Blog di informazioni e riflessioni su quanto concerne temi cristiani

domenica 21 agosto 2022

PROFESSIONE DI FEDE: IL CREDERE DI UNO, IL CREDERE DI MOLTI


 

Nel nostro linguaggio vi sono alcune parole che inevitabilmente godono di importanza maggiore rispetto ad altre. Vi sono parole che rimandano alla propria identità, parole che esprimono ciò che noi siamo e ciò a cui tendiamo. Tra queste ve ne sono alcune molto precise, che esprimono pienamente l’identità cristiana (cattolica), ossia le parole del «Credo», del «Simbolo degli Apostoli» o del «Simbolo Niceno-Costantinopolitano». Nel contesto liturgico si tratta di quel momento, importantissimo, che è la «professione di fede».

Cerchiamo di riportare, in modo generale, la struttura della Messa (le singole parti), chiamata anche Celebrazione Eucaristica e in altri modi. Lo si farà seguendo l’Ordinamento Generale del Messale Romano (OGMR), che si può trovare facilmente sul sito www.vatican.va.

 

A) Riti di introduzione

            - L’introito

            - Saluto all’altare e al popolo radunato

            - Atto penitenziale

            - Kyrie eleison

            - Gloria

            - Colletta

 

B) Liturgia della Parola

            - Il silenzio

            - Le letture bibliche

            - Il salmo responsoriale

            - L’acclamazione prima della lettura del Vangelo

            - L’omelia

            - La professione di fede

            - La preghiera universale

 

C) Liturgia eucaristica

            - La preparazione dei doni

            - L’orazione sulle offerte

            - La Preghiera eucaristica

            - Riti di Comunione

            - Preghiera del Signore

            - Rito della pace

            - Frazione del pane

            - Comunione

 

D) Riti di conclusione

 

È chiaro che ogni momento liturgico richiederebbe di essere trattato, per cui si rimanda direttamente all’OGMR, il quale è davvero uno strumento da utilizzare per la guida e per l’approfondimento liturgico.

Ciò che in questa sede interessa è la «professione di fede». Vediamo come si esprime l’OGMR:

 

67. Il simbolo, o professione di fede, ha come fine che tutto il popolo riunito risponda alla parola di Dio, proclamata nella lettura della sacra Scrittura e spiegata nell’omelia; e perché, recitando la regola della fede, con una formula approvata per l’uso liturgico, torni a meditare e professi i grandi misteri della fede, prima della loro celebrazione nell’Eucaristia.

68. Il simbolo deve essere cantato o recitato dal sacerdote insieme con il popolo nelle domeniche e nelle solennità; si può dire anche in particolari celebrazioni più solenni.

Circa il «simbolo» in sé si rimanda all’articolo scritto in merito (qui).

L’attenzione si sposta sul fatto che la professione di fede ha come fine che tutto il popolo riunito risponda alla parola di Dio, proclamata nella lettura della sacra Scrittura e sul fatto che il popolo stesso professi i grandi misteri della fede. Non solo, dal momento che ciò deve essere fatto prima della loro celebrazione nell’Eucaristia.

Ovviamente, poiché nell’Eucaristia tutto si compendia, dato che l’Eucaristia è fonte e apice di tutta la vita cristiana (Conc. Vat. II, Lumen gentium, n. 11), per cui non è possibile dirigersi «intenzionalmente» verso ciò che non si conosce; e se non vi è conoscenza non può esservi neanche l’adesione, il credere, la professione di fede. Pertanto, occorre che la professione di fede sia fatta prima della celebrazione nell’Eucaristia.

Non è il caso di sollevare polemiche, ma fin troppo spesso si assiste ad un atteggiamento a dir poco dissacrante nei confronti dell’Eucaristia, senza contare la quasi totale trascuratezza nei confronti dei sacramenti in generale.

Ora, giunto il momento della professione di fede, ognuno la esprime singolarmente. Ma ciò resta confinato in questa singolarità? Viene in mente un passo del libro dell’Esodo:

 

Al terzo mese dall'uscita degli Israeliti dalla terra d'Egitto, nello stesso giorno, essi arrivarono al deserto del Sinai. Levate le tende da Refidìm, giunsero al deserto del Sinai, dove si accamparono; Israele si accampò davanti al monte. Mosè salì verso Dio, e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: "Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: "Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all'Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatto venire fino a me. Ora, se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa". Queste parole dirai agli Israeliti". Mosè andò, convocò gli anziani del popolo e riferì loro tutte queste parole, come gli aveva ordinato il Signore. Tutto il popolo rispose insieme e disse: "Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!". Mosè tornò dal Signore e riferì le parole del popolo. Il Signore disse a Mosè: "Ecco, io sto per venire verso di te in una densa nube, perché il popolo senta quando io parlerò con te e credano per sempre anche a te" (Es 19,1-9).

 

Precisando che questo passo biblico presenta elementi tali da non poterli nemmeno accennare, a causa della loro vastità, oltre a rintracciare passi biblici accostabili, è comunque possibile prenderne alcuni. Non a caso li ritroviamo nella prima lettera di Pietro e nel libro dell’Apocalisse:

 

Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa. Un tempo voi eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio; un tempo eravate esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia (1Pt 2,9-10);

 

"Tu sei degno di prendere il libro
e di aprirne i sigilli,
perché sei stato immolato
e hai riscattato per Dio, con il tuo sangue,
uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione,
e hai fatto di loro, per il nostro Dio,
un regno e sacerdoti,
e regneranno sopra la terra" (Ap 5,9-10).

 

Tralasciando altri passi biblici e ricerche particolari (es. se il sacerdozio stesso sia regale o se il sacerdozio risulti accanto al regno, o se il regno sia costituito da sacerdoti, in questo caso il riferimento sarebbe soprattutto al sacerdozio battesimale), emerge il contesto «ecclesiale», per cui risalta il famoso passo del Vangelo secondo Matteo:

 

E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa [καὶ ἐπὶ ταύτῃ τῇ πέτρᾳ οἰκοδομήσω μου τὴν ἐκκλησίαν – et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam] e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa (Mt 16,18).

