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lunedì 19 dicembre 2022

ET VERBUM CARO FACTUM EST, ET HABITAVIT IN NOBIS

 


Così si legge nel Vangelo secondo Giovanni (1,14), ossia che «il Verbo si fece carne/carne si fece, e venne ad abitare in noi», proprio quel Verbo, quel Lógos per mezzo del quale tutto fu fatto e senza di lui non fu fatto nulla di ciò che è stato fatto (1,3). Alcuni studi evidenziano che sarebbe meglio propendere per un’altra traduzione: «e il Lógos carne si fece e si accampò/si attendò fra noi» (Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν), e ciò con evidenti riferimenti alla «tenda» (σκηνή, skēné) di Es 33,7-11:

Mosè ad ogni tappa prendeva la tenda e la piantava fuori dell’accampamento, lontano dall’accampamento, e l’aveva chiamata tenda del convegno. Chiunque ricercava il Signore usciva verso la tenda del convegno, che era fuori dell’accampamento. Quando Mosè usciva verso la tenda, tutto il popolo si alzava e ognuno stava all’entrata della propria tenda e seguiva Mosè con lo sguardo finché entrava nella tenda. Quando Mosè entrava nella tenda, la colonna di nube scendeva e stava all’ingresso della tenda; ed Egli parlava a Mosè. Tutto il popolo vedeva la colonna di nube che stava all’entrata della tenda: tutto il popolo si alzava e ognuno si prostrava all’ingresso della propria tenda. Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con il suo vicino: poi tornava all’accampamento.

Il richiamo al passo biblico sopra riportato è di estrema importanza, dal momento che la «tenda» indicava la presenza di Dio, o meglio, la dimora di Dio in mezzo al popolo d’Israele nel deserto (cfr. anche Es 25-26). La colonna di nube è una chiara allusione alla presenza di Dio in quel momento, e non a caso il riferimento alla potenza dell’Altissimo che coprirà con la sua ombra la Beata Vergine si riscontra nell’annuncio dell’angelo celeste. L’autore del quarto Vangelo conosceva benissimo la Scrittura (a quel tempo la Legge e Profeti)[1], per cui bisogna considerare sempre questo dato. Infatti, se a quel tempo la dimora di Dio presso il popolo d’Israele era rappresentata dalla «tenda del convegno», con l’incarnazione del Lógos il salto è enorme: Dio è ormai presente in mezzo al suo popolo stabilmente, dal momento che ha assunto natura umana, ossia carne si fece.[2] Ciò è collegato, ovviamente, con il sacrificio sulla croce, che è lo scopo della venuta della seconda Persona della Santissima Trinità. Al riguardo, risulta particolarmente importante quanto è riportato nel Catechismo della Chiesa Cattolica, ossia il motivo dell’incarnazione del Verbo:

n. 456: con il Credo niceno-costantinopolitano rispondiamo confessando: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo»;

n. 457: il Verbo si è fatto carne per salvarci riconciliandoci con Dio: è Dio «che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10). «Il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo» (1Gv 4,14). «Egli è apparso per togliere i peccati» (1Gv 3,5);

n. 458: il Verbo si è fatto carne perché noi così conoscessimo l’amore di Dio: «In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita per lui» (1Gv 4,9). «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16);

n. 459: il Verbo si è fatto carne per essere nostro modello di santità: «Prendete il mio giogo su di voi e imparate da me…» (Mt 11,29). «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). E il Padre, sul monte della trasfigurazione, comanda: «Ascoltatelo» (Mc 9,7). In realtà, egli è il modello delle beatitudini e la norma della Legge nuova: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 15,12). Questo amore implica l’effettiva offerta di se stessi alla sua sequela;

n. 460: il Verbo si è fatto carne perché diventassimo «partecipi della natura divina» (2Pt 1,4): «Infatti, questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, Figlio dell’uomo: perché l’uomo, entrando in comunione con Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio»[3]; «Infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio»[4]; «Unigenitus […] Dei Filius, Suae divinitatis volens nos esse participes, naturam nostram assumpsit, ut homines deos faceret factus homo – L’unigenito […] Figlio di Dio, volendo che noi fossimo partecipi della sua divinità, assunse la nostra natura, affinché, fatto uomo, facesse gli uomini dei».[5]

Questi sono, in breve, i motivi che rispondono alla domanda: perché il Verbo si è fatto carne?

Ora, è chiaro che il riferimento principale è quello circa la salvezza degli uomini nella riconciliazione con Dio, ma la partecipazione alla natura divina, che meriterebbe di essere trattata in altra sede, ha la sua «fondamentale» importanza. Tuttavia, oltre ai peccati in genere, la questione che non può essere persa di vista è quella della colpa di origine, ossia del peccato originale. Infatti, intaccare la rivelazione sul peccato originale vuol dire attentare al mistero di Cristo.[6]

La conseguenza estrema del peccato originale – vi sarebbe da esporre in che modo l’uomo fu creato e in quale stato, per capire pienamente – è stata la «morte»:

Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità e lo ha fatto a immagine della propria natura; ma per invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza quanti sono del suo numero (Sap 2,23-24).

Non bisogna incorrere nell’errore di una sorta di immortalità naturale, poiché l’uomo, come ogni essere vivente sottoposto al movimento (generazione-corruzione) è mortale. L’immortalità – e ciò che ne sarebbe scaturito – era conferita nello stato di grazia da Dio stesso[7], il quale stato consentiva la perfetta armonia tra l’anima e il corpo (giustizia originale). Con la colpa d’origine questa armonia venne meno e la conseguenza più dura fu l’esperienza della morte, non solo fisica. Ora, per non andare nel sottile, sono chiare le parole di Cristo in riferimento alla morte e cosa questa abbia a che fare con la sua venuta:

Le dice Gesù: «Tuo fratello risorgerà». Gli risponde Marta: «So che risorgerà nella risurrezione all’ultimo giorno». Le disse Gesù: «Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se morisse, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai. Credi tu a ciò?». Gli dice: «Sì, Signore. Io ho creduto che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, quello che deve venire nel mondo» (Gv 11,23-27).

