La questione imperitura
circa la «causalità finale» o il «fine casuale» sembra essere davvero tale, dal
momento che ancora oggi si propongono dibattiti al riguardo, i quali risultano
non poco interessanti. Ma bisogna riconoscere che rispetto al passato si
verifica una certa propensione ad accogliere la seconda posizione, ossia il
«fine casuale», nel senso che l’esistenza, non solo umana, non abbia «un fine»
ma semplicemente «una fine».
Non si tratta di giochi
di parole, o meglio, si tratta di considerare le parole per l’importanza che
hanno, soprattutto quando si tratta di argomenti che richiedono una
terminologia ben precisa. L’uso improprio di tante parole o lo scorretto
accostamento di precise parole ha condotto ad una vera e propria confusione
nella comunicazione, non è il caso di nasconderlo. Si richiedono esempi? Nessun
problema: «abbiamo creato un’azienda»; «sono tempi apocalittici»;
«Tizio è più umano di Caio»; «non va bene questa speculazione»;
«non è un confronto equo, è come se si confrontassero Davide e Golia [commiserando
il piccolo Davide, nonostante nel racconto biblico abbia vinto proprio lui]»; «il
semaforo o la chiave intelligente» ecc. Si potrebbe continuare, ma l’anomalia
è evidente.
Tornando alle due
posizioni della questione, ciò che potrebbe permettere di apportare chiarimenti
decisivi, pare essere il discorso sulla «causalità». Tale discorso implica
necessariamente il campo filosofico, in particolar modo quello metafisico,
in quanto l’indagine è soprattutto metafisica, mirante alla risoluzione nelle
cause ultime o prime.
Ora, il rifiuto nei
confronti del discorso metafisico, spesse volte domina indisturbato. Senza fare
nomi, vi sono autori che rigettano del tutto la speculazione metafisica in
favore di quella che definiscono scientifica, sfociando in una vera e propria
riduzione del concetto di «scienza», il quale è molto più ampio
dell’esperimento. Inoltre, il rifiuto si presenta non con argomenti metafisici o,
nel caso della sacra teologia, con argomenti teologici, ma con argomenti
estranei ad entrambe le discipline, distorcendole tremendamente.
Molto brevemente, dal
momento che il subiectum della metafisica (ciò su cui verte la ricerca) è l’ente
in quanto ente (non in quanto è tale, ad esempio un gatto, ma in quanto è
ente), l’indagine riguarda sia i princìpi intrinseci e costitutivi dell’ente
sia i princìpi estrinseci dell’ente. La prima indagine prende il nome di resolutio
secundum rationem (interna all’ente); la seconda prende il nome di resolutio
secundum rem (esterna all’ente). Quando l’indagine resta confinata
all’interno dell’ente si avrà la resolutio secundum rationem, ma dato
che la metafisica parte da ciò che è fondato per arrivare a ciò che è fondante,
ossia dall’effetto alla causa e soprattutto alla causa ultima, a ragione si può
dire che è risolutiva. Pertanto, il punto di partenza è l’ente ma il
punto di arrivo è il fondamento dell’ente.
L’ente si definisce come ciò
che è (id quod est), per cui esercita fortemente l’essere e gode di
consistenza ontologica. Quali sono le caratteristiche dell’ente?
Anzitutto riscontriamo che l’ente gode di determinatezza, ossia non solo
è un soggetto ma un soggetto ben preciso, il cui contenuto è appunto
determinato (il gatto non è solo un animale, ma è gatto; la tigre non è solo un
animale o un felino, ma è tigre). Inoltre, riscontriamo anche il fatto di
essere separato, per cui l’ente non ha bisogno di altro per essere,
poiché gode di autonomia ontologica. E certamente ciò che traspare con forza è la sussistenza. Perciò, l’ente è qualcosa di sussistente,
determinato, separato.
La metafisica può
indagare sulla tigre, sul libro, sull’albero di ulivo ecc., considerando la
tigre, il libro, l’albero di ulivo in quanto enti con le caratteristiche
sopra riportate, non dal punto di vista biologico, biofisico, chimico, botanico
ecc. Da ciò si evince che la ricerca si pone su altri piani e adotta un lessico
diverso. Questo è importante, poiché il termine «accidente» non ha lo stesso
significato in metafisica, in medicina e in musica.
A questo punto si capisce
che l’indagine metafisica non mira alla scomposizione delle cose o di
arricchire la tavola periodica degli elementi, bensì di giungere al fondamento
dell’ente. Poiché l’ente è ciò che è, esprimendo in senso forte
l’essere, la ricerca metafisica non può non guardare all’essere
dell’ente, al suo fondamento, e in ultimo alla «causa» dell’essere dell’ente.
Il discorso in merito
alla «causa», in merito alla «causalità», implica anzitutto la dipendenza
nell’essere o nel modo di essere di ciò che è causato da ciò che è causa. Si
tratta della costituzione dell’ente.
Per quel che riguarda le
divisioni della causa, secondo il modo di esercizio e i generi,
considerando la questione, l’attenzione si sposta sulla divisione secondo i generi.