 

Ed ecco che Pietro non può essere considerato scisso dalla ἐκκλησία (ekklēsía), ossia dalla Chiesa e viceversa. Così come Mosè non può essere considerato scisso dal popolo d’Israele e viceversa, dal momento che l’evento del Sinai è fondante, in quanto al capitolo successivo (c. 20) Dio pronuncia le sue parole (nel contesto dell’Alleanza) e Mosè parla al popolo comunicando le parole (דְּבָרִים) di Dio (Cfr. Es 20,18-21). Ma il fondamento ultimo non è né Mosè né Pietro, bensì Dio, e il Verbo è consostanziale al Padre ed è da prima che Abramo fosse (Cfr. Gv 8,58). Colui che fonda la Chiesa è Dio stesso, poiché è «sua»!

Dacché la parola ἐκκλησία (ekklēsía) viene adoperata per tradurre quella ebraica קהל (qahal), la parola Chiesa vuol dire «chiamata di Dio», «convocazione da parte di Dio». Non è l’uomo che prende l’iniziativa, ma Dio.

Ora, precisando che la parola «liturgia» deriva da λέιτον (leiton) έργον (ergon), che significa «opera pubblica» (dal latino publicum opus), il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) riporta quanto segue:

 

«Io credo»: è la fede della Chiesa professata personalmente da ogni credente, soprattutto al momento del Battesimo. «Noi crediamo»: è la fede della Chiesa confessata dai Vescovi riuniti in Concilio, o, più generalmente, dall’assemblea liturgica dei credenti. «Io credo»: è anche la Chiesa, nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire: «Io credo», «Noi crediamo» (CCC, n. 167).

 

 

Pertanto, quell’«io credo» è sempre inserito nel «noi crediamo», per il semplice fatto che quell’«io» rientra nel «noi» che è il popolo di Dio che Dio stesso ha convocato e che si chiama «Chiesa». La professione di fede riguarda il singolo inserito nella comunità dei credenti, nel popolo di Dio, in quella proprietà particolare che si chiama «Chiesa».

 

Per questo motivo la vera e sola identità del cristiano (cattolico) risiede nella professione di fede, la quale non può non essere oggetto di meditazione e riflessione. Sarebbe davvero urgente richiamare l’attenzione sulle parole della professione di fede, sulle parole del Credo (Apostolico e/o Niceno-Costantinopolitano). Al riguardo, si cercherà di scrivere altri articoli sul Credo, attingendo dal bellissimo commento di san Tommaso d’Aquino al medesimo, oltre all’atto di fede e alla sua ragionevolezza. 



Gabriele Cianfrani 

 


martedì 16 agosto 2022

CAUSALITA' FINALE O FINE CASUALE? UNA QUESTIONE IMPERITURA

 



La questione imperitura circa la «causalità finale» o il «fine casuale» sembra essere davvero tale, dal momento che ancora oggi si propongono dibattiti al riguardo, i quali risultano non poco interessanti. Ma bisogna riconoscere che rispetto al passato si verifica una certa propensione ad accogliere la seconda posizione, ossia il «fine casuale», nel senso che l’esistenza, non solo umana, non abbia «un fine» ma semplicemente «una fine».

Non si tratta di giochi di parole, o meglio, si tratta di considerare le parole per l’importanza che hanno, soprattutto quando si tratta di argomenti che richiedono una terminologia ben precisa. L’uso improprio di tante parole o lo scorretto accostamento di precise parole ha condotto ad una vera e propria confusione nella comunicazione, non è il caso di nasconderlo. Si richiedono esempi? Nessun problema: «abbiamo creato un’azienda»; «sono tempi apocalittici»; «Tizio è più umano di Caio»; «non va bene questa speculazione»; «non è un confronto equo, è come se si confrontassero Davide e Golia [commiserando il piccolo Davide, nonostante nel racconto biblico abbia vinto proprio lui]»; «il semaforo o la chiave intelligente» ecc. Si potrebbe continuare, ma l’anomalia è evidente.

Tornando alle due posizioni della questione, ciò che potrebbe permettere di apportare chiarimenti decisivi, pare essere il discorso sulla «causalità». Tale discorso implica necessariamente il campo filosofico, in particolar modo quello metafisico, in quanto l’indagine è soprattutto metafisica, mirante alla risoluzione nelle cause ultime o prime.

Ora, il rifiuto nei confronti del discorso metafisico, spesse volte domina indisturbato. Senza fare nomi, vi sono autori che rigettano del tutto la speculazione metafisica in favore di quella che definiscono scientifica, sfociando in una vera e propria riduzione del concetto di «scienza», il quale è molto più ampio dell’esperimento. Inoltre, il rifiuto si presenta non con argomenti metafisici o, nel caso della sacra teologia, con argomenti teologici, ma con argomenti estranei ad entrambe le discipline, distorcendole tremendamente.

Molto brevemente, dal momento che il subiectum della metafisica (ciò su cui verte la ricerca) è l’ente in quanto ente (non in quanto è tale, ad esempio un gatto, ma in quanto è ente), l’indagine riguarda sia i princìpi intrinseci e costitutivi dell’ente sia i princìpi estrinseci dell’ente. La prima indagine prende il nome di resolutio secundum rationem (interna all’ente); la seconda prende il nome di resolutio secundum rem (esterna all’ente). Quando l’indagine resta confinata all’interno dell’ente si avrà la resolutio secundum rationem, ma dato che la metafisica parte da ciò che è fondato per arrivare a ciò che è fondante, ossia dall’effetto alla causa e soprattutto alla causa ultima, a ragione si può dire che è risolutiva. Pertanto, il punto di partenza è l’ente ma il punto di arrivo è il fondamento dell’ente.

L’ente si definisce come ciò che è (id quod est), per cui esercita fortemente l’essere e gode di consistenza ontologica. Quali sono le caratteristiche dell’ente? Anzitutto riscontriamo che l’ente gode di determinatezza, ossia non solo è un soggetto ma un soggetto ben preciso, il cui contenuto è appunto determinato (il gatto non è solo un animale, ma è gatto; la tigre non è solo un animale o un felino, ma è tigre). Inoltre, riscontriamo anche il fatto di essere separato, per cui l’ente non ha bisogno di altro per essere, poiché gode di autonomia ontologica. E certamente ciò che traspare con forza è  la sussistenza. Perciò, l’ente è qualcosa di sussistente, determinato, separato.