Il contesto è quello della risurrezione di Lazzaro. Ebbene, in ultimo, Cristo è venuto per ristabilire quella vita che è la piena comunione con Dio, l’accesso alla patria celeste, perso anzitutto col peccato d’origine e concesso nuovamente da Cristo stesso per mezzo del suo sacrificio. Al riguardo, è certamente illuminante quanto riportato nel Catechismo Romano (Tridentino):

n. 48: in realtà se tutti gli uomini muoiono nel primo [Adamo], tutti sono richiamati a vita nel secondo [Cristo]. E come Adamo è stato il padre del genere umano nell’ordine di natura, così Gesù Cristo è per tutti l’autore della grazia e della gloria (Rom. V,14). Parimente si può stabilire un’analogia fra la Vergine Madre, seconda Eva, e la prima […]. Avendo creduto alle lusinghe del serpente (Gen. III,6), Eva attirò sul genere umano la maledizione e la morte; avendo Maria creduto all’annuncio dell’angelo, fece sì che la bontà di Dio ridonasse agli uomini benedizione e vita. A causa di Eva nasciamo figli della collera (Efes. II,3); ma da Maria ricevemmo Gesù Cristo, per merito del quale siamo rigenerati come figli della grazia;

n.51: mentre mediteranno tutto ciò, i fedeli non dimenticheranno che Dio volle sottostare all’umile fragilità della nostra carne, affinché il genere umano fosse innalzato al più alto livello della dignità.

Questi testi sono molto chiari. Pertanto, il Lógos si è incarnato principalmente per ciò e continua ad essere presente per mezzo della Chiesa, suo corpo mistico. In che modo? Principalmente attraverso i «sacramenti» e soprattutto con la santa «Eucaristia».

Per concludere, le parole del Doctor Angelicus risultano alquanto limpide:

Benché il primo peccato del progenitore abbia infettato tutta la natura umana, questa al contrario non ha potuto essere riparata per la sua penitenza o per qualsiasi merito. È chiaro infatti che la penitenza di Adamo o qualsiasi altro suo merito fu un atto della persona singola; ora, l’atto di un individuo non ha alcuna influenza su tutta la natura della specie [umana]. […] Quindi il merito singolare di Adamo, o di qualsiasi altro puro uomo, non ha potuto essere sufficiente per reintegrare tutta la natura umana. Che poi per un atto singolo del primo uomo sia stata viziata tutta la natura umana avvenne per accidens, in quanto, privato lui dello stato di innocenza, [l’innocenza] non poteva attraverso di lui derivare negli altri. […] ora, la grazia non si acquista con i meriti, ma è concessa gratuitamente da Dio: perciò, come il primo uomo ebbe all’inizio la giustizia originale non per proprio merito, ma per un dono divino, così molto meno la poté meritare mediante la penitenza, o compiendo qualsiasi altra opera, dopo il peccato. […] Era dunque conveniente che Dio si facesse uomo, così che uno solo potesse nello stesso tempo riparare e soddisfare. Ed è questa la causa della divina incarnazione che viene indicata dall’Apostolo quando afferma: «Cristo Gesù è venuto in questo mondo per salvare i peccatori» [1Tm 1,9-11].[8]

Insomma, quello del Natale è senza dubbio un tempo di dolcezza, di vicinanza, di luce, di calore – anche se la stagione è quella invernale –, di regali ecc. Ma è bene ribadire che qualora mancasse il riferimento a Cristo, o meglio, «al» Cristo, tutto ciò non avrebbe alcun senso… Nemmeno uno. Con il Cristo e in riferimento a Lui, tutto raggiunge il senso ultimo. Pertanto, in questa novena di Natale, il mio augurio è che si possa certamente ritrovare l’unità e la pace, ma in Cristo, il quale dà la pace ma non come la dà il mondo, e che si riscopra la vita cristiana scaturita dai sacramenti, ultimamente così poco considerati e che invece sono il prolungamento di Cristo in mezzo a noi, in mezzo alla sua Chiesa.


Gabriele Cianfrani                          



[1] In merito alla «questione dell’autore» del quarto Vangelo vi sono diverse posizioni da parte di studiosi di notevole spessore (Martin Hengel, Raymond Edward Brown, Xavier Leon-Dufour, Rudolf Schnackenburg e altri), per cui non è possibile neanche accennare alla quesitone. La modesta opinione di chi scrive rimanda alla origine apostolica dei quattro Vangeli, da intendere come riporta la Dei Verbum: la Chiesa ha  sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i quattro Vangeli siano di origine apostolica. Infatti, ciò che gli Apostoli per mandato di Cristo predicarono, dopo, per ispirazione dello Spirito Santo, fu dagli stessi e da uomini della loro cerchia tramandato in scritti, come fondamento della fede, cioè l’Evangelo quadriforme, secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni (Conc. Vat. II, Dei Verbum; cfr. Ireneo di Lione, Adversus haereses, III, 11,8: PG 7,885). In questo estratto vi sono tantissimi elementi, ma che per evidenti motivi di estensione non è possibile sviluppare.

[2] Appare così in questa frase un’allusione all’antica Tenda dell’Incontro, dimora di Dio fra gli israeliti durante la loro peregrinazione per il deserto, nella prima epoca di Israele (Es 33,7-10), e rimpiazzata più tardi dal santuario di Gerusalemme (2Sam 7,1-13; 1Re 5,15-19; 6,1ss.). Quella presenza di Dio è ormai sostituita da questa: la tenda di Dio, il luogo dove egli abita in mezzo agli uomini, è un uomo, una «carne» (J.Mateos – J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni. Analisi linguistica e commento esegetico, Cittadella Editrice, Assisi 20165,p.63).

[3] Ireneo di Lione, Adversus haereses, III, 19,1: PG 7,939.

[4] Atanasio di Alessandria, De Incarnatione, 54,3: PG 25,192.

[5] Tommaso d’Aquino, Officium de festo corporis Christi, Ad Matutinas, In primo Nocturno, Lectio 1.

[6] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 389.

[7] È insegnamento ormai della Chiesa quello riguardante i doni preternaturali (integrità, immortalità, impassibilità, scienza infusa) e il dono soprannaturale (grazia santificante), come riportato nel Catechismo Maggiore di san Pio X, n. 57. L’armonia che vi fu in questo stato di grazia e la partecipazione alla vita divina è chiamata «santità originale» (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 375).

