Blog di informazioni e riflessioni su quanto concerne temi cristiani

sabato 22 agosto 2020

PER L'UNIVERSO IN DIREZIONE DEL FONDAMENTO

 

Le domande circa l’«universo» sono tante: Ha avuto inizio o è sempre esistito? È infinito o finito? Se fosse infinito avrebbe comunque dei limiti oppure no? Cosa ci sarebbe oltre quei limiti qualora ci fossero? Come esprimersi sull'universo in rapporto a Dio? Queste e tante altre domande, a volte, sorgono spontanee. Motivo per il quale seguirà una riflessione, senza alcuna pretesa di esaustività, cosa che non sarebbe neanche possibile.

Prima di ciò non sarebbe male chiamare in causa due nozioni, tanto comuni quanto nuove ogni qualvolta sono oggetto di indagine: lo spazio e il tempo.

Il latino spatium viene dal greco σπάδιον (spadion) e da στάδιον (stadion) e indicava una determinata lunghezza, come quella appunto di uno «stadio». Ma vi sono altre derivazioni come quella da τόπος (topos) che significa «luogo».

Il latino tempus trova corrispondenza col greco χρόνος (kronos), e appoggiandoci sulla definizione aristotelica diremmo che il tempo è: «la misura del movimento, e del riposo, secondo il prima e il dopo». Questa definizione è molto importante in quanto comunica che il tempo non precede il movimento ma che il movimento precede il tempo, dato che questo è misurabile proprio grazie al movimento.

Senza insistere molto sui tipi di spazio e di tempo, ciò che in tal caso interessa riguarda i cosiddetti spazio assoluto e tempo assoluto. In quanto tali, lo spazio e il tempo assoluti avrebbero una sussistenza per sé, indipendentemente e sciolti da ogni altra realtà, o meglio, all'interno dello spazio e tempo assoluti troverebbero collocazione tutte le cose. Da uno spazio assoluto deriva lo spazio relativo e da un tempo assoluto un tempo relativo. In poche parole lo spazio relativo sarebbe «contenuto» e si «collocherebbe» all'interno dello spazio assoluto e il tempo relativo sarebbe tale perché «rientrante» nel tempo assoluto. Questa posizione, di origine newtoniana e in parte comune, non è stata risparmiata da critiche, ma quel che interessa in questo caso è che tale posizione esagera ciò che riguarda lo spazio e il tempo. Infatti, non avremmo consapevolezza di uno spazio – qualunque esso sia – se non in riferimento a corpi fisici che vanno a determinare quello spazio. Lo spazio assoluto non sarebbe riscontrabile nella realtà. Ugualmente per il tempo. Non potrebbe esserci consapevolezza del tempo se non in riferimento al movimento, che consente la misurabilità del tempo. Pertanto, lo spazio, incluse tutte le sue dimensioni, è dato dall'insieme dei corpi, mentre il tempo è dato dall'insieme dei movimenti. È possibile applicare una proporzione: «l’insieme dei corpi : spazio reale = l’insieme dei movimenti : tempo reale».

Cosa c’entra questo con l’universo e con Dio? C’entra molto, soprattutto per la realtà materiale che non a caso chiamiamo «spazio-temporale». Ora, se considerassimo tutto quanto esiste nella realtà spazio-temporale, noteremmo che vi è un aspetto comune a tutto: la finitezza. Tutto ciò che esiste nella realtà materiale è finito, e in quanto tale è misurabile. Il tempo, in quanto costituito dall'insieme dei movimenti, è misurabile e dunque non gode di una sorta di «eternità», la quale non sarebbe tale se fosse temporale, così come la temporalità non sarebbe tale se presentasse eternità. In merito vengono in mente le grandi parole di sant'Agostino: «Non ci fu dunque un tempo, durante il quale avresti fatto nulla, poiché il tempo stesso l’hai fatto tu; e non vi è un tempo eterno con te, poiché tu sei stabile, mentre un tempo che fosse stabile non sarebbe tempo» (Confessioni, XI, 14.17).

Lo spazio, in quanto costituito dall'insieme dei corpi, è anch'esso misurabile ed è perciò definibile come tale. Se fosse «infinito» non ci sarebbe possibilità di misurarlo materialmente, poiché gli strumenti di indagine strettamente empirici sono per la realtà materiale, la quale è finita e in quanto finita è misurabile empiricamente. Ciò che è finito nella propria costituzione ontologica non deve essere visto esclusivamente in modo negativo, ma questo è un altro discorso.

Dunque lo spazio e il tempo possono essere misurati. Ora, qualora si dovesse considerare l’universo, questo non potrebbe essere considerato escludendo la materia presente, che è tantissima! Stando a quanto si è giunti in campo scientifico, con particolare riferimento alla relatività generale di Einstein, lo spazio presenta una curvatura, dovuta alla massa. Per cui maggiore è la massa e maggiore è la curvatura. Ma la curvatura riguarda anche il tempo, per cui si tratta di una curvatura spazio-temporale, e la domanda da porsi sarebbe quella su quanto influisca la massa totale presente su questa curvatura. Ora, da qui vi sono diverse posizioni circa la geometria dell’universo. Una posizione che esprime la finitezza dell’universo dovuto alla totale curvatura ma al contempo l’assenza di limiti; un’altra posizione che include la curvatura, ma non «del tutto», e al contempo la linearità e l’assenza di limiti...  Nonostante le differenti posizioni, pare si convenga sulla finitezza dell’universo, anche per ciò che rientra nella osservabilità, ma comunque in espansione.

Dal punto di vista temporale, la teoria più utilizzata circa l’origine dell’universo pare sia quella del Big Bang, lanciata dal sacerdote e fisico Georges E. Lemaître. Questo dato, ricordando ciò che è stato esposto sopra in merito al tempo (l’insieme dei movimenti), può dar risposte sulla «temporalità», ma non sull'inizio della stessa, per il fatto che il tipo di indagine va ben oltre la ricerca legata alla materialità delle cose. In tal caso il movimento non deve essere considerato solo di tipo «locale», ma anche «quantitativo» e «qualitativo». Ciò sarebbe compito arduo anche per la sola ragione umana, come ricorda san Tommaso d’Aquino, dato che l’inizio del mondo – l’universo – non può essere dimostrato partendo dal mondo stesso (Summa Theologiae, Ia, q. 46, a. 2). Pertanto, l’universo sarebbe finito in estensione e temporalmente, nonostante l’assenza di limiti e la continua espansione. Ma ciò, strettamente parlando, è compito degli esperti dell’argomento, il quale è molto interessante e importante. Questa breve esposizione permette di fare un salto – si spera – verso il motivo principale della esposizione stessa, che sarebbe più di tipo ontologico.

