Lindau, Torino 2006, pp. 86-87.

[13] Cfr. A. Castaldini, Dolore del mondo e mistero di iniquità. Il male in Rm 8,18-39, Aracne editrice, Canterano 2020, p. 19. Il testo rimanda anche a 2Ts 2,8 in cui: l’«empio» (ἄνομος) sarà rivelato e il Signore Gesù lo distruggerà col soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta. Tale contesto sarebbe quello riguardante la figura dell’anticristo.

[14] Cfr. Ibid., p. 79.

[15] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia-IIa, q. 94, a.2.

[16] Cfr. Ibid., q. 95, a. 2.

giovedì 20 maggio 2021

IL "SIMBOLO" COME PROFONDITA' DELLA REALTA'

 


Ciò che si esprime con la parola «simbolo» non riguarda affatto qualcosa di sfumato, al limite con la realtà, men che mai è un modo di dire. Spesse volte si sentono espressioni del tipo: «è un gesto simbolico»; «è un modo di fare simbolico»; «quello è un simbolo» e così via. Va bene, ma a volte il riferimento non è a ciò che il «simbolo» racchiude in sé. La concretezza di ciò che il «simbolo» esprime va al di là delle semplici espressioni verbali. 

Il termine simbolo, dal greco σύμβολον (symbolon), deriva da σύμβάλλω (symballo), e la medesima è costituita da σύμ (sym) e βάλλω (ballo). Letteralmente risulta: insieme (sym) getto/pongo (ballo). Ora, da ciò si conclude che il simbolo esprime un «gettare/porre insieme», un «mettere insieme». Anzitutto riguardava una sorta di «segno di riconoscimento», come si vedrà. 

Ad esempio, nella Scrittura troviamo alcuni gesti simbolici soprattutto riguardanti i Profeti, ossia le «azioni profetiche» nell’Antico Testamento, maggiormente in Ezechiele (cfr. 4,1-3; 5,1-2; 12,1-19; 21,11-12 e altri) e Geremia (cfr. 13,1-11; 16,1-9; 19,1-11 e altri), ma anche in altri libri (Isaia, Osea, Zaccaria ecc.). Il Nuovo Testamento presenta ugualmente gesti assai simbolici, che non sarebbe possibile trattare al momento poiché richiederebbe uno spazio considerevole. Ma ciò che è importante tenere presente è che il «simbolo» rimanda alla partecipazione di una realtà estremamente profonda che difficilmente può essere espressa come ci si esprime comunemente. Ad esempio, la «croce di Cristo» presenta una profondità infinita – compendio dell’amore di Dio per l’uomo –, e per quanto si possa discutere e fare ricerca, essa non si esaurirà mai. Ed ecco che anche il semplice «segno della croce» – ‘semplice’ per modo di dire – consta di una intensità inimmaginabile.

Ma la ricchezza del «simbolo» è chiaramente riportata anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che dà fondamento e completa quanto esposto sopra: la parola greca σύμβολον indicava la metà di un oggetto spezzato (per esempio un sigillo) che veniva presentato come un segno di riconoscimento. Le parti rotte venivano ricomposte per verificare l’identità di chi le portava. Il «Simbolo della fede» è quindi un segno di riconoscimento e di comunione tra i credenti. Σύμβολον passò poi a significare raccolta, collezione o sommario. Il «Simbolo della fede» è la raccolta delle principali verità della fede. Da qui deriva il fatto che esso costituisce il primo e fondamentale punto di riferimento della catechesi (n. 188).

In conclusione, quando si pronunciano le parole del «Credo (o Simbolo) Apostolico» o di quello «Niceno-Costantinopolitano», occorrerebbe prestare la massima attenzione, dato che ogni parola ha la sua profondità, essendo «professione di fede».

Alla classica domanda: «di che segno sei?», se proprio si volesse rispondere qualcosa, la risposta non può che essere: «del segno della croce».