[8] Tommaso d’Aquino, Compendio di teologia, I, cc. 198-200.


mercoledì 29 giugno 2022

29 GIUGNO - SOLENNITA' DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

 



In questo giorno in cui si celebra la solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, due figure estremamente determinanti per la Chiesa, occorre riportare alcuni brani biblici che certamente esprimono tale grandezza.

 

«Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen» (2Tm 4,6-8.17-18).

 

Il brano è tratto dalla seconda lettera a Timoteo, la quale è definita da alcuni studiosi come deuterocanonica o discussa. Sebbene le lettere di san Paolo, ossia il «corpus paulinum», si trovi già nel «Canone Muratori/muratoriano» (sec. II d.C.), vi sono alcune lettere sulle quali sono condotti studi accurati per valutare una sorta di canonicità discussa e/o indiscussa. Dal momento che il canone biblico definitivo è stato stabilito nel Concilio di Trento (1545-1563), e tale canone è appunto normativo per il fedele, la ricerca biblica non può non continuare. Da ricordare il fatto che è la Tradizione divino apostolica ad illuminare sulla canonicità dei testi sacri, non una decisione arbitraria. Cos’è la Tradizione apostolica? Lo dice chiaramente la costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione, ossia la Dei Verbum:

«Cristo Signore […] ordinò agli Apostoli che l’Evangelo, prima promesso per mezzo dei Profeti e da Lui adempiuto e promulgato di persona, come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale lo predicassero a tutti, comunicando i doni divini. Ciò venne fedelmente eseguito, tanto dagli Apostoli, i quali nella predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalle labbra, dalla frequentazione e dalle opere di Cristo, sia ciò che avevano imparato per suggerimento dello Spirito Santo, quanto da quegli Apostoli e da uomini della loro cerchia, i quali, per ispirazione dello Spirito Santo, misero in scritto l’annunzio della salvezza. Gli Apostoli poi, affinché l’Evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono come loro successori i Vescovi, ad essi “affidando il loro proprio posto di maestri”. […] Pertanto, la predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva esser conservata con successione continua fino alla fine dei tempi» (nn. 7-8).

 

Ciò è estremamente importante, soprattutto perché questa «trasmissione» è anche liturgica, come attesta lo stesso san Paolo nel racconto dell’istituzione dell’Eucaristia: «Io ho ricevuto dal Signore quello che vi ho trasmesso: che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito […]» (1Cor 11,23).

 

Tornando alla seconda lettera a Timoteo – le due lettere a Timoteo e quella a Tito sono chiamate «lettere pastorali» –, si ritiene che risalga verso la fine dei giorni terreni dell’Apostolo, ossia durante la prigionia romana tra il 61 e il 63 d.C. San Paolo dice esplicitamente che ha conservato la fede (τὴν πίστιν τετήρηκα). Di quale fede sta parlando? Certamente si tratta di una fede non naturale, ma soprannaturale, quella chiameremmo «virtù teologale». Si tratta di fermezza nel credere, di uno stato di adesione (πίστις, che rimanda all’ebraico אמן), che in tal caso non è possibile senza l’aiuto di Dio. Ciò mostra che la fede deve essere vissuta, o meglio, vivere ciò che si crede mediante la fede, per cui occorre esercitarla e conservarla intatta. Ma ecco il passo importante, ossia il fatto che il Signore gli è stato vicino e gli ha dato forza. Sì, perché credere soprannaturalmente e combattere per ciò che si crede in tal modo, non risiede nelle sole forze umane, ma nell’aiuto divino. Questo esige una risposta, una collaborazione umana, dal momento che la «fede» in quanto tale consta dell’aspetto divino e dell’aspetto umano. Pertanto, non è possibile continuare con le solite espressioni, come del tipo: «beato te che credi; beato te che hai la fede…». Cioè?

Circa la fede intesa anche biblicamente si può cliccare qui.

Ci sarebbe tanto altro da scrivere, bisogna fare il collegamento con un altro brano biblico, che vede come protagonista san Pietro:

 

«Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarèa di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?” Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Voi chi dite che io sia?”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,13-19).

 

Tale brano è fondamentale dal punto di vista ecclesiastico e ci sarebbero tantissime cose da scrivere al riguardo, cosa che sarà fatta doverosamente in altra sede, ma per il momento occorre sottolineare il tratto di continuità col brano precedente. In tal caso, alla domanda che Gesù rivolge a tutti i discepoli, solo san Pietro risponde, e lo fa correttamente. La riposta di san Pietro non deriva dalle forze umane, ma da quella divina che lo ha portato ad affermare che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Riconoscere Gesù come il Cristo, ossia come il Messia, aveva una portata immensa per quel tempo. La parola greca Χριστὸς traduce l’ebraico משיח, che vuol dire «unto», ma che in questo caso sta ad indicare «l’Unto» del Signore per eccellenza. Dal momento che san Pietro ha riconosciuto Gesù come l’Unto per eccellenza, lo ha riconosciuto come il Messia. Non solo, in quanto ciò non lo ha fatto da sé, ma in seguito alla rivelazione del Padre che sta nei cieli. Poiché la «fede» opera sulla potenza intellettiva, così da poter condurre l’intelletto umano a conoscere e a credere ciò che lo supera, la rivelazione del Padre ha permesso a san Pietro di conoscere soprannaturalmente, in modo tale da riconoscere in Gesù il Messia, il Cristo, l’Unto di Dio. Ciò che è importante, e san Pietro lo testimonia, è che la fede soprannaturale derivante dalla grazia suppone la natura umana, non si sostituisce ad essa né l’annulla.

Pure in questo caso traspare il doppio aspetto della «fede»: divino e umano (et-et), così come precisamente riporta il Catechismo della Chiesa Cattolica:

Quando san Pietro confessa che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente, Gesù gli dice: «Né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (Mt 16,17). La fede è un dono di Dio, una virtù soprannaturale da lui infusa. «Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre, e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muove il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia “a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità”» (n. 153). È impossibile credere senza la grazia e gli aiuti interiori dello Spirito Santo. Non è però meno vero che credere è un atto autenticamente umano. Non è contrario né alla libertà né all’intelligenza dell’uomo far credito a Dio e aderire alle verità da lui rivelate. Anche nelle relazioni umane non è contrario alla nostra dignità credere a ciò che altre persone ci dicono di sé e delle loro intenzioni, e far credito alle loro promesse […]. Nella fede, l’intelligenza e la volontà umane cooperano con la grazia divina (nn. 154-155).