Per cui da ciò è possibile pervenire ad alcune conclusioni, ossia che l’universo presenta movimento; non ha una sussistenza assoluta come se fosse il suo essere; non sarebbe associabile all'universo la nozione di «eterno» e così via. Conclusioni che esprimono non solo la totale tranquillità del discorso sull'universo e su Dio, ma anche il fatto che l’universo stesso ha la sua dipendenza ontologica da Dio. Solo Dio è l’Essere per sé sussistente, tutto il resto possiede l’essere in maniera «partecipata» e non assoluta. Inoltre, ci troviamo su due piani diversi, per cui non potrà mai esserci contrasto alcuno, semmai garanzia, da parte di Dio, del reale in quanto tale. Infatti, strettamente parlando, la parola «creazione» rimanda solo a Dio, dato che «creare» implica la produzione dell’essere in modo assoluto, e questo può farlo solo Dio (Cfr. Summa Theologiae, Ia, q. 45, a. 5). Per questo anche l’universo, nella sua vastità, dipende ontologicamente da Dio.

Nel caso ci si ponesse la domanda su cosa vi fosse al di là dell’universo espanso, questa pare non avrebbe molta differenza circa quella riguardante il «prima» dell’universo, anche se alcune differenze vi sono. Quale potrebbe essere la risposta? Pura possibilità di essere? La risposta non risulta semplice, anche perché l’indagine fisica non va oltre l’universo, ma una cosa è certa: qualsiasi risposta non potrebbe mai prescindere dal fatto che nulla all'infuori di Dio può essere considerato come avente l'essere per sé sussistente, per cui l’«oltre», in tal caso, non potrà mai identificarsi con Dio dacché Dio trascende la realtà materiale e non si identifica affatto con essa. Pertanto, anche l’universo non presenta alcuna necessità, e non presentando alcuna necessità il fondamento ultimo non può risiedere nell'universo stesso, il quale non essendo necessario presenta dipendenza. In conclusione, il fondamento ultimo risiede in colui che è l’Essere per sé sussistente: Dio.



Gabriele Cianfrani


lunedì 10 agosto 2020

SCUSA MAMMA, HO SBAGLIATO POSTO...

 



In merito a quanto stabilito dall'attuale ministro della salute Roberto Speranza sull’aborto, ripropongo il testo di un articolo presente su un altro mio spazio internet, ma che probabilmente chiuderò. Questo è il motivo per cui il testo inizia con l’evento del 22 gennaio 2019. È chiaro a tutti che è possibile, appunto da quanto stabilito ultimamente (intervento dello stesso ministro della salute su Twitter in data 8 agosto 2020), procedere con l’aborto farmacologico (pillola RU486) fino alla nona settimana. Per alcuni versi non mi interessano neanche i «confronti legislativi», ma ciò che vi è di fondo riguardo a precise scelte, anche se un minimo di confronto seguirà nel testo. Sinceramente, il ministro parla di «linee guida basate sull'evidenza scientifica», ma sarebbe doveroso spiegare quali siano queste evidenze, altrimenti si corre il rischio, come spesso accade, di utilizzare l’espressione «evidenza scientifica» in maniera non solo non evidente ma anche del tutto vaga, o peggio, ambigua. 

                                                                                 ***

Il 22 gennaio 2019 il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo ha firmato una legge che prevede l’aborto anche dopo 24 settimane di gravidanza. Del resto è una legge simile – ma non uguale – a quella italiana (legge n.194 del 22 maggio 1978, ratificata nel 1981), anche se quella italiana prevede la possibilità di abortire dopo i 90 giorni solo per motivi terapeutici, quando vi siano rischi per la salute psichica della madre o insorga la minaccia di malattie e di malformazioni del nascituro – e da questo non si escludono affatto manipolazioni, o meglio, queste risultano essere in numero notevole. In poche parole, ciò permette l’uccisione del nascituro senza alcun limite di tempo, l’importante è che non sia ancora uscito dal grembo materno. Ora, questa legge, che rievoca la sentenza del 1973 per la legalizzazione dell’aborto (Norma Leah McCovery alias Jane Roe vs Henry Menasco Wade), si presenta come una vera conquista per i diritti della donna e per la tutela della vita in generale… Fino a questo punto, nonostante l’aborto sia «intrinsecamente» azione cattiva – anche i dati scientifici parlano chiaramente –, pare ci sia una sorta di proporzionalità, tra la tutela di una vita e l’eliminazione di un’altra. Ma il punto è che ci si ritrova dinanzi al mascheramento della realtà mediante termini volti a far credere la logicità della contrarietà, o meglio, se volessimo dirla con le parole del grande Card. Giacomo Biffi diremmo che «una volta, per fare notizia bisognava dire un’eresia, oggi invece occorre un’ortodossia». Ebbene queste parole del Card. Biffi si possono inserire tranquillamente anche in tal contesto: il favorire la vita viene visto come antica mentalità da superare; l’impedimento della vita viene visto come la massima espressione di libertà, di quella libertà di cui l’uomo ne sarebbe il possessore assoluto. Beh, tutto questo per «tutelare» la vita… Ma vi sono degli atti «intrinsecamente cattivi» e lo sono di per sé, ossia per il loro stesso oggetto – il mezzo con cui l’intenzione viene realizzata –, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze, e uno di questi è l’aborto (Cfr. Rm 3,8). Alla fine riporterò alcuni testi per l’approfondimento dell’argomento.