Gabriele Cianfrani


mercoledì 19 maggio 2021

LA CHIESA: CONVOCAZIONE DI DIO O SEMPLICE RADUNO DI UOMINI?

maggio 19, 2021 Posted by Gabriele Cianfrani , , , , No comments



Stando al meraviglioso teso evangelico di ieri, ossia della ventunesima Domenica del Tempo Ordinario - articolo già scritto il 24 agosto 2020 e qui ripubblicato -, ciò che vi è contenuto è estremamente profondo e vasto, infatti il testo è quello di Mt 16,13-20, che viene solitamente definito come il «primato di Pietro». Ora, tra i tanti punti contenuti, ve n’è uno molto importante che risponde ad una domanda altrettanto importante: cos’è la Chiesa? La risposta a questa domanda la si può trovare benissimo in questo brano del Vangelo secondo Matteo. Per cui si cercherà, senza dilungamenti, di rispondere a tale domanda considerando il testo evangelico.

In latino, poiché rende meglio, il passo riguardante l’edificazione della Chiesa su san Pietro è il seguente: Et ego dico tibi, quia tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam, et portae inferi non praevalebunt adversus eam (Mt 16,18). Dal testo latino si pone l’accento su quell’«ecclesiam (meam)», infatti, la derivazione è dal greco «ἐκκλησία» (ekklēsía), che deriva dal verbo greco «καλέω» che significa «chiamare». Ora, nella Bibbia dei LXX (versione greca della Bibbia), si riscontra che il termine greco «ekklēsía» traduce l’ebraico «קהל» (qahal), mentre il greco «συναγωγή» traduce l’ebraico «עֵדָה‎» (‘edah). Ci si chiederà quale sia la differenza. Ebbene la differenza è che «synagoge» esprime una sorta di passività, ossia una semplice assemblea, un raduno; «ekklēsía» esprime più attività, ossia una convocazione, una assemblea ma sorta per chiamata. In tal caso, poiché il termine «Chiesa» viene dal greco «ekklēsía», il quale traduce l’ebraico «qahal» ed esprime attività della chiamata, la Chiesa è soprattutto la «chiamata di Dio», la «convocazione da parte di Dio» e non un semplice raduno di uomini. In ciò si comprende che il fondamento ultimo della Chiesa è Dio stesso poiché la chiamata è da parte di Dio. Certamente la roccia sulla quale il Cristo edificherà la Chiesa sarà quella di Pietro, ma la Chiesa in quanto tale è opera di Dio – Gesù è pienamente uomo e pienamente Dio, poiché è il Verbo eterno incarnato –, infatti Gesù dice che edificherà la «sua» Chiesa. Ed è per questo che la Chiesa non dipende, in ultima istanza, dagli uomini, ma da Dio stesso. Pietro prenderà in mano il timone, ma di una Chiesa che non è sua, ma di Dio. 

A questo punto vi è lo spunto per quel che riguarda la «santità» della Chiesa, ossia come può dirsi santa se ancora si commette peccato. Ma la risposta è che alla santità occorre non solo che si risponda ma che si corrisponda. A quale santità? A quella a cui siamo stati chiamati col santo Battesimo, il quale rigenera la persona umana nelle profondità della sua natura, intrinsecamente. Pertanto, nonostante il peccato venga commesso – questo è un tema molto importante, ma che non è possibile sviluppare adesso –, la Chiesa può dirsi «santa» in quanto non è l’uomo ad averla convocata, ma Dio. E Dio è santo, o meglio, è il Santo! Per cui il fondamento ultimo è sempre Dio. La Chiesa, nonostante sia chiamata anche a purificarsi nel tempo, tale purificazione è in vista del raggiungimento della santità totale, del compimento della santità. Ma ciò che deve giungere come messaggio, è che la Chiesa non ha origini umane ma divine, dacché è la convocazione di Dio, è la Chiesa di Dio.