La metafisica può indagare sulla tigre, sul libro, sull’albero di ulivo ecc., considerando la tigre, il libro, l’albero di ulivo in quanto enti con le caratteristiche sopra riportate, non dal punto di vista biologico, biofisico, chimico, botanico ecc. Da ciò si evince che la ricerca si pone su altri piani e adotta un lessico diverso. Questo è importante, poiché il termine «accidente» non ha lo stesso significato in metafisica, in medicina e in musica.

A questo punto si capisce che l’indagine metafisica non mira alla scomposizione delle cose o di arricchire la tavola periodica degli elementi, bensì di giungere al fondamento dell’ente. Poiché l’ente è ciò che è, esprimendo in senso forte l’essere, la ricerca metafisica non può non guardare all’essere dell’ente, al suo fondamento, e in ultimo alla «causa» dell’essere dell’ente.

Il discorso in merito alla «causa», in merito alla «causalità», implica anzitutto la dipendenza nell’essere o nel modo di essere di ciò che è causato da ciò che è causa. Si tratta della costituzione dell’ente.

Per quel che riguarda le divisioni della causa, secondo il modo di esercizio e i generi, considerando la questione, l’attenzione si sposta sulla divisione secondo i generi. Tali sono quelli aristotelici, ripresi anche da san Tommaso d’Aquino, e sono generi supremi di causalità:

1) Causa materiale; 2) Causa formale; 3) Causa efficiente; 4) Causa finale.

Vi sarà modo di tornare su tutte le cause, ma quella che per il momento richiede attenzione è la causa finale, ossia ciò in virtù della quale una cosa viene fatta.

Ora, senza andare per le lunghe e senza scrutare profondamente la causalità finale – lo si farà in altra sede –, se mancasse il «bene» non vi sarebbe causa finale, ossia non vi sarebbe azione alcuna che abbia un «fine», dal momento che il fine non può non avere carattere di «bontà». La causa finale è la causa delle cause, dacché ciò che si compie deve essere prima nell’intenzione e poi nell’esecuzione. Certo, ciò suppone la natura intellettiva che possa intendere il fine, ma anche gli altri enti – che non siano persone umane o angeliche o Dio stesso – godono di un fine naturalmente, ad esso sono diretti. Vi sono, infatti, agenti per ragione e agenti per natura. Che la rondine non si prefigga dei fini intenzionali è chiaro, ma essa è comunque diretta ad un fine – già i bellissimi nidi di rondine fanno trasparire ciò, oltre alle meravigliose api e al mondo cellulare –, così come altri enti naturali che non hanno natura intellettiva. Non vi è un’azione che abbia come fine, naturalmente o intellettualmente, il male. Certo, l’essere umano è capace di azioni malvagie, tanto malvagie che a volte non si trovano spiegazioni soddisfacenti, ma questo chiama in campo altre discipline.

Vi sarebbero altre cose da aggiungere, ma è comunque possibile considerare il «fine casuale» come alquanto fragile, poiché se vi fosse la casualità come fondamento non avremmo possibilità né di agenti per ragione né di agenti per natura, che non trova riscontro nella realtà.

Ricordo che durante una lezione del corso di laurea in professioni sanitarie, trattando alcuni aspetti di anatomia e di fisiologia umana, il professore affermò che il fine degli esseri umani consiste nella nutrizione e nella riproduzione, per fare in modo che la specie continui… Mi domando come mai in quel momento egli stesse insegnando, dal momento che l’insegnamento non rientra tra questi fini.

Non è un caso che spesse volte si parli di «ecosistema», il quale non è casuale, altrimenti non si potrebbe parlare di «sistema» nel vero senso della parola. Ma qualora si propendesse ugualmente non per la causalità ma per la casualità, questa non potrebbe esser tale se non vi fosse una causa. Ora, osservando la realtà nella quale siamo immersi, possiamo constatare che vi sono eventi casuali ed eventi che scaturiscono in seguito ad una causa ben precisa. Non solo, in quanto anche per l’essere umano è così: apro il libro per leggere un determinato argomento (intenzionale) e proprio in quel momento si strappa la pagina (non intenzionale). Lo strappo della pagina è avvenuto per caso, ossia non rientrava nella mia intenzione (praeter intentionem), ma ciò non sarebbe avvenuto se fosse mancata la causa finale, ossia la lettura dell’argomento che mi ha condotto ad aprire il libro, oltre alla causa efficiente. Questo esempio, quello dello strappo (praeter intentionem), rimanda ai modi di esercizio della causa.

Insomma, dopo tutte queste parole, la domanda è la seguente: vi è un fine o la semplice fine?

Le parole sono identiche, ma il significato è radicalmente diverso.

Semmai vi fosse una semplice fine, ci troveremmo nella totale contrarietà, dal momento che ogni essere umano – lo notiamo soprattutto nella società occidentale – si adopera per il raggiungimento di uno scopo, di un fine che va al di là di quello puramente fisiologico. Nel caso di altri enti, cioè quelli di natura non intellettiva, pur non proponendosi un fine sono comunque condotti ad un fine, vi è una sorta di indirizzamento naturale, che non è casuale! Non si tratta di riscontrare, nella realtà, eventi che si verificano in maniera ritmicamente perfetta come se ci trovassimo al Luna Park, ma l’indirizzamento ad un fine di quegli enti che non si propongono un fine intenzionale e di quegli enti si propongono un fine intenzionale.

Cosa si vuole esprimere? Si vuole esprimere che il discorso circa la causalità non è la pura concatenazione di eventi o non solo questo, ma un discorso che dovrebbe essere trattato in maniera tale da chiamare in causa altre discipline. In aggiunta, sono fermamente convinto che i drammi di oggi, siano essi umani, ecologici, sociali ecc., non potranno essere superati nella triste realtà del rifiuto del fondamento ultimo, che richiede speculazioni ben precise, scienze ben precise e che non possono essere rifiutate, pena l’impoverimento dell’uomo stesso.

Concludendo, il «fine casuale» gode di contrarietà intrinseca, poiché la mancanza di una causa comporta la mancanza del caso e la mancanza di un effetto verificatosi casualmente. La ricerca sulla causalità è quanto mai importante, ancor più la ricerca sulla «Causa prima».