 

Tutto ciò è enormemente espresso nei santi Apostoli Pietro e Paolo, vere e proprie colonne portanti della Chiesa di Dio.



Gabriele Cianfrani 

domenica 29 maggio 2022

ASCENSIONE DEL SIGNORE

 


«Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto».
Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio (Lc 24,46-53).

 

Questo passo del Vangelo secondo Luca riporta chiaramente che il Cristo sarebbe andato incontro alla sua passione, morte e resurrezione, dal momento che il motivo principale dell’incarnazione del Verbo è stata la redenzione («Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo», dal Credo niceno-costantinopolitano). In tal caso i frutti della redenzione vanno oltre il «riacquisto», il «riscatto» dalla schiavitù del peccato («propter nostram salutem»). Circa i «quaranta» giorni trascorsi dall’evento pasquale all’ascensione, si rimanda ad un articolo precedente (qui).

 

Cosa vuol dire «ascendere»? A questa domanda risponde direttamente l’Apostolo delle Genti:

Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose.

Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all'uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo. Così non saremo più fanciulli in balìa delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ingannati dagli uomini con quella astuzia che trascina all'errore. Al contrario, agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo. Da lui tutto il corpo, ben compaginato e connesso, con la collaborazione di ogni giuntura, secondo l'energia propria di ogni membro, cresce in modo da edificare se stesso nella carità (Ef 4,9-16).

 

È chiaro che l’ascensione del Cristo sia legata al fatto che Egli sia prima disceso (l’incarnazione del Verbo), altrimenti non si potrebbe parlare propriamente di «ascensione». Inoltre, traspare che l’ascensione rientra nel progetto salvifico:

«[…] Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10,17-18).

 

Due osservazioni:

1. il passo del Vangelo secondo Luca riportato sopra è la conclusione del medesimo, in cui si legge che gli Undici e gli altri che erano con loro (Lc 24,33), dopo che Gesù spiegò quanto riportato nella Scrittura e dopo la sua ascensione, tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio (Lc 24,52). Emerge l’importanza della dimensione ecclesiale, l’importanza della Chiesa, come riportato anche dall’Apostolo in riferimento al corpo di Cristo (Cfr. 1Cor 12,12-31; Ef 4,9-16). A ragione Papa Benedetto XVI afferma che il rapporto tra Cristo, Parola del Padre, e la Chiesa non può essere compreso nei termini di un evento semplicemente passato, ma si tratta di una relazione vitale in cui ciascun fedele è chiamato ad entrare personalmente (Benedetto XVI, Verbum Domini, n. 51). Non solo, poiché vi è l’importanza anche dell’aspetto liturgico: considerando la Chiesa come «casa della Parola», si deve innanzitutto porre attenzione alla sacra liturgia. È questo infatti l’ambito privilegiato in cui Dio parla a noi nel presente della nostra vita, parla oggi al suo popolo, che ascolta e risponde. Ogni azione liturgica è per sua natura intrisa di sacra Scrittura (Ibid., n. 52). Proprio con quella gioia degli Undici e degli altri che erano con loro si dovrebbe predicare il Vangelo, ma quella vera, che non esclude difficoltà e sofferenze. Non a caso Papa Francesco, riprendendo un passo di Papa Benedetto XVI, afferma quanto sia importante l’«attrazione» della Chiesa e non il proselitismo (Cfr. Francesco, Evangelii gaudium, n. 14);

2. l’incarnazione del Verbo è stato un evento irreversibile, per cui la natura umana assunta dal Verbo resterà sempre «assunta». Questo vuol dire che il Cristo è asceso anche con la natura umana definitivamente assunta mediante l’unione ipostatica (unione secondo la Persona del Verbo), che comporta un vero innalzamento della stessa. Per questo il «propter nostram salutem» ha valore di totalità, poiché non riguarda solo un aspetto della nostra salute, della nostra salvezza, ma tutta la salvezza. Non a caso con l’incarnazione il Verbo ha assunto tutta la natura umana, Egli è vero Dio e vero uomo, non solo una parte della natura umana, ma tutta, nella sua integrità.

 

Ecco alcune parole del Doctor Angelicus (san Tommaso d’Aquino), riportate nel suo Compendio di teologia:

E con ciò si deve intendere che Egli discese dal cielo assumendo la natura terrena in modo da rimanere sempre nel cielo. E da ciò si può anche concludere che solo Cristo ascese al cielo per virtù propria. Infatti quel luogo era dovuto a colui che era disceso dal cielo a motivo della sua origine; gli altri invece non possono salire al cielo con le proprie forze, ma per la potenza di Cristo, una volta divenuti sue membra. E come ascendere al cielo conviene al Figlio di Dio secondo la natura umana, così si aggiunge un’altra cosa che conviene a lui secondo la natura divina, e cioè il sedersi alla destra del Padre. […] Si deve intendere che il Figlio si siede accanto al Padre non come inferiore a lui, ma come colui che è del tutto uguale a lui secondo la natura divina (Tommaso d’Aquino, Compendio di teologia, I, c. 240).

 


Gabriele Cianfrani 


sabato 1 gennaio 2022

MARIA SS. MADRE DI DIO


 

La «maternità divina di Maria» (in greco Θεοτόκος, da Θεός e τόκος, a sua volta dal tema τοκ di τίκτω, ossia «genero») è considerata la verità principale in merito alla Vergine, oltre ad essere il primo dogma mariano e quello fondante. Al riguardo, sarebbe opportuno chiedersi come mai la Vergine Maria possa essere chiamata «Madre di Dio». Infatti, il tutto rimanda all’incarnazione del Verbo nel grembo di Maria, fondamentale in ambito cristologico e soteriologico (riguardante la salvezza).

Occorre un trampolino di lancio per riportare alcuni tra i dati più importanti sulla «maternità divina di Maria», e le parole del Sommo Poeta (Dante Alighieri) costituiscono un trampolino perfetto:

 

«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,

umile e alta più che creatura,

termine fisso d’etterno consiglio,

 

tu se’ colei che l’umana natura

nobilitasti sì, che ‘l suo fattore

non disdegnò di farsi sua fattura.