Senza cadere nelle solite affermazioni del «sì» o del «no» alla vita, qui non si tratta di una realtà soggetta a sua volta a interpretazioni soggettive, bensì di una realtà oggettiva. E questo non vale solo per l’America settentrionale o per l’Asia, ma anche per l’Italia e per tutti quei Paesi che legalizzano l’aborto o lo consentano con delle restrizioni, condizioni… Ma gira e rigira sempre viene permesso. Che il tutto venga presentato con parole dolci e allettanti non ha senso, anche perché il governatore Cuomo, stando ad alcune informazioni, ha espresso che «a New York, le donne avranno il diritto fondamentale di controllare il proprio corpo». Il fatto che vi siano casi di gravidanza difficili, sui quali occorrono studi e mezzi giusti per far sì che la stessa gravidanza si svolga nel modo più sicuro possibile è un dato innegabile, così come lo è stato in passato. Oggi si dispone di mezzi per consentire la sicurezza della gravidanza, o almeno far sì che vada incontro a un minor numero di problemi, qualora dovessero presentarsi, ma senza soppressione della vita causata da mani d’uomo.

Il testo di legge firmato, almeno per quel che sembrerebbe, è la perfetta espressione del ‘fai ciò che vuoi, sei tu il padrone’. Diversamente non può apparire, soprattutto se consideriamo una parte del testo – integralmente lo si trova su internet (qui) –, nella quale, se prima vi erano alcune condizioni per cui un omicidio poteva esser ritenuto tale, ora non più. Ecco il testo con alcune parti appositamente eliminate, che riporto di seguito:

 

     4                  HOMICIDE[, ABORTION] AND RELATED OFFENSES

    

     7  Homicide  means  conduct  which  causes  the  death of a person [or an

     8  unborn child with which a female has been pregnant for more  than  

     9  twenty-four  weeks] under circumstances constituting murder, 

         manslaughter in

   

   10  the first degree, manslaughter  in  the  second  degree,  or  criminally

   

   11  negligent  homicide[,  abortion  in the first degree or self-abortion in

  

   12  the first degree].

 

Traduzione dal punto 7 al punto 12 (sottolineato il testo che hanno cancellato):

Omicidio significa condotta violenta che causa la morte di una persona (o di un bambino non nato di cui una donna è incinta da più di 24 settimane) in circostanze che costituiscono assassinio, omicidio colposo di primo e secondo grado, o omicidio causato da negligenza criminale (aborto di primo grado o aborto autoinflitto di primo grado).

Ebbene, da questo testo si evince che l’aborto era considerato, inizialmente e giustamente, un vero e proprio omicidio almeno dopo le 24 settimane, compreso l’aborto auto-inflitto. Cosa è cambiato ora? Saranno forse cambiati i dati scientifici che affermano sempre più, a loro dispiacere, che la nuova creatura è «persona» già dallo stato di zigote? Sarà forse cambiata la linea della Chiesa, la quale afferma, sempre a loro dispiacere, che l’anima è creata subito dopo la fusione del gamete maschile con quello femminile, ossia con la formazione dello zigote? Come mai prima non si parlava di tutela della donna e ora sì? È conquista di vera libertà? È visione moderna o modernista? È progresso o progressismo rivoluzionario? Inoltre, con quelle parti di testo eliminate, se un domani una donna incinta subisse violenze e il nascituro morisse per le percosse ricevute, ella non potrà più chiedere «giustizia» per la morte del proprio figlio, semplicemente perché non sarà più considerato omicidio, né prima né dopo le 24 settimane, e il testo sopra riportato presenta forte ambiguità. 

Mi pare che l’unica cosa che sia cambiata è il voler universalmente impadronirsi di ciò di cui si è meno padroni: la vita. La tendenza è sempre questa ed è incontrovertibilmente antica tanto quanto l’uomo. Non solo, ma dal testo di legge traspare fortemente che nella definizione di «persona», in questo caso, non rientrerebbe affatto il bambino ancora nel grembo materno. Pertanto, il nascituro, a calcoli fatti, sarebbe un essere indefinito, anonimo e insignificante. Eh sì perché il tutto non convince affatto, dacché la formulazione delle parole godono appunto di una certa ambiguità, e a volte è proprio tale ambiguità che paradossalmente dice tutto.

Senza riportare l’origine del termine di persona come riferente a ciò che sussiste razionalmente e non esclusivamente alle maschere delle commedie teatrali – il termine persona perse il riferimento alla maschera e assunse quello di ipostasi, che in latino si traduce direttamente in «substantia, suppositum» –, il quale ha le sue origini nella Chiesa Cattolica (Concilio di Nicea I – 325 d.C.) per questioni trinitarie e cristologiche, è chiaro che la definizione stessa di «persona» si dice tanto dell’adulto, dell’essere umano nato, quanto del nascituro anche nello stato di zigote. Noi esseri umani, prima di esser ciò che siamo ora eravamo, per un tempo, nello stato di zigote. Questo non comporta il fatto che lo zigote non sia possibile considerarlo come persona umana per il fatto che non abbia ancora facoltà intellettivamente umane in atto. Certo, non le ha ancora, ma le avrà, le svilupperà così come è accaduto ad ognuno di noi. Ci sono poi dei casi difficili, sui quali non è bene che ci si esprima superficialmente, ma ciò non esclude il fatto che si parli sempre nell'ambito della natura umana, che in tal caso ha carattere personale. Noi siamo attualmente ciò che prima eravamo potenzialmente, e la potenza è ordinata al «suo» atto. Le parole del testo di legge parlano chiaro: fino a quando il bambino restasse nel grembo materno e morisse a causa di azioni criminali esterne, ciò non costituirebbe un omicidio, dacché il bambino – deducendo dal testo – non sarebbe considerato come persona integralmenteSe proprio volessimo essere precisi il bambino, stando al testo sopra riportato, non sarebbe proprio considerato come rientrante nella «natura umana», dato che la parola «omicidio» viene dal latino homicidium, che vuol dire «uccisione di uomo», e l’aborto non rientrerebbe nell'omicidio. 

Inutile negarlo, da ciò si evince che il tutto non è tanto per la ‘tutela’ della donna quanto per una volontà libertaria autodeterminante, che tenta sempre più di impossessarsi autoritariamente di ciò che più di tutto possiede solo come verità ricevuta e non causata da sé e per sé: la vita.