Tali sono quelli aristotelici, ripresi anche da san Tommaso d’Aquino, e sono generi
supremi di causalità:
1) Causa materiale;
2) Causa formale; 3) Causa efficiente; 4) Causa finale.
Vi sarà modo di tornare
su tutte le cause, ma quella che per il momento richiede attenzione è la causa
finale, ossia ciò in virtù della quale una cosa viene fatta.
Ora, senza andare per le
lunghe e senza scrutare profondamente la causalità finale – lo si farà
in altra sede –, se mancasse il «bene» non vi sarebbe causa finale, ossia non
vi sarebbe azione alcuna che abbia un «fine», dal momento che il fine non può
non avere carattere di «bontà». La causa finale è la causa delle cause,
dacché ciò che si compie deve essere prima nell’intenzione e poi
nell’esecuzione. Certo, ciò suppone la natura intellettiva che possa intendere
il fine, ma anche gli altri enti – che non siano persone umane o angeliche o
Dio stesso – godono di un fine naturalmente, ad esso sono diretti. Vi sono,
infatti, agenti per ragione e agenti per natura. Che la rondine
non si prefigga dei fini intenzionali è chiaro, ma essa è comunque diretta ad
un fine – già i bellissimi nidi di rondine fanno trasparire ciò, oltre alle
meravigliose api e al mondo cellulare –, così come altri enti naturali che non
hanno natura intellettiva. Non vi è un’azione che abbia come fine, naturalmente
o intellettualmente, il male. Certo, l’essere umano è capace di azioni
malvagie, tanto malvagie che a volte non si trovano spiegazioni soddisfacenti,
ma questo chiama in campo altre discipline.
Vi sarebbero altre cose
da aggiungere, ma è comunque possibile considerare il «fine casuale» come
alquanto fragile, poiché se vi fosse la casualità come fondamento non
avremmo possibilità né di agenti per ragione né di agenti per natura, che non
trova riscontro nella realtà.
Ricordo che durante una
lezione del corso di laurea in professioni sanitarie, trattando alcuni aspetti
di anatomia e di fisiologia umana, il professore affermò che il fine degli
esseri umani consiste nella nutrizione e nella riproduzione, per fare in modo
che la specie continui… Mi domando come mai in quel momento egli stesse
insegnando, dal momento che l’insegnamento non rientra tra questi fini.
Non è un caso che spesse
volte si parli di «ecosistema», il quale non è casuale, altrimenti non si
potrebbe parlare di «sistema» nel vero senso della parola. Ma qualora si
propendesse ugualmente non per la causalità ma per la casualità,
questa non potrebbe esser tale se non vi fosse una causa. Ora, osservando
la realtà nella quale siamo immersi, possiamo constatare che vi sono eventi
casuali ed eventi che scaturiscono in seguito ad una causa ben precisa. Non
solo, in quanto anche per l’essere umano è così: apro il libro per leggere un
determinato argomento (intenzionale) e proprio in quel momento si strappa la
pagina (non intenzionale). Lo strappo della pagina è avvenuto per caso,
ossia non rientrava nella mia intenzione (praeter intentionem), ma ciò non sarebbe
avvenuto se fosse mancata la causa finale, ossia la lettura
dell’argomento che mi ha condotto ad aprire il libro, oltre alla causa
efficiente. Questo esempio, quello dello strappo (praeter intentionem),
rimanda ai modi di esercizio della causa.
Insomma, dopo tutte
queste parole, la domanda è la seguente: vi è un fine o la semplice fine?
Le parole sono identiche,
ma il significato è radicalmente diverso.
Semmai vi fosse una
semplice fine, ci troveremmo nella totale contrarietà, dal momento che ogni
essere umano – lo notiamo soprattutto nella società occidentale – si adopera
per il raggiungimento di uno scopo, di un fine che va al di là di quello
puramente fisiologico. Nel caso di altri enti, cioè quelli di natura non
intellettiva, pur non proponendosi un fine sono comunque condotti ad un fine,
vi è una sorta di indirizzamento naturale, che non è casuale! Non si tratta di
riscontrare, nella realtà, eventi che si verificano in maniera ritmicamente
perfetta come se ci trovassimo al Luna Park, ma l’indirizzamento ad un fine di
quegli enti che non si propongono un fine intenzionale e di quegli enti si
propongono un fine intenzionale.
Cosa si vuole esprimere?
Si vuole esprimere che il discorso circa la causalità non è la pura
concatenazione di eventi o non solo questo, ma un discorso che dovrebbe essere
trattato in maniera tale da chiamare in causa altre discipline. In aggiunta,
sono fermamente convinto che i drammi di oggi, siano essi umani, ecologici,
sociali ecc., non potranno essere superati nella triste realtà del rifiuto del
fondamento ultimo, che richiede speculazioni ben precise, scienze ben precise e
che non possono essere rifiutate, pena l’impoverimento dell’uomo stesso.
Concludendo, il «fine casuale» gode di contrarietà
intrinseca, poiché la mancanza di una causa comporta la mancanza del caso
e la mancanza di un effetto verificatosi casualmente. La ricerca sulla causalità
è quanto mai importante, ancor più la ricerca sulla «Causa prima».
Gabriele Cianfrani