Gabriele Cianfrani 

mercoledì 29 giugno 2022

29 GIUGNO - SOLENNITA' DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

 



In questo giorno in cui si celebra la solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, due figure estremamente determinanti per la Chiesa, occorre riportare alcuni brani biblici che certamente esprimono tale grandezza.

 

«Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen» (2Tm 4,6-8.17-18).

 

Il brano è tratto dalla seconda lettera a Timoteo, la quale è definita da alcuni studiosi come deuterocanonica o discussa. Sebbene le lettere di san Paolo, ossia il «corpus paulinum», si trovi già nel «Canone Muratori/muratoriano» (sec. II d.C.), vi sono alcune lettere sulle quali sono condotti studi accurati per valutare una sorta di canonicità discussa e/o indiscussa. Dal momento che il canone biblico definitivo è stato stabilito nel Concilio di Trento (1545-1563), e tale canone è appunto normativo per il fedele, la ricerca biblica non può non continuare. Da ricordare il fatto che è la Tradizione divino apostolica ad illuminare sulla canonicità dei testi sacri, non una decisione arbitraria. Cos’è la Tradizione apostolica? Lo dice chiaramente la costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione, ossia la Dei Verbum:

«Cristo Signore […] ordinò agli Apostoli che l’Evangelo, prima promesso per mezzo dei Profeti e da Lui adempiuto e promulgato di persona, come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale lo predicassero a tutti, comunicando i doni divini. Ciò venne fedelmente eseguito, tanto dagli Apostoli, i quali nella predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalle labbra, dalla frequentazione e dalle opere di Cristo, sia ciò che avevano imparato per suggerimento dello Spirito Santo, quanto da quegli Apostoli e da uomini della loro cerchia, i quali, per ispirazione dello Spirito Santo, misero in scritto l’annunzio della salvezza. Gli Apostoli poi, affinché l’Evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono come loro successori i Vescovi, ad essi “affidando il loro proprio posto di maestri”. […] Pertanto, la predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva esser conservata con successione continua fino alla fine dei tempi» (nn. 7-8).

 

Ciò è estremamente importante, soprattutto perché questa «trasmissione» è anche liturgica, come attesta lo stesso san Paolo nel racconto dell’istituzione dell’Eucaristia: «Io ho ricevuto dal Signore quello che vi ho trasmesso: che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito […]» (1Cor 11,23).

 

Tornando alla seconda lettera a Timoteo – le due lettere a Timoteo e quella a Tito sono chiamate «lettere pastorali» –, si ritiene che risalga verso la fine dei giorni terreni dell’Apostolo, ossia durante la prigionia romana tra il 61 e il 63 d.C. San Paolo dice esplicitamente che ha conservato la fede (τὴν πίστιν τετήρηκα). Di quale fede sta parlando? Certamente si tratta di una fede non naturale, ma soprannaturale, quella chiameremmo «virtù teologale». Si tratta di fermezza nel credere, di uno stato di adesione (πίστις, che rimanda all’ebraico אמן), che in tal caso non è possibile senza l’aiuto di Dio. Ciò mostra che la fede deve essere vissuta, o meglio, vivere ciò che si crede mediante la fede, per cui occorre esercitarla e conservarla intatta. Ma ecco il passo importante, ossia il fatto che il Signore gli è stato vicino e gli ha dato forza. Sì, perché credere soprannaturalmente e combattere per ciò che si crede in tal modo, non risiede nelle sole forze umane, ma nell’aiuto divino. Questo esige una risposta, una collaborazione umana, dal momento che la «fede» in quanto tale consta dell’aspetto divino e dell’aspetto umano. Pertanto, non è possibile continuare con le solite espressioni, come del tipo: «beato te che credi; beato te che hai la fede…». Cioè?

Circa la fede intesa anche biblicamente si può cliccare qui.

Ci sarebbe tanto altro da scrivere, bisogna fare il collegamento con un altro brano biblico, che vede come protagonista san Pietro:

 

«Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarèa di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?” Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Voi chi dite che io sia?”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,13-19).

 

Tale brano è fondamentale dal punto di vista ecclesiastico e ci sarebbero tantissime cose da scrivere al riguardo, cosa che sarà fatta doverosamente in altra sede, ma per il momento occorre sottolineare il tratto di continuità col brano precedente. In tal caso, alla domanda che Gesù rivolge a tutti i discepoli, solo san Pietro risponde, e lo fa correttamente. La riposta di san Pietro non deriva dalle forze umane, ma da quella divina che lo ha portato ad affermare che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Riconoscere Gesù come il Cristo, ossia come il Messia, aveva una portata immensa per quel tempo. La parola greca Χριστὸς traduce l’ebraico משיח, che vuol dire «unto», ma che in questo caso sta ad indicare «l’Unto» del Signore per eccellenza. Dal momento che san Pietro ha riconosciuto Gesù come l’Unto per eccellenza, lo ha riconosciuto come il Messia. Non solo, in quanto ciò non lo ha fatto da sé, ma in seguito alla rivelazione del Padre che sta nei cieli. Poiché la «fede» opera sulla potenza intellettiva, così da poter condurre l’intelletto umano a conoscere e a credere ciò che lo supera, la rivelazione del Padre ha permesso a san Pietro di conoscere soprannaturalmente, in modo tale da riconoscere in Gesù il Messia, il Cristo, l’Unto di Dio. Ciò che è importante, e san Pietro lo testimonia, è che la fede soprannaturale derivante dalla grazia suppone la natura umana, non si sostituisce ad essa né l’annulla.

Pure in questo caso traspare il doppio aspetto della «fede»: divino e umano (et-et), così come precisamente riporta il Catechismo della Chiesa Cattolica:

Quando san Pietro confessa che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente, Gesù gli dice: «Né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (Mt 16,17). La fede è un dono di Dio, una virtù soprannaturale da lui infusa. «Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre, e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muove il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia “a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità”» (n. 153). È impossibile credere senza la grazia e gli aiuti interiori dello Spirito Santo. Non è però meno vero che credere è un atto autenticamente umano. Non è contrario né alla libertà né all’intelligenza dell’uomo far credito a Dio e aderire alle verità da lui rivelate. Anche nelle relazioni umane non è contrario alla nostra dignità credere a ciò che altre persone ci dicono di sé e delle loro intenzioni, e far credito alle loro promesse […]. Nella fede, l’intelligenza e la volontà umane cooperano con la grazia divina (nn. 154-155).