Gabriele Cianfrani


PS. Articolo già pubblicato in https://bussolaculturale.it/la-chiesa-convocazione-di-dio-o-semplice-raduno-di-uomini-a-cura-di-gabriele-cianfrani/

giovedì 1 aprile 2021

QUANDO AVRETE INNALZATO IL FIGLIO DELL'UOMO, ALLORA CONOSCERETE CHE IO SONO


 

In questo Triduo pasquale e in questo momento di grande prova per tutti, ancora una volta nella croce di Gesù si trova compendiato tutto. Certamente seguirà la risurrezione, come Gesù stesso annunciò (Cfr. Mt 16,21; 17,22-23; 20,17-19; Mc 8,31; 9,31; 10,32-34; Lc 9,22; 9,43-44; 18,31-33), ma prima della risurrezione vi è la croce.

Ma per quale motivo la croce? Per quale motivo tante sofferenze dovettero precedere la croce? In che modo tutto ciò è servito alla redenzione? Diverse sono le domande che possono essere poste e non vi è da meravigliarsi. Riportare tutto ciò che occorrerebbe riportare vorrebbe dire non finire più, considerando anche le innumerevoli pagine scritte in merito. Ciò che si potrebbe tentare di fare è una «sintesi», nel senso etimologico della parola (dal greco synthesis (σύνθεσις), che significa composizione, unione, mescolanza), che sarà anche riassuntiva.

Eloquente e mirabile ciò che è riportato nella prima lettera di Pietro: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia. Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime (1Pt 2,22-25). Gesù ha preso su di sé i nostri peccati, dunque lo fece volontariamente e di conseguenza liberamente. Ugualmente mirabili sono i quattro canti o carmi del servo del Signore riportati nel libro di Isaia (42,1-4; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12), con riferimento chiaro a ciò che si verificherà per mezzo e in Gesù di Nazareth, il Cristo.

Ora, in Cristo siamo stati redenti, ma la redenzione non è propriamente sinonimo di salvezza. La «salvezza» era presente dall’inizio, per cui l'elevazione dell’uomo affinché raggiungesse il massimo bene era presente dall'inizio. Certamente si concretizza come storia della salvezza da Abramo in poi, ma in ogni caso l’uomo, per raggiungere la sua meta ultima, ha sempre bisogno di Dio, e questo trova pienezza in Cristo che ci salva riconciliandoci con Dio (CCC, 457). La «redenzione» significa il riacquisto, il riscatto dell’uomo che si era venduto schiavo al peccato (Cfr. Gv 8,34), quel peccato che trova origine appunto in Gen 3,1-7: il peccato originale. Escludere la colpa di origine comporta escludere anche l’evento pasquale, dato che la redenzione è in riferimento alla schiavitù del peccato, che parte dalla colpa originaria, dal peccato originale. E con il peccato, per invidia del diavolo, fece ingresso anche quel male che sarà annientato per ultimo: la morte (Cfr. Sap 2,24; 1Cor 15,26;). Ma il riscatto è avvenuto per mezzo di Cristo a prezzo del suo sangue, in quanto il suo sangue è il prezzo del nostro riscatto, essendo egli il vero agnello pasquale senza difetti e senza macchia (Cfr. 1Pt 1,18). L’espiazione, la purificazione dalle colpe viene effettuata per mezzo del sangue perché il sangue, in quanto vita, espia (Cfr. Lv 11,17). Dunque Cristo ci riscatta dalla schiavitù del peccato pagando tale riscatto, con il prezzo del suo sangue, al Padre. Dal primo istante della sua incarnazione il Figlio abbraccia nella sua missione redentrice il disegno divino di salvezza: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34; CCC, 606). E la possibilità di ritornare in grazia di Dio per mezzo del sacramento della Riconciliazione è dovuto al sacrificio espiatorio sulla croce, sacrificio dal quale, in ultimo, provengono anche tutti gli altri sacramenti.