 

Nel ventre tuo si raccese l’amore,

per lo cui caldo ne l’etterna pace

così è germinato questo fiore»

 

(Paradiso, canto XXXIII, vv. 1-9)

 

Il primo dogma mariano, ossia quello della Θεοτόκος, fu stabilito al concilio di Efeso nell’anno 431 d.C. Un momento importante fu quello che vide coinvolti il patriarca di Costantinopoli Nestorio (386 – 451 d.C.) e il patriarca di Alessandria d’Egitto Cirillo (370 ca. – 444 d.C). In base all’unione delle due nature in Cristo (divina e umana), Nestorio propendeva per una posizione talmente marcata da considerare in Cristo due persone. Del resto, Maria ha generato l’umanità di Cristo e non la sua divinità, per cui sembra che tutto sia corretto. Eppure vi è un aspetto molto importante, o meglio, fondamentale: l’«unione ipostatica» del Verbo. Sarà questa la posizione di Cirillo di Alessandria, seppure con una terminologia che richiede attenzione e per la quale si ritiene opportuno rimandare ad un prossimo articolo, così da riportare tutto in modo abbastanza puntuale.

Con l’espressione «unione ipostatica» si rimanda al tema dell’incarnazione del Verbo, maggiormente al modo attraverso cui vi è stata l’unione delle due nature in Cristo. Ciò è avvenuto mediante l’assunzione della natura umana da parte della Persona del Verbo («ipostasi» viene dal greco, in latino «persona»). Vi è un’unica Persona, ossia quella eterna del Verbo, che dopo l’incarnazione presenta due nature, quella divina e quella umana, ma il Soggetto è uno e la natura umana sussiste nella Persona del Verbo. Per quanto riguarda la natura divina, questa coincide con la stessa Persona del Verbo per via della «semplicità» in Dio, in cui non vi è composizione ontologica, ma solo distinzione di relazione con il Padre e lo Spirito Santo, per cui in Dio la relazione è sussistente, in noi no.

Per quanto riguarda la natura umana, il Verbo carne divenne (Gv 1,14) assumendola, facendo sì che il Soggetto della natura umana sia non una persona umana ma la stessa Persona del Verbo. In poche parole, attribuire un’ipostasi alla natura umana di Cristo equivale ad attribuirle una persona propria, una sussistenza propria. Semmai si attribuisse ciò, allora in Cristo si troverebbero due persone con due sussistenze proprie, ma ciò costituisce appunto l’«eresia nestoriana». Tale eresia, che ha come esponente Nestorio, prevede l’unione di due persone in Cristo e non l’unione di due nature nell’unico Soggetto del Verbo incarnato. Da ciò deriva la posizione, da parte di Nestorio, di non chiamare Maria Θεοτόκος ma Χριστοτόκος, per cui non «Madre di Dio» ma «Madre di Cristo», madre della persona umana e non della Persona divina.

Occorre precisare che a quel tempo tanti termini e tante ricerche che per noi oggi sono note e che abbiamo a portata di mano non godevano di tanta chiarezza, nel V secolo d.C. non tutto era così lampante. Inoltre, se ancora oggi vi sono dei passaggi che risultano difficili, figuriamoci a quel tempo. Come ho scritto, vi è da porre attenzione all’uso di parole che furono adoperate in questa ricerca, alcune delle quali trovarono corretto impiego successivamente.

Ora, la Scrittura riporta che il Verbo è venuto nella carne (Cfr. Gv 1,14; 1Gv 4,2) e che si tratta del Figlio di Dio nato da donna (Cfr. Gal 4,4; Lc 1,31-35). Senza contare le parole con le quali Elisabetta saluta Maria, che non lasciano dubbi: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?» (Lc 1,42-43). Pertanto, non solo compare il titolo di «Signore», riservato solo a Dio, ma Elisabetta saluta Maria come «Madre del suo Signore», ossia come «Madre di Dio». Sono dati della Scrittura abbastanza eloquenti, ma che consentono e richiedono di capire perché Maria non è solo madre della natura umana di Cristo ma Madre di Dio.

A questo punto vi è quel documento fondamentale del Papa san Leone Magno (390 ca. – 461 d.C) dal titolo Tomus ad Flavianum, ed è il documento imprescindibile per la comprensione del primo dogma mariano proclamato ad Efeso. In tale documento è riportata una base dottrinale fondamentale, quella della «communicatio idiomatum», vale a dire la «comunicazione degli idiomi (proprietà)». Perciò, «il Soggetto dell’unione (ipostatica) è il Verbo eterno e ciascuna delle nature compie ciò che le è proprio, restando in comunione con l’altra». Il tutto scaturisce proprio dall’Incarnazione. L’unità in Cristo, che consta di aspetti umani e divini, si devono affermare del medesimo Soggetto: il Verbo incarnato. A questo punto, per il fatto che la natura umana è stata assunta dal Verbo e Maria ha concepito e partorito non una natura umana qualsiasi, ma quella unita ipostaticamente al Verbo, allora Maria è «Madre di Dio», a maggior ragione del fatto che le proprietà delle due nature (umana e divina) hanno come Soggetto il Verbo incarnato, la Persona del Figlio unigenito di Dio.

Per concludere questa breve esposizione, non possono mancare le parole del Doctor Angelicus:

Se poi qualcuno volesse dire che la Beata Vergine non deve essere detta Madre di Dio perché da lei non è stata assunta la divinità ma soltanto l’umanità, come diceva Nestorio, costui manifestamente non sa quel che dice. Infatti una donna è detta madre di qualcuno non per il fatto che tutto ciò che è in lui è preso da lei. L’uomo infatti è formato di anima e di corpo, ed è tale più a motivo dell’anima che del corpo; ora, di nessun uomo l’anima viene presa dalla madre, ma o è creata immediatamente da Dio, come accade effettivamente, oppure, se derivasse per trasmissione come insegnarono alcuni, non verrebbe trasmessa dalla madre, ma piuttosto dal padre, perché nella generazione degli altri animali, secondo la dottrina dei filosofi, il maschio dà l’anima e la femmina invece il corpo. Come dunque di ogni uomo è detta madre quella donna dalla quale è assunto il corpo, così deve essere della Madre di Dio la Beata Vergine Maria dal momento che il corpo da lei assunto è il corpo di Dio. E bisogna dire che è il corpo di Dio, dato che viene assunto nell’unità della persona del Figlio di Dio, che è vero Dio. Quindi coloro che confessano che la natura umana è stata assunta dal Figlio di Dio nell’unità della persona, devono necessariamente affermare che la Beata Vergine Maria è la Madre di Dio (Tommaso d’Aquino, Compendio di teologia, I, c. 222).