 

Tutto ciò è enormemente espresso nei santi Apostoli Pietro e Paolo, vere e proprie colonne portanti della Chiesa di Dio.



Gabriele Cianfrani 

domenica 29 maggio 2022

ASCENSIONE DEL SIGNORE

 


«Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto».
Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio (Lc 24,46-53).

 

Questo passo del Vangelo secondo Luca riporta chiaramente che il Cristo sarebbe andato incontro alla sua passione, morte e resurrezione, dal momento che il motivo principale dell’incarnazione del Verbo è stata la redenzione («Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo», dal Credo niceno-costantinopolitano). In tal caso i frutti della redenzione vanno oltre il «riacquisto», il «riscatto» dalla schiavitù del peccato («propter nostram salutem»). Circa i «quaranta» giorni trascorsi dall’evento pasquale all’ascensione, si rimanda ad un articolo precedente (qui).

 

Cosa vuol dire «ascendere»? A questa domanda risponde direttamente l’Apostolo delle Genti:

Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose.

Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all'uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo. Così non saremo più fanciulli in balìa delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ingannati dagli uomini con quella astuzia che trascina all'errore. Al contrario, agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo. Da lui tutto il corpo, ben compaginato e connesso, con la collaborazione di ogni giuntura, secondo l'energia propria di ogni membro, cresce in modo da edificare se stesso nella carità (Ef 4,9-16).

 

È chiaro che l’ascensione del Cristo sia legata al fatto che Egli sia prima disceso (l’incarnazione del Verbo), altrimenti non si potrebbe parlare propriamente di «ascensione». Inoltre, traspare che l’ascensione rientra nel progetto salvifico:

«[…] Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10,17-18).

 

Due osservazioni:

1. il passo del Vangelo secondo Luca riportato sopra è la conclusione del medesimo, in cui si legge che gli Undici e gli altri che erano con loro (Lc 24,33), dopo che Gesù spiegò quanto riportato nella Scrittura e dopo la sua ascensione, tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio (Lc 24,52). Emerge l’importanza della dimensione ecclesiale, l’importanza della Chiesa, come riportato anche dall’Apostolo in riferimento al corpo di Cristo (Cfr. 1Cor 12,12-31; Ef 4,9-16). A ragione Papa Benedetto XVI afferma che il rapporto tra Cristo, Parola del Padre, e la Chiesa non può essere compreso nei termini di un evento semplicemente passato, ma si tratta di una relazione vitale in cui ciascun fedele è chiamato ad entrare personalmente (Benedetto XVI, Verbum Domini, n. 51). Non solo, poiché vi è l’importanza anche dell’aspetto liturgico: considerando la Chiesa come «casa della Parola», si deve innanzitutto porre attenzione alla sacra liturgia. È questo infatti l’ambito privilegiato in cui Dio parla a noi nel presente della nostra vita, parla oggi al suo popolo, che ascolta e risponde. Ogni azione liturgica è per sua natura intrisa di sacra Scrittura (Ibid., n. 52). Proprio con quella gioia degli Undici e degli altri che erano con loro si dovrebbe predicare il Vangelo, ma quella vera, che non esclude difficoltà e sofferenze. Non a caso Papa Francesco, riprendendo un passo di Papa Benedetto XVI, afferma quanto sia importante l’«attrazione» della Chiesa e non il proselitismo (Cfr. Francesco, Evangelii gaudium, n. 14);

2. l’incarnazione del Verbo è stato un evento irreversibile, per cui la natura umana assunta dal Verbo resterà sempre «assunta». Questo vuol dire che il Cristo è asceso anche con la natura umana definitivamente assunta mediante l’unione ipostatica (unione secondo la Persona del Verbo), che comporta un vero innalzamento della stessa. Per questo il «propter nostram salutem» ha valore di totalità, poiché non riguarda solo un aspetto della nostra salute, della nostra salvezza, ma tutta la salvezza. Non a caso con l’incarnazione il Verbo ha assunto tutta la natura umana, Egli è vero Dio e vero uomo, non solo una parte della natura umana, ma tutta, nella sua integrità.

 

Ecco alcune parole del Doctor Angelicus (san Tommaso d’Aquino), riportate nel suo Compendio di teologia:

E con ciò si deve intendere che Egli discese dal cielo assumendo la natura terrena in modo da rimanere sempre nel cielo. E da ciò si può anche concludere che solo Cristo ascese al cielo per virtù propria. Infatti quel luogo era dovuto a colui che era disceso dal cielo a motivo della sua origine; gli altri invece non possono salire al cielo con le proprie forze, ma per la potenza di Cristo, una volta divenuti sue membra. E come ascendere al cielo conviene al Figlio di Dio secondo la natura umana, così si aggiunge un’altra cosa che conviene a lui secondo la natura divina, e cioè il sedersi alla destra del Padre. […] Si deve intendere che il Figlio si siede accanto al Padre non come inferiore a lui, ma come colui che è del tutto uguale a lui secondo la natura divina (Tommaso d’Aquino, Compendio di teologia, I, c. 240).

 


Gabriele Cianfrani 


venerdì 15 aprile 2022

AGNUS DEI QUI TOLLIS PECCATA MUNDI


 

Il titolo «Agnus Dei qui tollis peccata mundi» rimanda a quella seconda parte della liturgia, ossia alla «Liturgia Eucaristica», preceduta dalla «Liturgia della Parola». In particolar modo ci troviamo in quel momento solenne della «fractio panis» (= frazione del pane), durante il quale si pronunciano le seguenti parole: «Agnus Dei qui tollis peccata mundi» (= Agnello di Dio che togli i peccati del mondo). È un momento estremamente importante, che merita riflessione, durante il quale si presenta il Cristo come l’«Agnello di Dio». Certamente si capisce che in tal caso il Cristo stesso viene presentato come il vero agnello sacrificale, a differenza degli agnelli che venivano sacrificati nell’Antico Testamento. Al riguardo, ci sono dei particolari riscontrabili nei Vangeli che sono davvero sorprendenti, soprattutto confrontando i Vangeli sinottici (Matteo, Marco, Luca) con il Vangelo secondo Giovanni. Vediamo brevemente cosa emerge da alcuni estratti dei rispettivi racconti in merito al giorno dell’ultima cena e della crocifissione di Gesù.