Mai avrebbe potuto un semplice essere umano, per quanto santo potesse essere, riscattare il genere umano dal peccato, se non un essere umano che non fosse solo umano, o meglio, Dio che assumesse natura umana – per natura umana si intende l’essenza umana, ossia il corpo e l’anima – e precisamente la seconda Persona della Santissima Trinità, il Verbo di Dio. Gesù di Nazareth non è il risultato di due persone (eresia nestoriana), ma di due nature, umana e divina, e poiché la natura divina del Verbo coincide con la sua Persona, in Gesù vi è una sola persona, quella eterna del Verbo che assume natura umana in Maria e da Maria, col risultato di essere vero Dio e vero uomo, perfetto Dio e perfetto uomo. L’umanità di Cristo non ha altro soggetto che la Persona divina del Figlio di Dio, che l’ha assunta e fatta sua al momento del suo concepimento. Maria è Madre di Dio non certo perché la natura del Verbo o la sua divinità avesse avuto origine dalla santa Vergine, ma, poiché nacque da lei il santo corpo dotato di anima razionale a cui il Verbo è unito sostanzialmente, si dice che il Verbo è nato secondo la carne (CCC, 466). Il peccato è dell’uomo, non di Dio, ma nessun uomo avrebbe potuto riscattare il genere umano dalla schiavitù del peccato, considerando anche che i progenitori si trovavano nello stato di santità e di giustizia originale, che persero col peccato e che non poterono riacquistare più poiché tale stato in cui si trovavano era dono di Dio. Solo Dio avrebbe potuto riscattare il genere umano, assumendo natura umana in Gesù, vero Dio e vero uomo. Infatti, dopo aver accettato di dargli il Battesimo tra i peccatori, Giovanni Battista ha visto e mostrato in Gesù l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo. Egli manifesta così che Gesù è insieme il Servo sofferente che si lascia condurre in silenzio al macello e porta il peccato delle moltitudini e l’Agnello pasquale simbolo della redenzione di Israele al tempo della prima pasqua. Tutta la vita di Cristo esprime la sua missione: servire e dare la propria vita in riscatto per molti (CCC, 608). Non più la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, anche se tale azione misericordiosa di Dio viene sempre ricordata, ma la liberazione dalla schiavitù del peccato, che è più radicale ed è la liberazione determinante.