Nel caso in cui la donna avente nel suo grembo il feto assumesse farmaci a causa di una patologia e questi causassero il decesso del medesimo (aborto terapeutico), non ci sarebbe colpa poiché l’azione non sarà stata quella di uccidere il feto (aborto procurato o diretto), ma di curarsi, per cui non si tratterà di aborto diretto ma indiretto, e l’azione sarà stata lecita. Alle volte vi sono casi in cui le madri decidono di non curare se stesse per non causare nemmeno collateralmente la morte del figlio in grembo, ad esempio Gianna Beretta Molla (medico), che è divenuta santa per questo, ma anche Chiara Corbella Petrillo – certo, queste sono scelte e non sono imponibili. Inutile esprimere che per la Chiesa Cattolica l’aborto è peccato mortale per l’intrinsecità cattiva dell’atto e stabilisce che la vita è un dono di Dio. Basta leggere i primi versetti del primo capitolo del libro di Geremia. Tuttavia, anche volendo prescindere da ciò, non è possibile non guardare al pronunciamento della scienza empirica, quella sperimentale, come accennato sopra.

Inoltre, per chi ancora volesse sostenere il decidere del momento in cui, nel grembo materno, la creatura «divenga» persona umana, ciò viene smentito non solo dai dati antropologici, ma da quelli scientificamente empirici!

All'origine di un essere umano si trovano due cellule «specializzate», dedicate alla funzione generatrice: il gamete femminile (ovocito) ed il gamete maschile (spermatozoo). Circa 20 ore dopo il rapporto sessuale, la testa dello spermatozoo è penetrata nel plasma della cellula-uovo (singamia), al cui nucleo si sta avvicinando con decisione per fondere il proprio materiale genetico con quello della cellula-uovo. Questa fusione, della durata di 20 ore circa, porta alla costruzione di un nuovo sistema genetico con i suoi 46 cromosomi. Verificatasi la fusione, siamo in presenza di una cellula nuova, lo zigote. Questo nuovo essere non è la semplice somma dei codici genetici dei genitori. È un essere con un progetto e un programma nuovi, che non è mai esistito e non si ripeterà mai. Questo programma genetico (genoma) assolutamente originale individua il nuovo essere, che d’ora in poi si svilupperà secondo esso. Pertanto, ci si trova dinanzi ad una nuova identità che non è semplicemente una messa insieme del materiale genomico dei genitori. E questo è straordinario! Nel nuovo programma genetico sono determinate le caratteristiche del nuovo individuo, dall'altezza al colore degli occhi, fino al tipo di malattie ereditarie a cui andrà soggetto.  Inoltre, a 18-25 giorni dopo il concepimento il cuore della nuova creatura batte già; a 6 settimane vi è possibilità di misurare le frequenze delle sue onde cerebrali; a 8 settimane gli organi interni sono formati e inizia anche a percepire il dolore, il calore, la luce, i suoni. Prima dell’undicesima settimana gli organi vitali sono tutti formati.

Non a caso il ginecologo ateo e materialista Bernard Nathanson (1926 – 2011) divenne un grande sostenitore della vita a seguito della ecografia, che permetteva di riprendere l’aborto ‘in diretta’. Ciò fu determinante affinché Nathanson, nel 1984, diresse il documentario The Silent Scream (Il grido silenzioso), in cui viene mostrato un aborto ripreso mediante ecografia, durante il quale il feto sente un terribile dolore per ciò che gli stanno praticando Non solo, ma nel documentario vengono mostrati anche resti di feti abortiti (per dare un'occhiata, anche se alcune immagini sono abbastanza forti... ma vere: qui e qui) e di come si sentano le donne che hanno abortito, per aver ucciso il proprio figlio e non tanto per questioni di salute, dato che se queste ci fossero, andrebbero valutate attentamente e stabilire se rientrano nell'aborto diretto o in quello indiretto. Inoltre, le procedure per l’aborto entro il primo trimestre sono: l’aspirazione endouterina o la dilatazione del canale cervicale e raschiamento uterino. Dopo il primo trimestre, di solito, di utilizza la dilatazione cervicale e svuotamento dell’utero con pinza e anelli.

Ora, che si tratti dell’America settentrionale o dell’Italia, l’aborto resterà sempre, oggettivamente parlando, un vero omicidio: l’omicidio è la morte di una persona umana causata da un’altra persona umana; l’aborto (procurato) è morte di una persona umana causata da un’altra persona umana; dunque l’aborto è omicidio. Che in Italia sia illegale ma consentito in base ai punti dell’art.6 della legge 194, per il fine «tutelante» la salute della donna, non giustifica l’aborto stesso poiché esso è sempre espressione di morte di una persona umana, quale è il nascituro, ed è sempre omicidio.

Se in Italia vi sono due leggi contrarie (contro l’omicidio ma a favore dell’aborto e dunque a favore dell’omicidio), seppure quella dell’aborto con restrizioni ma non giustificanti l'intrinsecità cattiva, in America settentrionale, e in tal caso a New York, il problema viene drammaticamente risolto col fatto che non si dice omicidio nel caso del nascituro fino a quando resti ancora nel grembo materno. Questo implica di conseguenza che il nascituro non viene considerato come «persona». È appunto questo uno degli aspetti più evidenti.

Ciò che prevede la legge americana rispetto a quella italiana è un passo in avanti, ma negativo. Tante sono le manipolazioni in merito a questo atto omicida che superano enormemente i casi di vera tutela della donna, e penso che questo sia risaputo. Ma la tendenza, purtroppo, è sempre quella della autodeterminazione svincolata, la quale vuole prescindere a tutti i costi – ma a propria enorme rovina – dalla legge naturale, insita in ogni persona umana presente su questo pianeta, per il fatto stesso di essere «umano», per cui di natura ragionevole. Ciò che magari ci si potrebbe aspettare è che un domani neanche l’essere umano già nato sia considerato persona, ma un semplice essere vivente, un semplice mammifero o una semplice macchina biologica, a differenza della Chiesa, la quale ha sempre dichiarato e sempre dichiarerà la dignità infinita e unica di ciascuna persona umana, dall'inizio del concepimento fino alla morte, preferibilmente non per omicidio. È strano anche il fatto che lo stato di New York favorisca una sorta di pena di morte e la favorisca in questo modo a persone che assassini non sono poiché non ancora in grado di compiere un atto responsabile, o forse per l’unica responsabilità di trovarsi nel grembo materno. 