 

Dal Vangelo secondo Marco:

- Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?» (14,12).

- Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici. Ora, mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà» (14,17-18).

- Venuta ormai la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d'Arimatea, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anch'egli il regno di Dio, con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù (15,42-43).

 

Dal Vangelo secondo Matteo:

- Terminati tutti questi discorsi, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi sapete che fra due giorni è la Pasqua e il Figlio dell'uomo sarà consegnato per essere crocifisso». Allora i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo si riunirono nel palazzo del sommo sacerdote, che si chiamava Caifa, e tennero consiglio per catturare Gesù con un inganno e farlo morire. Dicevano però: «Non durante la festa, perché non avvenga una rivolta fra il popolo» (26,1-5).

- Il primo giorno degli Azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Ed egli rispose: «Andate in città da un tale e ditegli: «Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli»». I discepoli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua (26, 17-19).

- Il giorno seguente, quello dopo la Parasceve, si riunirono presso Pilato i capi dei sacerdoti e i farisei, dicendo: «Signore, ci siamo ricordati che quell'impostore, mentre era vivo, disse: «Dopo tre giorni risorgerò». Ordina dunque che la tomba venga vigilata fino al terzo giorno, perché non arrivino i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: «È risorto dai morti» (27,62-64).

 

Dal Vangelo secondo Luca:

- Venne il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la Pasqua. Gesù mandò Pietro e Giovanni dicendo: «Andate a preparare per noi, perché possiamo mangiare la Pasqua» (22,7-8).

- Ed ecco, vi era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, buono e giusto. Egli non aveva aderito alla decisione e all'operato degli altri. Era di Arimatea, una città della Giudea, e aspettava il regno di Dio. Egli si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo depose dalla croce, lo avvolse con un lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia, nel quale nessuno era stato ancora sepolto. Era il giorno della Parasceve e già splendevano le luci del sabato (23,50-54).

 

Questi passi sono stati estratti dai Vangeli sinottici. Nonostante nella Bibbia si trovi come primo Vangelo quello secondo Matteo, secondo gli ultimi studi sulla redazione degli stessi, risulta che quello secondo Marco sarebbe più antico. Non è il caso di entrare nel campo delle varie teorie o proposte di redazione dei Vangeli, ma pare che sull’antichità di Marco concordino la maggior parte degli studiosi.

Cosa si può dedurre dai brani scelti? Non è ancora possibile esprimersi più di tanto, in quanto occorre richiamare il contenuto del libro dell’Esodo e del libro dei Numeri.

 

Dal libro dell’Esodo:

- Il Signore disse a Mosè e ad Aronne in terra d'Egitto: «Questo mese sarà per voi l'inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell'anno. Parlate a tutta la comunità d'Israele e dite: «Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. Se la famiglia fosse troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, il più prossimo alla sua casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l'agnello secondo quanto ciascuno può mangiarne. Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell'anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo conserverete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l'assemblea della comunità d'Israele lo immolerà al tramonto. Preso un po' del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull'architrave delle case nelle quali lo mangeranno. In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare […]» (12,1-8).

- «Osservate la festa degli Azzimi, perché proprio in questo giorno io ho fatto uscire le vostre schiere dalla terra d'Egitto; osserverete tale giorno di generazione in generazione come rito perenne. Nel primo mese, dal giorno quattordici del mese, alla sera, voi mangerete azzimi fino al giorno ventuno del mese, alla sera […]» (12,17-18).

- «Osserverai la festa degli Azzimi. Per sette giorni mangerai pane azzimo, come ti ho comandato, nel tempo stabilito del mese di Abìb: perché nel mese di Abìb sei uscito dall'Egitto […]» (34,18).

 

Dal libro dei Numeri:

- Il Signore parlò a Mosè nel deserto del Sinai, il secondo anno dalla loro uscita dalla terra d'Egitto, nel primo mese, e disse: «Gli Israeliti celebreranno la Pasqua nel tempo stabilito. La celebrerete nel tempo stabilito, il giorno quattordici di questo mese tra le due sere; la celebrerete secondo tutte le leggi e secondo tutte le prescrizioni». Mosè parlò agli Israeliti perché celebrassero la Pasqua. Essi celebrarono la Pasqua il giorno quattordici del primo mese tra le due sere, nel deserto del Sinai. Secondo quanto il Signore aveva ordinato a Mosè, così fecero gli Israeliti (9,1-5).

 

Ecco che le cose iniziano a schiarirsi. Anzitutto si capisce che la data della Pasqua ebraica cadeva il giorno 14, tra le due sere (14 e 15), del mese di Abìb, successivamente chiamato «Nisan». Proprio in tale data venivano immolati gli «agnelli» per la Pasqua, per cui veniva celebrata la Pasqua del Signore.

Dai brani estratti dai Sinottici si pone in evidenza la «Parasceve», ossia il giorno che precede il sabato settimanale o un sabato festivo, che solitamente cade di venerdì.

Secondo alcune osservazioni, in merito alla immolazione degli agnelli per la celebrazione della Pasqua, questa cadde in un giovedì. Dopo il tramonto sarebbe iniziata la Pasqua, perciò Gesù consumò il pasto nella notte tra giovedì e venerdì, poi fu arrestato. Pertanto, nel giorno di venerdì fu crocifisso, in quel venerdì in cui cadeva la Pasqua. Venne la Parasceve, ossia la vigilia del sabato, e Giuseppe d’Arimatea chiese che gli fosse consegnato il corpo di Gesù. Al sopraggiungere della Parasceve, della vigilia del sabato, Gesù era già stato crocifisso. Insomma, in seguito ad alcune osservazioni risulta che nella cronologia dei Sinottici la crocifissione di Gesù sarebbe avvenuta venerdì, per cui il giovedì corrisponderebbe al 14 di Abìb e il venerdì al 15 di Abìb, in piena festività pasquale, che cadeva di venerdì.

Ciò ha sollevato alcuni problemi, dato che risulta alquanto problematico il fatto che la crocifissione potesse avvenire proprio nella festa di Pasqua. Infatti, il problema viene sollevato proprio nel Vangelo secondo Marco:

- Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturarlo con un inganno per farlo morire. Dicevano infatti: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo» (Mc 14,1-2).