 

 

Gabriele Cianfrani


sabato 14 agosto 2021

15 AGOSTO - GLORIFICAZIONE DI MARIA ASSUNTA IN CIELO


 

Il sensus fidei gode di grande importanza nel Magistero della Chiesa, dacché rimanda alla infallibilitas in credendo, l’altra è l’infallibilitas in docendo, che si esercita mediante l’ordinazione nel grado episcopale, in particolari momenti. Argomenti importanti e interessanti, ma che meritano di essere trattati in altra sede.

In che modo si potrebbe definire l’infallibilitas in credendo? A questo punto converrebbe seguire le parole della Lumen gentium (Costituzione dogmatica sulla Chiesa del Concilio Vaticano II):

 

L’universalità dei fedeli che tengono l’unzione dello Spirito Santo (cfr. 1Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il soprannaturale senso della fede di tutto il popolo, quando «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici» mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità il Popolo di Dio, sotto la guida del sacro magistero, al quale fedelmente conformandosi accoglie non la parola degli uomini, ma qual è in realtà, la parola di Dio (cfr. 1Ts 2,13), aderisce indefettibilmente alla fede una volta trasmessa ai santi (cfr. Gd 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita (n. 12).

 

Tale passo riporta chiaramente ciò che concerne il sensus fidei, ossia l’universalità dei fedeli che non può sbagliarsi nel credere fermamente cose di fede e morale. Infatti, sia la Bolla Ineffabilis Deus di Papa Pio IX, mediante la quale viene proclamato il dogma della «Immacolata concezione di Maria» (1854), sia la Munificentissimus Deus di Papa Pio XII, mediante la quale viene proclamata la «glorificazione di Maria con l’assunzione in Cielo in anima e corpo» (1950), presentano evidente riferimento al sensus fidei.

Nella Bolla troviamo:

Infatti si videro non solo singoli fedeli, ma anche rappresentanti di nazioni o di province ecclesiastiche e anzi non pochi padri del concilio Vaticano chiedere con vive istanze all'apostolica sede questa definizione.

In seguito queste petizioni e voti non solo non diminuirono, ma aumentarono di giorno in giorno per numero ed insistenza. Infatti per questo scopo furono promosse crociate di preghiere; molti ed esimi teologi intensificarono i loro studi su questo soggetto, sia in privato, sia nei pubblici atenei ecclesiastici e nelle altre scuole destinate all'insegnamento delle sacre discipline; in molte parti dell'orbe cattolico furono tenuti congressi mariani sia nazionali sia internazionali. Tutti questi studi e ricerche posero in maggiore luce che nel deposito della fede affidato alla chiesa era contenuto anche il dogma dell'assunzione di Maria vergine al cielo; e generalmente ne seguirono petizioni con cui si chiedeva instantemente a questa sede apostolica che questa verità fosse solennemente definita.

In questa pia gara i fedeli furono mirabilmente uniti coi loro pastori, i quali in numero veramente imponente rivolsero simili petizioni a questa Cattedra di S. Pietro. Perciò quando fummo elevati al trono del sommo pontificato erano state già presentate a questa sede apostolica molte migliaia di tali suppliche da ogni parte della terra e da ogni classe di persone: dai nostri diletti figli cardinali del sacro collegio, dai venerabili fratelli arcivescovi e vescovi, dalle diocesi e dalle parrocchie. […] Questo «singolare consenso, dell'episcopato cattolico e dei fedeli», nel ritenere definibile, come dogma di fede, l'assunzione corporea al cielo della Madre di Dio, presentandoci il concorde insegnamento del magistero ordinario della chiesa e la fede concorde del popolo cristiano, da esso sostenuta e diretta, da se stesso manifesta in modo certo e infallibile che tale privilegio è verità rivelata da Dio e contenuta in quel divino deposito che Cristo affidò alla sua Sposa, perché lo custodisse fedelmente e infallibilmente lo dichiarasse.

 

Non a caso il discorso in merito alla assunzione di Maria in Cielo in anima e corpo, nonostante la definizione vi sia stata sotto Pio XII nel 1950, è alquanto remoto, come traspare anche in san Gregorio di Tours († 594) e nell’insegnamento di molti teologi, ma con fondamento nella Scrittura.

Non si accennerà alle posizioni, consolidate nel tempo, circa il modo in cui vi fu l’assunzione. Magari in un prossimo articolo.

È chiaro che tale dogma – sono quattro i dogmi mariani – deve essere ricollegato al precedente, ossia a quello della «Immacolata concezione di Maria» proclamato da Pio IX, come al secondo dogma, quello riguardante Maria come «sempre vergine», risalente al concilio di Calcedonia (451 d. C.) e al concilio di Costantinopoli II (553 d. C.). Ma occorre fare riferimento sempre a quel primo dogma mariano, ossia a quello riguardante Maria come «Madre di Dio» (Θεοτόκος), risalente al concilio di Efeso (431 d. C.). Il primo dogma mariano è fondamentale, per cui è doveroso scrivere al riguardo ma in altra sede.

Per concludere, la definizione solenne è contenuta nel seguente passo della Munificentissimus Deus:

 

«Pertanto, dopo avere innalzato ancora a Dio supplici istanze, e avere invocato la luce dello Spirito di Verità, a gloria di Dio onnipotente, che ha riversato in Maria vergine la sua speciale benevolenza a onore del suo Figlio, Re immortale dei secoli e vincitore del peccato e della morte, a maggior gloria della sua augusta Madre e a gioia ed esultanza di tutta la chiesa, per l'autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei santi apostoli Pietro e Paolo e Nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo essere dogma da Dio rivelato che: l'immacolata Madre di Dio sempre vergine

Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo».