Ciò che sta alla base di questa critica (negativa) non è tanto il fatto che sia spuntato fuori l’aborto nello stato di New York con le evidenti dinamiche – anche in Italia è consentito l’aborto come riporta la legge n.194, seppure di per sé è illegale –, ma il fatto che in nome dell’aborto come tutela della persona della donna sia messa in grave pericolo la persona umana nella sua totalità, compresa la donna! Non ci sono solo le donne di oggi, ma anche quelle del futuro, ammesso che potranno nascere.

Che vi siano stati dei passi avanti è innegabile, ma verso il buio, in quanto se escludessimo la morte di un bambino/a non ancora nato/a come conseguenza di un atto compiuto da una persona umana esterna dalla categoria «omicidio», questo comporterebbe inevitabilmente che la creatura nel grembo materno non sia persona umana, ma un ente qualsiasi.

Per concludere, si giunge a due estremi: l’uomo come creatore o l’uomo come creatura. Che l’uomo sia creatore è cosa a dir poco assurda, per ciò che implica il significato della parola «creatore», nonostante se ne sentano tante: «abbiamo creato»; «è stato creato...»; «ho deciso di creare» ecc. L’uomo «realizza», ma non può «creare», al massimo può «procreare». Insomma, per come la si voglia portare avanti, l’uomo non si è dato l’essere da sé e di conseguenza la vita non può darsela da sé, ma può solo riceverla… e da un Creatore! Pertanto, l’uomo non può ergersi al posto del Creatore. Ne verrebbe fuori la rovina dell’uomo stesso dacché andrebbe contro se stesso, contro la sua natura «creata» e non «creatrice».

Certamente l’uomo è libero di disporre di sé, ma la libertà è propria delle creature razionali. Potrebbe anche ergersi al posto del Creatore, come già successo in passato. Ma non si incolpi Dio al verificarsi di tanti mali che saranno e che alcuni sono già. L’uomo è responsabile dei propri atti ed è sin dal principio chiamato ad essere non il padrone assoluto del creato, ma il custode (Cfr. Gen 2,15), e in tale custodia rientra anche e soprattutto quella della vita umana (Cfr. Gen 4,9).


Gabriele Cianfrani




Per approfondimenti:

- Barra Gianpaolo – Iannacone Antonio M. – Respinti M., Dizionario elementare di Apologetica, Istituto di Apologetica (IdA), Milano 2015;

 - Brambilla G. (a cura di), Riscoprire la Bioetica, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2020;

 - Carbone Giorgio M. O.P., L’embrione umano: qualcosa o qualcuno?, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 20145;

 - Giuseppe Garrone [a cura di], Contraccezione e aborto, prefazione di Mons. G. Zaccheo, Gribaudi, Milano 2004;

 - Giovanni Paolo II (San), Veritatis Splendor, Edizione Paoline, Milano 201513;

 - Lucas Lucas R., L’uomo: spirito incarnato, San Paolo, Milano 19935;

 - Paolo VI (San), Humanae Vitae, edizione Paoline (42a edizione), Milano 2016;

 - Puccetti R., L’uomo indesiderato: dalla pillola di Pincus alla RU 486, prefazione di C. Casini, presentazione di Di Pietro M.L., Società Editrice Fiorentina, Firenze 2008;

 - Rodriguez-Luño A., Scelti in Cristo per essere santi. III Morale speciale, EDUSC, Roma 20082.

mercoledì 5 agosto 2020

IN PRINCIPIO VI ERA IL "LOGOS" O IL "NULLA"?



Almeno una volta nella vita, molto probabilmente, si sarà presentato un pensiero simile: «Cosa vi sia stato o vi è all'inizio di tutto il reale e cosa vi sarà dopo, o meglio, se dopo vi sarà qualcosa». Nella maggior parte dei casi quel «dopo» riguarda la «morte», per cui: se dopo la morte vi sarà qualcosa, dato che spesse volte la «morte» vien posta come prova della fine di tutto. Il punto è che occorrerebbe pervenire a cosa vi era o vi è al principio, prima di pervenire a cosa vi sarà dopo la morte, semmai dovesse esserci qualcosa. Il prima e il dopo sono inscindibili, fino a prova contraria, poiché viviamo nel «tempo» – altra grande questione. Cercherò di proporre una «riflessione» e nel senso etimologico del termine, ossia una «flessione del pensiero che ritorna al punto di partenza ma a modo di conclusione», la quale conclusione potrà risultare nuovo punto di partenza per un’altra riflessione. Mi scuso già da ora se la riflessione sarà lunga.

Ora, poiché viviamo nel tempo, è possibile pronunciarsi sul prima anziché sul dopo, poiché il dopo ancora non è sopraggiunto, a differenza del prima che è già sopraggiunto e nei confronti del quale ci si trova dopo, per cui si è fatta «esperienza» del prima. Ma se vi fosse la possibilità di esprimersi sul prima allora vi sarà anche la possibilità, con maggiore certezza, di esprimersi sul dopo. Non è affatto un gioco di parole in quanto da sempre l’uomo si è interrogato in merito alla totalità dell’esistenza e di come questa sia tale. Per cui è un bene che sorgano delle domande in merito; sarebbe male se si trascurassero aspetti «fondamentali». Importante il fatto che il prima e il dopo, nonostante rimandino anzitutto al fatto «temporale», in tal caso fanno riferimento soprattutto al piano «ontologico». Sarà più chiaro in seguito, spero.

In poche parole, per non andare troppo per le lunghe, la famosa domanda è questa: in principio vi era l’essere o il nulla?

Trattandosi di un articolo, non posso dilungarmi eccessivamente, ma una domanda del genere richiederebbe un trattato vero e proprio.