Come risolvere questo problema che alcune osservazioni hanno fatto emergere? Proviamo a leggere alcuni brani tratti dal Vangelo secondo Giovanni.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni:

- Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine (13,1).

- Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l'alba ed essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua (18,28).

- E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui colpa alcuna. Vi è tra voi l'usanza che, in occasione della Pasqua, io rimetta uno in libertà per voi: volete dunque che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?» (18,38-39).

- Era la Parasceve della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!». Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?». Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare». Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso (19,14-16a).

- Era il giorno della Parasceve e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato - era infatti un giorno solenne quel sabato -, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via (19,31).

- Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatea, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù (19,38).

- Il primo giorno della settimana [«il giorno dopo il sabato»], Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro (20,1).

 

Dal quarto Vangelo emergono alcuni dati: il 14 e il 15 di Abìb non corrispondono al giovedì e al venerdì, come nei Sinottici, ma al venerdì e al sabato, il quale sabato era un giorno solenne (Cfr. Gv 19,31). Coloro che condussero Gesù da Pilato non vollero entrare nel Pretorio, così da non contaminarsi per poter mangiare la Pasqua, dunque ci si trova prima della Pasqua. La Parasceve è la vigilia del sabato, e proprio in tal momento vi fu la crocifissione, sicché ci si trova sempre di venerdì, come nei Sinottici. Il punto è che in Giovanni la Pasqua si estende dalla sera del venerdì alla sera del sabato – era anche la Parasceve della Pasqua –, mentre nei Sinottici si estende dalla sera del giovedì alla sera del venerdì. Nei Sinottici quel venerdì coincide con la festività pasquale, per Giovanni coincide con il giorno in cui venivano immolati gli agnelli per la festività pasquale. Questo è lo sfasamento cronologico tra i Sinottici e Giovanni che alcuni studiosi hanno fatto emergere, nonostante i fatti siano stati gli stessi.

 

Sinottici: 13 Abìb (mercoledì) – 14 Abìb (giovedì – ultima cena) – 15 Abìb (venerdì – Pasqua – crocifissione) – 16 Abìb (sabato);

Giovanni: 13 Abìb (giovedì – ultima cena) – 14 Abìb (venerdì – Parasceve – crocifissione) 15 Abìb (sabato – Pasqua).

 

Dopo tutto ciò, alcuni studiosi hanno cercato di armonizzare le due cronologie, ma vi è una certa preferenza per quella riportata nel Vangelo secondo Giovanni. Inoltre, bisogna doverosamente osservare anche una nota teologica molto profonda riportata nel quarto Vangelo: quel venerdì in cui Gesù fu crocifisso era anche il venerdì in cui si immolavano gli agnelli per la Pasqua. Vi è da pensare che non si tratti solo di una nota teologica alquanto profonda, come del resto la profondità innegabile di alcuni passi del quarto Vangelo, ma di una nota avente a che fare con quanto avvenne storicamente. Ed ecco che quell’«Agnus Dei qui tollis peccata mundi» acquista tutta la sua forza, in quanto il Cristo stesso diviene l’Agnello pasquale per la piena e definitiva Pasqua, l’Agnello della Nuova Alleanza, che culminerà nella sua gloriosa risurrezione.


Gabriele Cianfrani

mercoledì 16 marzo 2022

UNO SGUARDO SULLA FEDE


 

La parola «fede» è quanto mai comune e spesse volte pare sia avvolta da una nebbia che impedisca di coglierne la chiarezza, la profondità, la solidità che tale parola implica. Ci si chiede soprattutto se avere fede sia ragionevole oppure no; se l’atto di fede sia verso l’ignoto o verso una realtà concreta; se la fede goda di inesprimibilità oppure no. Tutto questo per poi giungere al tanto atteso rapporto tra scienza e fede, tra ragione e fede. Anzitutto, porre la fede da una parte e la ragione da un’altra non è corretto, per il semplice fatto che la fede suppone la ragione e la eleva, cosa che si vedrà a breve. Pertanto, cosa vuole indicare la parola fede? Si ritiene opportuno partire da preziose distinzioni terminologiche che si riscontrano nel testo biblico, per poi procedere con la riflessione all’interno della fede stessa.

Nel testo biblico, in riferimento alla «fede», si riscontrano soprattutto due parole: ʼāman (אמן) e baṭaḥ (בטח). La prima parola, ʼāman, è forse la più importante per esprimere il radicamento della fede, dal momento che tale parola vuol dire «credere» e da cui deriva il nostro amen che pronunciamo al termine di ogni preghiera. Contrariamente a quanto si pensa, la parola amen vuol dire «è così», «così dev’essere», «dev’essere certo» ecc. Pertanto, non sarebbe tanto corretto tradurre amen con «così sia», ma con «così è». Il motivo è che l’ebraico ʼāman sta ad indicare la fermezza, la solidità, l’attendibilità di ciò che si crede, espressa soprattutto dal «padre di tutti coloro che credono», ossia Abramo (Cfr. Rm 4,11). Se qualcuno provasse a soffermarsi su quell’amen alla fine di una qualsiasi preghiera (ad esempio l’Ave Maria) e dicesse «così sia», si renderebbe conto di quanto suoni strano. Certo, poiché il «così sia» esprime il volere che una cosa sia tale, in futuro, ma che in quel momento ancora non è. Domanda: Maria è già piena di grazia oppure dovrà esserlo? Lo è già, ovviamente, da un po' di tempo e lo sarà per sempre. Per cui «è così», «così è». Così come per quanto riguarda il «Credo» (il Simbolo Apostolico o quello Niceno-Costantinopolitano), che più di ogni altra preghiera esprime la fede cristiana, o meglio, il fondamento e il contenuto della fede cristiana. Ciò che si pronuncia durante il «Credo» è appunto creduto fermamente, saldamente, per cui ci troviamo in ciò che è espresso dalla parola ʼāman. Il «così sia», soprattutto in merito al «Credo», non gode di piena correttezza, poiché non riguarda un compimento futuro, dato che Dio è tale dall’eternità e tutta la storia della salvezza, che ha principalmente Dio come autore, gode di piena solidità. Non si rischia nulla con il «così sia», ci mancherebbe, ma non sarebbe male se lo si pronunciasse tenendo in mente l’originale ʼāman. Certamente occorre riportare che il «così sia» può indicare anche la disposizione da parte di colui che prega affinché si compia ciò che viene espresso nella preghiera, come nel Salmo 41: «Sia benedetto il Signore, Dio d'Israele, da sempre e per sempre. Amen, amen» (v.14); come anche in Geremia 28,6. Tuttavia, nonostante le sfumature del termine e l'accostamento al soggetto orante affinché si compia ciò che è contenuto nella preghiera, il senso principale di ʼāman (da cui il nostro amen) riguarda ciò in cui si crede, Colui in cui si crede, che gode di stabilità, di fermezza, di certezza, di verità, senza possibilità di alterazione. 