 

Chi volesse leggere il testo completo, cosa che si consiglia vivamente, potrebbe farlo cliccando qui!

 

 

 


Gabriele Cianfrani


domenica 4 luglio 2021

SERVITORE DEL MONDO O SERVITORE DI DIO: IN CHE MODO?



Una riflessione cristiana in merito a un tema ricorrente.

A volte si prende consapevolezza di alcune posizioni che pare presentino delle imprecisioni. Vorrei concentrarmi su queste «imprecisioni» che non credo possano passare inosservate… e nemmeno innocue, col rischio di risultare anche un po' pungente.

Il problema risiederebbe in alcune posizioni che pare esprimano una sorta di opposizione forte, che sfocerebbe nella esclusione: o si sceglie la vita laicale, e con ciò non sarà possibile servire Dio come si deve, o si sceglie una vita da religioso, una vita da suora, e allora sarà possibile servire Dio come si deve e chi ricevesse il sacramento dell’Ordine (sacerdozio ministeriale) lo servirebbe ancora meglio… Il problema non risiede affatto nella scelta in sé, ma come questa viene presentata, quasi a voler far trapelare che «o» si sceglie in un modo «o» in un altro modo, con la differenza che uno dei due modi va bene mentre l’altro va meno bene. Una esclusione tale che, in altri termini, conduce il pensiero ad un velato aut-aut, ma questo rimanderebbe ad altre e precise considerazioni. In questo caso la vita laicale non avrebbe poi così tanta importanza, e discorso a parte meriterebbe la parola «laico» – da λαός (popolo) –, il cui significato discosta evidentemente da quello che ultimamente viene attribuito a tale parola, con forte senso di opposizione, da cui spesse volte l’espressione: «non sono cattolico ma laico». E allora? Cosa vuol dire?

Vale la pena tornare sul tema, anche perché si chiamerebbe in campo quel «sacerdozio comune» dei fedeli del quale non pare se ne senta parlare tanto. Certamente vi sarebbe da fare un discorso che tocchi anche alcuni punti di storia della Chiesa, ma con approccio storico, comprese le contestualizzazioni e senza prendere un po' di qua e un po' di là per poi suturare il tutto, anche perché verrebbe fuori una sutura inesatta, per poi attendere inevitabilmente la guarigione per seconda intenzione (espressione in ambito chirurgico).

Comunque verrebbe da chiedersi per quale motivo vi sono posizioni che propendono quasi per una separazione tra il «sacerdozio ministeriale» e il «sacerdozio comune», e ancor peggio quasi escludendo il secondo. In altre parole, l’attenzione non riguarda la cosa in sé, ma ciò a cui una persona è chiamata. Insomma, entriamo nel campo della «vocazione» – non è da intendere esclusivamente con il solito prendere i voti, dato che il discorso è molto più ampio –, che non è uguale per tutti e non è possibile pretendere che lo sia! È un tema abbastanza delicato che meriterebbe di essere trattato accuratamente. Dunque il problema non riguarda affatto la scelta in sé di una persona – e ci mancherebbe! –, ma come questa scelta viene presentata, quasi che la vita laicale fosse insufficiente per il cammino cristiano verso la santità. Ciò riguarda alcuni mezzi di comunicazione, attraverso i quali pervengono informazioni alquanto scorrette. Magari non rientrerà nella intenzione della comunicazione, e allora questa dovrebbe considerare meglio alcuni aspetti certamente rilevanti, in modo tale da evitare anche di distorcere la testimonianza di una persona. Alcune parole dell’Apostolo: A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo (Ef 4,7); Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato (Rm 7,24). Con questo passo di san Paolo mi collego alla esortazione apostolica postsinodale Christifideles laici di san Giovanni Paolo II, la quale risulta illuminante in merito al tema dei laici «nella Chiesa e nel mondo». Nel documento si legge: i fedeli laici sono chiamati in particolare a ridare alla creazione tutto il suo originario valore. […] La partecipazione dei fedeli laici al triplice ufficio di Cristo sacerdote, profeta e re trova la sua radice prima nell’unzione del Battesimo, il suo sviluppo nella Confermazione e il suo compimento e sostegno dinamico nell’Eucaristia (n. 14). Ed ecco che quella sorta di opposizione a modo di esclusione che traspare da alcune posizioni non ha motivo di esistere: la comune dignità battesimale assume nel fedele laico una modalità che lo distingue, senza però separarlo, dal presbitero, dal religioso e dalla religiosa (n. 15). Il testo precisa che il fedele laico non è separato, ma è comunque distinto dal presbitero, dal religioso e dalla religiosa. Tale precisazione è importante per non gettare tutto nel calderone per poi sostenere alcune posizioni aventi come fondo l’indistinzione più assoluta. Ciò non sarebbe reale dacché vi sono delle distinzioni che sono da riconoscere e da rispettare – traspare già dal passo riguardante Abramo e Melchìsedek (Cfr. Gen 14,19-20) –, ma senza separazione. Vi è diversità di ministeri ma unità di missione. I fedeli sono chiamati ad attuare, secondo la condizione propria di ciascuno, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo (CIC, can. 204, § 1). Inoltre, il testo della Christifideles laici si esprime anche in merito alla «dignità battesimale», che molto spesso pare si trovi nel dimenticatoio, col risultato di un vero e proprio prorompere di espressioni e posizioni del tutto avulse da quel che sarebbe il loro contesto. Pertanto, sia il sacerdozio ministeriale sia il sacerdozio comune di tutti i fedeli, ognuno a suo proprio modo, partecipano all’unico sacerdozio di Cristo, pur con differenze essenziali, che ci sono e vanno riconosciute e rispettate. Per cui non è possibile neanche ascoltare interventi del tipo: «quel prete ha sbagliato, se la vedrà dall’altra parte» e altri che non riporto. Anzitutto, se un prete sbaglia, ciò non riguarda lui soltanto ma l’intero Popolo di Dio, laici compresi, e bisognerebbe far sì che si rimedi a quello sbaglio, senza assumere comportamenti isolati sulla base della falsa separazione tra il sacerdozio ministeriale e quello comune. Lo stesso vale per il prete, per cui se alcuni fedeli laici commettono degli errori, non è possibile far finta di nulla.