Non sarebbe corretto scambiare la parola essere con esistenza poiché questa si riferisce alla conseguenza dell’essere, è un puro risultato dell’azione di questo. Ma vi è uno scoglio da superare ed è questo: cosa si intenda per la parola essere. Bene, poiché l’essere è il contrario del nulla, si intenderà l’essere come «fonte di attualità» emergente sul nulla, ossia non come un semplice risultato di esistenza ma come un vero e proprio atto fondante tutto il resto, esistenza compresa. Certo, come sarà mai possibile convenire questo? La riposta è semplice. Se il lettore provasse a chiudere gli occhi e a pensare anche per un breve istante al «nulla», di conseguenza avrebbe anche la possibilità di argomentare sul nulla stesso... Ebbene non ci sarebbe nulla di più vano! Perché? Per il semplice motivo che il nulla semplicemente «non è». Ogni nostra azione, ogni nostra parola e ogni nostro pensiero non possono prescindere da ciò che «esiste». Semmai si provasse anche solo a pensare al nulla, questo non sarebbe più tale in quanto risulta «impensabile». Voler pensare al nulla equivale a «pensare l’impensabile». Il punto è che – e su questo credo si possa comunemente concordare – nessuno può pronunciarsi sul nulla in quanto nessuno ha esperienza del nulla; se vi fosse esperienza del nulla questo non sarebbe più tale, dato che si fa esperienza di ciò che è, non di ciò che non è, appunto perché l’esperienza coinvolge primariamente gli organi si senso e nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu (nulla si trova nell'intelletto che prima non sia stato nei sensi). Pertanto, affermare che in principio vi era il nulla equivale ad affermare... nulla, dato che questo non ammette nessuna possibilità di pronuncia. Tanto meno si potrebbe «dimostrare» il nulla. Dal punto di vista empirico si considera ancora la teoria del Big Bang, che tra l’altro è stata proposta proprio da un sacerdote, ossia da Georges Lemaître, ma in tal caso l’argomento interpella così tanto da richiedere la ricerca del fondamento ultimo. Quello del Big Bang è già un passo troppo avanti, come anche la famosa espressione attribuita ad Antoine-Laurent de Lavoisier: «nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma». È importante il pronome riflessivo «si», che fa la differenza. Il discorso non è principalmente cronologico, anche se tale aspetto rientra tranquillamente e il riferimento, nel nostro caso, è soprattutto riguardo alla realtà che consta di materia, che può essere còlta anzitutto dai sensi.

Insomma, il nulla non è e noi abbiamo consapevolezza solo di ciò che è, non di ciò che non è. Per quanto possa sembrare difficoltoso il percorso, sarebbe più sensato parlare di ciò che è anziché di ciò che non è. A questo punto si dovrebbe parlare dell’essere come emergente sul nulla, solo non converrebbe pensare all'essere come ad una sorta di tavola oceanica che vi è sin dall'eternità. Certo che no, altrimenti a quest’ora ci ritroveremmo in una sorta di eternità, tale da rischiare di cadere nel cosiddetto «materialismo». L’eternità della materia non ammette, essa stessa, di esser tale perché è coinvolta perennemente dalla «temporalità». Il tempo implica un prima e un dopo e questo coinvolge inesorabilmente e pienamente la realtà materiale. Ma a questo punto sembra sia messo in pericolo anche il primato dell’essere sul nulla. Non è così, primo perché, come è stato riportato, non abbiamo alcuna possibilità di argomentazione sul nulla, che non è, ma soltanto su ciò che è; secondo perché nonostante l’essere emerga sul nulla, in questa realtà «temporale» implicante un prima e un dopo, ciò che ora è, prima di essere, non era, ma non in senso assoluto. Ed è questo il piano «ontologico» al quale il prima e il dopo fanno riferimento, ossia un riferimento in parte cronologico ma soprattutto mirante ad evidenziare la «precarietà» di quel che «materialmente» esiste. Mi spiego: se dovessi scrivere una pagina di quaderno, quella pagina, prima che io vi abbia scritto qualcosa, non potrebbe ancora esser definita come «pagina scritta». Lo sarebbe solo se avessi scritto qualcosa. Dunque quella «pagina scritta» poteva o meno esser tale. Ora, questo vale per la «pagina scritta» come per tutto ciò di cui facciamo esperienza, in caso contrario si ammetterebbe l’eternità della materia, ma il «tempo» non ci permette di affermare ciò. Pertanto, tutto ciò che poteva non essere, ad un certo punto non è stato. Ciò che può essere, per essere, non può restare solo nella pura possibilità di essere, e tutto ciò di cui facciamo esperienza ad un certo punto rientrava nella possibilità. Ora, ciò che non è o che rientra nella possibilità, non può certamente attuarsi da sé, poiché sarebbe contraddittorio. Non solo, ma in tal caso ci poniamo già al di là del nulla, dato che questo esclude anche la possibilità. Dunque la possibilità di essere non può che fondarsi su quell'attualità che faccia sì che ciò che è nella possibilità di essere, alla fine, potrà essere. Pertanto, giunti al primato dell’essere sul nulla, ciò che nella realtà esperienziale possiede l’essere, di certo non se lo si è dato (da sé), altrimenti ritorniamo nella contraddizione precedente, ma si tratterà di un essere conferito da altro, causato da altro, che si pone al di là e non rientra nel tempo, ma che concede anche al «tempo» di esser tale. Si tratta di un al di là trascendente. A questo punto, escluso il nulla per precise evidenze, non resterebbe che: in principio vi era il Logos, per mezzo del quale tutto è stato fatto, con tutto ciò che di importante implica il termine logos. Il Logos è eterno – non sfocio nel discorso trinitario, anche se è fondamentale –, ma «è»; il nulla anche sarebbe eterno, ma «non è». Il fondamento ultimo è nel Logos di Dio, in concreto nel Dio uno e trino. Importante il fatto che la possibilità non deve condurre ad una sorta di «contingentismo universale», dato che il riferimento, in questo caso, è stato fatto sulla realtà materiale. Ma questo rimanda a precise e preziose speculazioni.

Per concludere: e la morte? La «morte» rientra nella possibilità, che si fonda sull'attualità. Non si può dare morte senza la vita, ma non vale il contrario. È necessario che vi sia la vita per poi subentrare la morte – il riferimento è primariamente alla realtà esperienziale, da non dimenticare. Dunque il primato spetta alla vita e non alla morte. Il primato assoluto spetta a colui che è «Vita». La morte non potrà mai prevalere sulla vita, semplicemente perché il primato spetta alla vita.

Certo, la morte – vi sarebbero anche delle precisazioni in merito – sopraggiunge in modo crudele... Come mai? Non per essere di parte, ma la risposta è «cristiana», o meglio, la riposta risiede in Cristo. Ma questo rimanda ad un altro momento.