Ora, vien da chiedersi se era necessario che Cristo patisse per la liberazione del genere umano. Se si considera ciò che è necessario come se una cosa non può essere altrimenti o come se si trattasse di una necessità di coazione, allora non vi è alcuna necessità dei patimenti di Cristo, dato che l’azione redentrice è stata libera. Invece, se si considera ciò che è necessario in base al fine, come se non fosse possibile raggiungere un certo fine in alcun modo oppure non in modo conveniente, allora è possibile parlare di necessità, ma una necessità che ha come fondamento la libertà di Dio. Infatti, si capisce ciò per tre motivi: considerando la passione di Cristo dal lato nostro possiamo dire che siamo stati redenti; considerando la passione di Cristo dal lato suo possiamo dire che l’umiliazione della passione doveva meritare la gloria dell’esaltazione; considerando la passione di Cristo dal lato di Dio possiamo dire che il decreto della medesima era stato preannunziato dalle Scritture e prefigurato nelle osservanze dell’Antico Testamento. Pertanto, la liberazione dell’uomo per mezzo della passione di Cristo fu conveniente e alla «misericordia» e alla «giustizia» sua. Alla giustizia, perché per mezzo della sua passione Cristo riparò per il peccato del genere umano, e così per la giustizia di Cristo l’uomo è liberato. Alla misericordia, perché, non essendo l’uomo per sé in grado di soddisfare per il peccato di tutta la natura umana, Dio gli concesse quale riparatore suo Figlio. Tale atto di misericordia fu più grande del condono dei peccati senza soddisfazione (Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIIa, q. 46, a. 1). La passione di Cristo, che avvenne per libera e infinita misericordia di Dio, oltre che insieme alla giustizia – in Dio nulla è separabile da Lui, poiché Egli è assolutamente semplice –, fu il modo più conveniente per raggiungere il fine, poiché una cosa è tanto più conveniente quanto più sono i vantaggi che con essa si raggiungono. Infatti, oltre alla liberazione dal peccato, la passione di Cristo ha procurato all’uomo molti vantaggi: per questo l’uomo conosce quanto Dio lo ami e per questo viene indotto ad amarlo; perché Cristo ci ha dato l’esempio di obbedienza, di umiltà, di costanza, di giustizia e di tutte le altre virtù mostrate nella passione, indispensabili per la nostra salvezza, come ricorda la prima lettera di Pietro: anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme (1Pt 2,21); perché in tal modo Cristo non solo ha redento l’uomo dal peccato, ma gli ha meritato anche la grazia giustificante e la gloria della beatitudine ed altri (Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIIa, q. 46, a. 3). Ed è stato molto conveniente che Cristo morisse sulla croce: affinché nessun genere di morte spaventasse l’uomo che vive rettamente, fu necessario mostrarlo con la croce di Cristo: poiché fra tutti i generi di morte nessuno era più esecrabile e terribile; tale morte era il più indicato per soddisfare il peccato dei nostri progenitori, che mangiarono il frutto dell’albero proibito da Dio, per cui tale morte sulla croce restituì quanto Adamo aveva sottratto. Tutto ciò che Adamo perse, Cristo lo recuperò sulla croce (Cfr. Ibid., q. 46, a. 4). Pertanto, il Triduo pasquale culminante con la Pasqua di risurrezione del Signore Gesù, risponde alla domanda circa il perché il Verbo si è fatto uomo (?). Egli si è fatto uomo per la nostra salvezza (CCC, 456); per salvarci riconciliandoci con Dio (CCC, 457); perché noi conoscessimo l’amore di Dio (CCC, 458); per essere nostro modello di santità (CCC, 459); perché diventassimo partecipi della natura divina (2Pt 1,4; CCC, 460), perché l’uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio (Ireneo di Lione, Adversus haereses, 3, 19, 1). Ciò per mezzo del Battesimo.

Inoltre, riprendendo un passaggio precedente, risulta interessante una parte del sermone 18 di S. Tommaso d’Aquino: il genere umano venne ferito dall’albero, poiché il primo uomo mangiò dell’albero proibito; e così la divina Sapienza ricavò dall’albero la medicina. Il genere umano fu ferito dalla disobbedienza: infatti il primo uomo colse avidamente il frutto dell’albero proibito; ed ecco che l’uomo nuovo quasi come frutto salutare restituì se stesso all’albero. Perciò il Salmista (Sal 69[68],5) dice: «Quanto non rapinai, io restituivo». Egli restituì se stesso all’albero per ricompensare il danno e portare il rimedio; perciò Sap 14,7 dice: «È benedetto l’albero per mezzo del quale si compie la giustizia» (Sermone 18, conferenza vespertina).

Dunque l’argomento è estremamente vasto, tanto quanto ciò che tratta, per cui sarebbe infinito.

Questa breve sintesi è una tra le tantissime, ma tutte hanno in comune una cosa: l’attesa della risurrezione di Gesù, che è la verità culminante della nostra fede in Cristo, creduta e vissuta come verità centrale dalla prima comunità cristiana, trasmessa come fondamentale dalla Tradizione, stabilita dai documenti del Nuovo Testamento, predicata come parte essenziale del mistero pasquale insieme con la croce (CCC, 638). Senza la risurrezione tutto sarebbe vano (Cfr. 1Cor 15,14). Nel complesso, la risurrezione di Cristo è principio e sorgente della nostra risurrezione (CCC, 655).

Ed è possibile concludere con le stesse parole della Scrittura: «Ecco, sono compiute! Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine. A colui che ha sete io darò gratuitamente da bere alla fonte dell’acqua della vita. Chi sarà vincitore erediterà questi beni; io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio» (Ap 21,6-7).



Santa Pasqua!