Tale senso di solidità, di attendibilità, di credibilità riguarda anzitutto Dio, così come traspare soprattutto da quel momento storico in cui Abramo uscì da Ur dei Caldei su richiesta di Dio (Cfr. Gen 12,1-3), credendo fermamente in Lui, dacché la solidità risiede in Dio stesso. Il tutto viene espresso molto bene in 2Sam 22,2-3: «Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore, mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio; mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo, mio nascondiglio che mi salva, dalla violenza tu mi salvi». È questa solidità che risiede nel Signore, il quale si è manifestato evidentemente con parole e opere, che viene espressa dalla parola ʼāman, parole e opere che hanno portato il salmista ad esprimersi precisamente: «Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore, che ha fatto cielo e terra» (Sal 121,1-2). Non un credere nell’ignoto, ma credere in Colui che è saldo come la roccia, o meglio, in Colui che ha conferito solidità alla roccia stessa, in quanto Egli l’ha fatta. Egli è il Dio fedele, il Dio di verità (Cfr. Is 65,16). Ma il riferimento può essere anche nei confronti di un testimone fedele (Cfr. Pr 14,5) o di chi risulta degno di fede, e chi risulta più degno di fede è Dio.

Ora, chiarito ciò a cui la parola ʼāman rimanda (credere stabilmente), seppure con una certa brevità, occorre soffermarsi sulla seconda parola: baṭaḥ. Per far ciò, si riportano alcuni passi: «Chi confida nel Signore è come il monte Sion: non vacilla, è stabile per sempre» (Sal 125,1); «Ecco, Dio è la mia salvezza; io confiderò, non temerò mai, perché mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza» (Is 12,2); «Offrite sacrifici legittimi e confidate nel Signore» (Sal 4,6). Al credere stabilmente nel Signore, la cui credibilità è data dal fatto che è il Signore, segue l’«atteggiamento del credente». Il credente è colui che confida nel Signore, si fida del Signore perché saldo è ciò in cui crede, e orienta la propria volontà verso Colui la cui volontà è salvifica. Credere nelle parole del Signore perché è il Signore. Perciò, baṭaḥ sta ad indicare l’aspetto del fedele, il suo atteggiamento, che lo impegna totalmente, come risulta dal bellissimo passo del Deuteronomio: «amerai il Signore con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze» (6,5). Inoltre, l’atteggiamento di colui che crede deve essere stabile così come è stabile ciò in cui crede: «[…] davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno. Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,8-9).

Ci sarebbe tanto altro da aggiungere, ma bisogna accontentarsi. Quel che emerge è che il credente ripone la sua fede in ciò che è «degno di fede», in ciò che è «saldo», altrimenti non ci sarebbe motivo per credere. Pertanto, da quanto riportato, risultano due aspetti importanti della fede: a) la realtà stabile in cui si crede, con la possibilità di credere ragionevolmente a ciò che comunque oltrepassa la ragione creaturale, ma che gode di conoscibilità; b) la fiducia da parte di colui che crede, che lo impegna integralmente, considerando che ciò in cui crede è stabile e perciò può fidarsi della sua parola.

In latino, al termine ʼāman corrispondono fidescredereveritas; al termine baṭaḥ corrispondono spessperareconfido (Cfr. X. Leon-Dufour, Dizionario di Teologia Biblica, Marietti 1965, p. 326. Titolo originale: Vocabulaire de Theologie Biblique, Les Editions du Cerf).

A questo punto è alquanto obbligatorio inserire colei in cui la fede ha trovato la sua massima espressione: la Vergine Maria. Due passi risultano estremamente incisivi: l’annuncio dell’angelo a Maria (Lc 1,26-38) e il successivo saluto di Elisabetta (Lc 1,39-45).

Due passi che richiederebbero un trattato, per cui si cercherà di evidenziare solo alcuni aspetti.

Il primo è quello riguardante l’annuncio dell’angelo, al quale Maria crede fermamente e sapientemente, constatando la solidità del contenuto del messaggio, lei che più di ogni altra creatura era in piena sintonia con la volontà di Dio. Il secondo punto, riguardante il coinvolgimento pieno di Maria, viene reso manifesto dalle parole di Elisabetta: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? […] E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (Lc 1,42-45). Al riguardo, risultano importanti le parole di san Giovanni Paolo II:

Nell’annunciazione, infatti, Maria si è abbandonata a Dio completamente, manifestando «l’obbedienza della fede» a colui che le parlava mediante il suo messaggero e prestando «il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà». Ha risposto, dunque, con tutto il suo «io» umano, femminile, e in tale risposta di fede erano contenute una perfetta cooperazione con «la grazia di Dio che previene e soccorre» e una perfetta disponibilità all’azione dello Spirito Santo, il quale «perfeziona continuamente la fede mediante i suoi doni» (Redemptoris mater, 13).

Estremamente importante il fatto che anche l’atto di credere è supportato da Dio, dalla sua grazia.

Inoltre,

Maria ha pronunciato questo fiat mediante la fede. Mediante la fede si è abbandonata a Dio senza riserva e «ha consacrato totalmente se stessa, quale ancella del Signore, alla persona e all’opera del Figlio suo». E questo figlio – come insegnano i Padri – l’ha concepito prima nella mente che nel grembo: proprio mediante la fede! (Ibid.).

Questo è ciò che emerge, brevemente, da uno sguardo sulla «fede». Si dovrà trattare l’argomento in modo più sistematico, ma per questo si richiede altro spazio, includendo ciò che comporta l’atto di fede e l’aspetto circa la «ragionevolezza della fede».



Gabriele Cianfrani