Gabriele Cianfrani


martedì 4 agosto 2020

martedì 14 luglio 2020

LA PAROLA "RIVELAZIONE"

luglio 14, 2020 Posted by Gabriele Cianfrani , , No comments

La parola «Rivelazione», molte volte pare che sottintenda un riferimento diretto alla Scrittura, ossia alla Bibbia in quanto tale: Bibbia è una parola che viene dal greco e che vuol dire «libri» (biblia). Ma in realtà, il termine greco che corrisponde a «rivelazione» è apokalypsis, e l’ultimo libro della Bibbia è appunto l’Apocalisse. Pertanto, l’ultimo libro della Bibbia, non ha a che vedere con quella catena catastrofica sotto la quale tantissime volte lo si presenta. Ma non è questa la sede per questo approfondimento che, in ogni tempo della storia, è risultato e risulta sempre impegnativo... ma assolutamente possibile!

Quando in sede teologica si utilizza la parola «Rivelazione», pare che il riferimento sia immediatamente alla «Scrittura» (la Bibbia). Questo è giusto, ma in parte, poiché come le strade, o meglio, i canali della Rivelazione dalla quale scaturiscono sono «due», non uno soltanto. Questi canali sono la Sacra Scrittura e la Tradizione apostolica, le quali non possono essere separate: l’una non potrebbe permanere se mancasse l’altra e viceversa. Ma questo merita uno sguardo a parte, per il momento sarebbe meglio chiarire cosa si intenda per la parola «Rivelazione», e per questo si prenderà come riferimento principale quel mirabile documento del Concilio Vaticano II che è la Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, ossia la Dei Verbum.

Intanto è estremamente importante notare come si presenta l’indice del documento, poiché nulla è lasciato al caso: Proemio; 1. La rivelazione; 2. La trasmissione della divina rivelazione; 3. L’ispirazione divina e l’interpretazione della Sacra Scrittura; 4. Il Vecchio Testamento; 5. Il Nuovo Testamento; 6. La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa.

Ora, seguendo la Dei Verbum, alla domanda su cosa sia la Rivelazione, la riposta immediata la si rintraccia all’inizio del primo capitolo:

Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (Cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (Cfr. Ef 2,18; 2Pt 1,4).

Dunque è possibile capire che con la parola «Rivelazione» si intende: Dio che rivela se stesso e la sua volontà salvifica nei confronti dell’uomo, e questo lo fa nella storia, la quale prenderà il nome di «storia della salvezza», che ha Cristo come mediatore e come pienezza di tutta la Rivelazione.

Ma la parola «Rivelazione» viene dal latino (re-velatio) e il primo senso è quello di «scoprire», «svelare». Vi è un altro senso, che è quello di «velare nuovamente», ossia «mettere nuovamente il velo».

Il punto è che entrambi i sensi sono corretti, per cui la Rivelazione è sia svelamento sia rivelamento. In ciò si capisce che Dio certamente si fa conoscere (svelamento) – importante in merito alla conoscibilità di Dio –, ma resta sempre l’ineffabile, colui che trascende assolutamente questa realtà, pertanto permane sempre quel Mistero (rivelamento) – importante in merito alla incomprensibilità di Dio, nel senso che non è possibile comprendere l’infinità di Dio, nonostante vi sia accesso alla sua conoscibilità, che fa sì che possiamo parlare, e anche correttamente, di Dio.

Pertanto, la Rivelazione ci fa conoscere Dio poiché è lui che si fa conoscere, ma ciò non esaurisce il suo Mistero. Per questo san Paolo si esprime chiaramente: «Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto» (1Cor 13,12).

Importante il fatto che Dio vuole comunicare la propria vita divina agli uomini da lui liberamente creati, per farli figli adottivi nel suo unico Figlio. Rivelando se stesso Dio vuole rendere gli uomini capaci di rispondergli, di conoscerlo e di amarlo ben più di quanto sarebbero capaci da se stessi (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 52). 


mercoledì 24 giugno 2020

24 GIUGNO - SOLENNITA' DELLA NATIVITA' DI SAN GIOVANNI BATTISTA

giugno 24, 2020 Posted by Gabriele Cianfrani , , , No comments


San Giovanni il Battista (Giovanni, dall’ebr. Yehōchānān = “Il Signore ebbe misericordia”; “il Signore è misericordioso”) nacque in quella città di Giuda identificata con Ain-Karim (Cfr. Lc 1,39) intorno al 7 a.C., dai santi Zaccaria ed Elisabetta. Fino ai giorni della sua manifestazione a Israele visse per regioni deserte (Cfr Lc 1,80) e nel 27 d.C. la parola di Dio venne su di lui. Percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati (Lc 3,3). La decapitazione del Battista è riportata in Mt 11,6-12 e Mc 6,24-29, avvenuta probabilmente nella fortezza di Macheronte.

Scrivere su san Giovanni il Battista è compito arduo, poiché la sua profondità è spaventosa tanto che fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui (Mt 11,11). Tra i santi, oltre alla Beata Vergine Maria, del Battista si celebra non solo la morte (29 agosto) ma anche la nascita terrena, anzi, la nascita è solennità (24 giugno).

Come prima cosa verrebbe da riportare un’espressione che si sente sempre e che ha un significato ben preciso: Una voce grida: « Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata » (Is 40,3-4). Questo è il passo del libro di Isaia (Deutero-Isaia o Secondo Isaia che comprende i capitoli che vanno dal 40 al 55, anche se tale divisione è discussa), che in Lc 3,4-6 è riferito al Battista, e i due punti (:) andrebbero posti proprio come sopra e non dopo la parola “deserto”. Tale passo è di una profondità enorme! Forse il primo pensiero che spunta nella mente potrebbe essere quello che considera il “deserto” come un luogo di assenza, per cui chi parla nel deserto non ottiene nessun risultato, poiché nel deserto vi è quel “vuoto”, quell'assenza di persone per cui nessuno può ascoltare. Quante volte si sente dire: « Parla, parla, tanto nessuno ti ascolta! Parli a vuoto! Parli nel deserto! », e magari pronunciare queste parole con un certo riferimento al Battista... Ma la realtà è ben diversa, o meglio, è il contrario di tutto ciò, dato che tutti dovevano ascoltare le parole del Battista e credergli (Cfr. Gv 1,7c).