Gabriele Cianfrani 

lunedì 29 marzo 2021

LA LUCE DELL'ATTO PRIMO

marzo 29, 2021 Posted by Gabriele Cianfrani , , , , No comments


È possibile discutere in merito a ciò che non esisterebbe se mancasse il fondamento, escludendo «di proposito» il fondamento? Eppure pare proprio che tante volte si voglia escludere il fondamento. Quale fondamento? Quello dell’atto primo: ciò che fa sì che una cosa sia e che sia tale cosa e non altra. Si tratta della forma sostanziale, la quale è ciò che apporta vita, specifica la cosa e media l’atto d’essere (actus essendi), che fondamenta anche la forma sostanziale. In ultimo, l’atto d’essere è conferito da Colui che è il Suo stesso Essere (Ipsum Esse subsistens), ossia Dio. Dunque l’atto primo gode di una importanza notevole! In merito al discorso circa l’atto primo e la vita in generale, ma soprattutto in merito a quella umana, è possibile cliccare qui.


mercoledì 24 marzo 2021

LA TRAGICA SCELTA: PADRE - MADRE O GENITORE 1 - GENITORE 2?

marzo 24, 2021 Posted by Gabriele Cianfrani , , , , , No comments

 


Pare sia tornata nuovamente in campo la proposta di apporre sul documento d’identità, per i ragazzi e ragazze al di sotto di 14 anni, la dicitura «genitore 1» e «genitore 2». Se spetti al padre o alla madre essere genitore 1 o genitore 2 è una decisione alquanto ardua… Ma se si decidesse per una sorta di equivalenza, tanto vale che resti la dicitura tradizionale, senza porsi aporie circa la «privacy», che potrebbe esser considerata come una aporia camuffata. Proviamo una riflessione.

Nelle Litaniae Lauretanae beatae Mariae Virginis, in merito a Maria «Madre di Dio», troviamo il latino «Sancta Dei génetrix». Ciò gode di una certa importanza, in quanto vuol dire «genitrice», al femminile. Ma a questo punto non sarebbe neanche pensabile il fatto di sostituire la dicitura genitore 1/genitore 2 con genitore/genitrice, per il semplice motivo che chi vuole apportare tale modifica – senza fare nomi, tanto per molti è chiaro – rientra sempre tra coloro che si battono per le «discriminazioni», con lo scopo di ottenere una sorta di egualitarismo assoluto. Pertanto, anche questa volta, pare che il problema della «privacy» rimandi ad una impostazione antropologica ben precisa. E in ciò consiste la contraddizione, dato che si recherebbe più discriminazione di quel che non si pensa!

Genitore e genitrice, di per sé, hanno a che fare con la «generazione», con il generare – da γενναω (genero, produco) –, per cui ci troviamo nella vera «complementarietà». Se mancasse questo punto si rischierebbe di incorrere in quella autonoma forza di affermazione non esente da egoismo.[1] La prima comunione è quella che si instaura e si sviluppa tra i coniugi: in forza del patto d’amore coniugale, l’uomo e la donna «non sono più due, ma una carne sola» (Mt 19,6; cfr. Gen 2,24) e sono chiamati a crescere continuamente nella loro comunione attraverso la fedeltà quotidiana alla promessa matrimoniale del reciproco dono totale. Questa comunione coniugale affonda le sue radici nella naturale complementarietà che esiste tra l’uomo e la donna, e si alimenta mediante la volontà personale degli sposi di condividere l’intero progetto di vita, ciò che hanno e ciò che sono: perciò tale comunione è il frutto e il segno di una esigenza profondamente umana.[2]