Il titolo «servitore del mondo o servitore di Dio: in che modo?», per essere sinceri, interpella sia il sacerdozio ministeriale sia quello comune, poiché si pone sul piano del «fine». Scambiare il mezzo per il fine può riguardare entrambe le parti.

Insomma, si tratta di prendere maggiore consapevolezza della nozione di «Corpus Mysticum Christi», in cui vi è distinzione ma non separazione.

Si potrebbe continuare ulteriormente, ma a questo punto si rimanda ad alcuni documenti sul tema (per es. la Lumen gentium del Concilio Vaticano II). Inoltre, tra i sacramenti abbiamo anche il Matrimonio, il quale presenta un dato singolare: i «ministri» di tale sacramento sono gli sposi, che mediante il «consenso» fanno sì che si costituisca il Matrimonio. Ovviamente un consenso libero e senza impedimenti (Cfr. CCC, n. 1625). Il sacerdote accoglie il consenso degli sposi a nome della Chiesa e dà la benedizione della Chiesa, esprime visibilmente che il Matrimonio è una realtà ecclesiale (Cfr. Ibid., n. 1630) e gode di unità e di indissolubilità. Conosco tanti laici che sono eccellenti, persone squisite e impegnate su tanti fronti e con qualità eccelse, così come conosco sacerdoti ministeriali eccellenti e religiosi e religiose – e non solo – impregnate di quella caritas cristiana di cui parla san Paolo (Cfr. 1Cor 13,1-13). Purtroppo anche la parola «carità» è quasi diventata un modo di dire, perdendo il senso profondo dell’agape, dell’amore di dilezione, che è il solo amore che guarda al valore «intrinseco» della persona in quanto tale. Pertanto, credo sia opportuno porre in luce proprio quella «dignità battesimale», dalla quale inizia la vita cristiana. Inoltre, dopo tante cose che son state dette ultimamente proprio sul sacramento del Battesimo – per l’ennesima volta –, forse sarebbe il caso di esprimersi con termini più opportuni qualora ci si addentrasse nell’argomento.

Ci sarebbe tanto da dire – in questo caso ‘da scrivere’ –, ma credo che il messaggio si possa cogliere facilmente.

La «caritas» cristiana, questa sì che ha la sua vera esclusività… e non esclude affatto!

 

 

Gabriele Cianfrani


mercoledì 19 maggio 2021

LA CHIESA: CONVOCAZIONE DI DIO O SEMPLICE RADUNO DI UOMINI?

maggio 19, 2021 Posted by Gabriele Cianfrani , , , , No comments



Stando al meraviglioso teso evangelico di ieri, ossia della ventunesima Domenica del Tempo Ordinario - articolo già scritto il 24 agosto 2020 e qui ripubblicato -, ciò che vi è contenuto è estremamente profondo e vasto, infatti il testo è quello di Mt 16,13-20, che viene solitamente definito come il «primato di Pietro». Ora, tra i tanti punti contenuti, ve n’è uno molto importante che risponde ad una domanda altrettanto importante: cos’è la Chiesa? La risposta a questa domanda la si può trovare benissimo in questo brano del Vangelo secondo Matteo. Per cui si cercherà, senza dilungamenti, di rispondere a tale domanda considerando il testo evangelico.

In latino, poiché rende meglio, il passo riguardante l’edificazione della Chiesa su san Pietro è il seguente: Et ego dico tibi, quia tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam, et portae inferi non praevalebunt adversus eam (Mt 16,18). Dal testo latino si pone l’accento su quell’«ecclesiam (meam)», infatti, la derivazione è dal greco «ἐκκλησία» (ekklēsía), che deriva dal verbo greco «καλέω» che significa «chiamare». Ora, nella Bibbia dei LXX (versione greca della Bibbia), si riscontra che il termine greco «ekklēsía» traduce l’ebraico «קהל» (qahal), mentre il greco «συναγωγή» traduce l’ebraico «עֵדָה‎» (‘edah). Ci si chiederà quale sia la differenza. Ebbene la differenza è che «synagoge» esprime una sorta di passività, ossia una semplice assemblea, un raduno; «ekklēsía» esprime più attività, ossia una convocazione, una assemblea ma sorta per chiamata. In tal caso, poiché il termine «Chiesa» viene dal greco «ekklēsía», il quale traduce l’ebraico «qahal» ed esprime attività della chiamata, la Chiesa è soprattutto la «chiamata di Dio», la «convocazione da parte di Dio» e non un semplice raduno di uomini. In ciò si comprende che il fondamento ultimo della Chiesa è Dio stesso poiché la chiamata è da parte di Dio. Certamente la roccia sulla quale il Cristo edificherà la Chiesa sarà quella di Pietro, ma la Chiesa in quanto tale è opera di Dio – Gesù è pienamente uomo e pienamente Dio, poiché è il Verbo eterno incarnato –, infatti Gesù dice che edificherà la «sua» Chiesa. Ed è per questo che la Chiesa non dipende, in ultima istanza, dagli uomini, ma da Dio stesso. Pietro prenderà in mano il timone, ma di una Chiesa che non è sua, ma di Dio. 

A questo punto vi è lo spunto per quel che riguarda la «santità» della Chiesa, ossia come può dirsi santa se ancora si commette peccato. Ma la risposta è che alla santità occorre non solo che si risponda ma che si corrisponda. A quale santità? A quella a cui siamo stati chiamati col santo Battesimo, il quale rigenera la persona umana nelle profondità della sua natura, intrinsecamente. Pertanto, nonostante il peccato venga commesso – questo è un tema molto importante, ma che non è possibile sviluppare adesso –, la Chiesa può dirsi «santa» in quanto non è l’uomo ad averla convocata, ma Dio. E Dio è santo, o meglio, è il Santo! Per cui il fondamento ultimo è sempre Dio. La Chiesa, nonostante sia chiamata anche a purificarsi nel tempo, tale purificazione è in vista del raggiungimento della santità totale, del compimento della santità. Ma ciò che deve giungere come messaggio, è che la Chiesa non ha origini umane ma divine, dacché è la convocazione di Dio, è la Chiesa di Dio.


Gabriele Cianfrani


PS. Articolo già pubblicato in https://bussolaculturale.it/la-chiesa-convocazione-di-dio-o-semplice-raduno-di-uomini-a-cura-di-gabriele-cianfrani/