In ebraico, uno dei vocaboli più usati per indicare il deserto è midbār, e il deserto è il “luogo della Parola” per eccellenza. Non a caso alcune volte si trova un gioco di parole rabbinico tra il deserto (midbār) e la parola (dābār), come ad indicare che il deserto è il luogo per eccellenza non soltanto per la parola in quanto tale ma anche per l’ascolto. Inoltre, è cosa buona precisare che dābār, all’origine, oltre che la parola stessa indicava il contenuto di una precisa parola, per cui si va nel cuore, nel significato di una parola, e ogni parola ha la sua importanza. Non solo, ma il deserto è il luogo della formazione del popolo d’Israele in cui Dio stesso opera (Cfr. Es 15,22; 16,8-13; 14-15), fino al deserto del Sinai (Cfr. Es 19,1). E con ciò siamo arrivanti al momento fondante del popolo d'Israele, della sua identità, ossia l’Alleanza sul Sinai (Cfr. Es 20).

Il deserto, per Israele, ha un valore teologico ed esistenziale fondante in cui Dio opera per la salvezza del suo popolo (Cfr. Nm 21)! Il deserto è il luogo dell’incontro con Dio (Cfr. Os 2,16). Nel Vangelo secondo Giovanni troviamo dei momenti, riguardanti il deserto nel tempo dell’esodo, che sono prefigurazioni del Cristo (Cfr. Gv 3,14; 4; 6,30-66).

Insomma, il Battista dice che nel deserto occorre preparare la via al Signore poiché il deserto è il luogo per eccellenza dell’incontro con Dio. Infatti, nel deserto, anche considerato solo geograficamente, è perfettamente udibile ogni parola. Pertanto, il Battista resterà sempre quella voce della verità di Dio contro ogni altra voce che si oppone, quella testimonianza della Luce contro ogni forma di tenebra (Cfr. Gv 1,7). Da ricordare il profondissimo momento dell'incontro tra la Vergine Maria ed Elisabetta (Lc 1,39-56), per il quale occorre uno spazio particolare. Ma occorre ricordare un altro dato, oggi notevolmente evidente: l'assenza di inviti alla "conversione". Tale assenza comporta uno svuotamento dell'importanza del Battesimo, e infatti è uno dei sacramenti meno capiti, nonostante sia il primo sacramento dell'iniziazione cristiana (Battesimo, Confermazione/Cresima ed Eucaristia/Comunione) mediante il quale viene conferita per la prima volta la "grazia santificante" e tutto ciò che tale grazia comporta, a partire da quella rigenerazione che ci fa "figli adottivi" di Dio e membra vive della Chiesa in quanto corpo di Cristo. 

Tanto ci sarebbe da scrivere e difficilmente si troverebbero le parole adatte per un santo come il Battista, per questo mi sento di concludere con le parole di quel cantico straordinario del padre del Battista, ossia Zaccaria:

 

« Benedetto il Signore, Dio d’Israele,

perché ha visitato e redento il suo popolo,

e ha suscitato una salvezza potente

nella casa di Davide, suo servo,

come aveva promesso

per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:

salvezza dai nostri nemici,

e dalle mani di quanti ci odiano.

Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri

e si è ricordato della sua santa alleanza,

del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre,

di concederci, liberati dalle mani dei nemici,

di servirlo senza timore, in santità e giustizia

al suo cospetto, per tutti i nostri giorni.

E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo

perché andrai davanti al Signore a preparargli le strade,

per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza

nella remissione dei suoi peccati.

Grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio,

per cui verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge,

per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre

e nell'ombra di morte,

e dirigere i nostri passi

 sulla via della pace » 

(Lc 1,68-79).





Gabriele Cianfrani

martedì 23 giugno 2020

IL TERMINE "EBREO"

giugno 23, 2020 Posted by Gabriele Cianfrani , No comments


Il temine «ebreo» ha radici molto profonde, che ovviamente si trovano nella Scrittura. In tal caso occorre rivolgere l’attenzione a un altro temine, fondante il primo, ossia ‘ibrī.

La parola ‘ibrī, da cui quella di ebreo, in ebraico si scrive עברי, e la lingua ebraica si legge da destra a sinistra. Ora, stando all'alfabeto ebraico avremo:

ע(ain) ב(bet) ר(resh) י(iod)

Stando ad accurati studi in merito, la prima traccia dell’origine della parola “ebreo” la si potrebbe trovare proprio nella Scrittura (la Bibbia), ossia in Gen 10,21, dove si legge: «Anche a Sem, fratello maggiore di Iafet e capostipite di tutti i figli di Eber, nacque una discendenza». Ora, il temine che ci interessa è ‘ibrī, il quale si trova nell’Antico Testamento in relazione ai figli d’Israele – e solo a loro – che si trovano in Egitto, come si può constatare in Gen 39, Es 10 e in altri passi. Il termine ‘ibrī, indicante appunto quello di “ebreo”, che troviamo in Gen 14,13 riguardante “Abramo l’Ebreo” e i suoi discendenti, potrebbe esser fatto risalire proprio al suo antenato “Eber” (Cfr. Gen 10,21-24; 11,14-15). Questo collegamento pone in luce la promessa fatta da Dio a Sem (Cfr. Gen 9,26-27) con la rivelazione ricevuta da Abramo. Tale lode (Gen 9,26-27) la si ritrova in Gen 14,19-20 che vede la figura di Melchìsedek.

Ma il temine ‘ibrī non gode di grande omogeneità, dacché alle volte è impiegato anche per indicare i non-israeliti. In tal caso è utile ricordare che il temine “israelita” deriva dall'appartenenza al popolo d’Israele (o “figli d’Israele”), il quale popolo è tale in quanto discende dai dodici figli di Israele, il cui nome divenne di Giacobbe in seguito alla lotta con un “essere soprannaturale”: Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!» (Gen 32,28-29).

Ma pur non godendo sempre di omogeneità, il termine ‘ibrī viene adoperato in contesti etnici, così come nel Nuovo Testamento il termine «Ebrei» indica la distinzione dei Giudei dai non-Giudei.

A prescindere da questi ultimi aspetti, che sicuramente meritano ulteriore approfondimento, il termine “ebreo” pone le sue radici in “Eber”, il quale discende da Sem. Ma da Sem discende non solo Eber ma anche Abramo, e infine Gesù di Nazareth (Cfr. Lc 3,23-38).