Per tal motivo, che poi risulta intrinsecamente umano, difficilmente si può essere indotti a credere che la dicitura genitore 1 e genitore 2 sia richiesta solo per motivi di privacy. Ciò che traspare è il mettere in discussione la complementarietà tra i genitori. Ma tale complementarietà, che possa piacere o meno, la si riscontra già sul piano biologico, su quello sessuale, ma non solo. Interessante il fatto che la parola «sesso», secondo alcune ricerche, abbia a che fare con il greco τίκτω (partorisco, genero) e che «figlio» si dica anche – in tal caso – τέκνον, ma anche in altri modi con sfumature importanti. Ma nonostante l’etimologia esatta sia ancora sotto ricerca, la parola «sesso» deriverebbe anche dal latino secare (dividere). In ogni caso, lasciando ampio spazio per discussioni, pare che si ponga sempre in evidenza la «complementarietà». Dunque non si vede il motivo per cui ciò che rientra nella essenza di una persona umana – nella sua φύσις (natura) – sia problematico per la privacy, in virtù della quale occorre porre rimedio.[3] Se ciò risultasse un problema, allora il discorso interesserebbe la persona umana nella sua interezza, per cui l’attenzione verterebbe sul piano antropologico. Se così fosse il pensiero sarebbe molto più radicale di quello della «privacy». Pertanto, per concludere – non definitivamente, poiché la questione merita di essere ripresa –, pare proprio che questa complementarietà, che si riscontra concretamente nei genitori, per cui nella famiglia, sia uno dei bersagli della nuova dicitura. Il bersaglio principale pare che sia l’identità stessa della persona, con le sue differenze essenziali, all’insegna di una sorta di egualitarismo assoluto. C’è da chiedersi: è possibile realizzare un puzzle eliminando le differenze di ogni pezzo?

 

 Gabriele Cianfrani



[1] Cfr. Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, n. 6.

[2] Ibid., n. 19.

[3] Dal punto di vista metafisico, la differenza sessuale rientra nella categoria degli «accidenti», ma sono «inseparabili». Vi sono accidenti «propri», ossia dai princìpi della specie, per cui dipendono dalla forma (sostanziale): il nitrito del cavallo non è il cavallo, ma promana dalla sua natura, che si fondamenta nella sua forma sostanziale; vi sono accidenti «inseparabili», ossia dai princìpi dell’individuo e hanno causa permanente nell’individuo: un cavallo è tale per la forma, ma è maschio o femmina a causa dell’accidente inseparabile che rientra nei princìpi dell’individuo; poi vi sono accidenti «separabili», con causa esterna. Dunque la sessualità non rientra nella separabilità dall’individuo (Cfr. C. Ferraro, Appunti di metafisica. Un percorso speculativo, pedagogico e tomistico, Lateran University Press, Roma 20182, pp. 331-332). Tali accidenti «inseparabili» hanno la causa permanente nel soggetto – habent causam permanentem in subiecto, et haec sunt accidentia inseparabilia, sicut masculinum et feminum et alia huiusmodi (Tommaso d’Aquino, QD anima, a. 12 ad 7um).

venerdì 5 febbraio 2021

L'UOMO: E' CONCEPITO TALE O CI DIVENTA?



Quando si trattano temi come l’aborto, in se stesso e nelle sue sfaccettature, spesse volte si sfocia nel discorso riguardante l’anima (umana). Al riguardo vi sono ancora alcune posizioni che colgono una sorta di giustificazione all’aborto – l’etimologia di tale termine non riguarda affatto ciò che oggi si esprime, come tanti altri termini - in ciò che il grande San Tommaso d’Aquino avrebbe scritto circa l’animazione umana, argomento da poter esser preso come una sorta di giustificazione. Ma ciò è insostenibile, dato che in nessun passo in merito all’animazione umana si riscontra tale giustificazione. Prima di tutto per ciò che riguarda l’uccisione dell’innocente nel grembo materno (leggere il commento del V comandamento), poi perché si tratta di una lettura sbagliata dei testi dell’Aquinate. Inoltre, leggendo bene i suoi testi, si riscontra che le cose stanno ben diversamente, come già a partire da Summa Theologiae, Ia, q. 76, aa. 3-4. E poi non bisogna dimenticare un passo molto importante di Geremia: «prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni» (Ger 1,5).

 Per approfondire la questione è possibile cliccare qui!