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sabato 8 aprile 2023

DESCENDIT AD INFERI: IL SABATO SANTO


Nel Triduo pasquale, a volte, si pone attenzione quasi esclusivamente al Venerdì santo e alla Domenica di resurrezione, ma il Sabato santo risulta quasi una sorta di vuoto, una semplice attesa della Domenica (il giorno dopo il sabato). In realtà il Sabato santo è un giorno fondamentale del Triduo pasquale, anzi, è proprio nel Sabato santo che avviene quello sconvolgimento atteso da secoli e secoli. Quando il Simbolo apostolico riporta «discéndit ad inferi» (discese agli inferi), il riferimento è ad una realtà ben precisa. Infatti, nell’ Ufficio delle Letture di oggi, è riportata un’antica «Omelia sul Sabato santo»:

Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi. Certo egli va a cercare il primo padre, come la pecorella smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell’ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva che si trovano in prigione. Il Signore entrò da loro portando le armi vittoriose della croce. Appena Adamo, il progenitore, lo vide, percuotendosi il petto per la meraviglia, gridò a tutti e disse: «Sia con tutti il mio Signore». E Cristo rispondendo disse ad Adamo: «E con il tuo spirito». E, presolo per mano, lo scosse, dicendo: «Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà. […] Sorgi, allontaniamoci di qui. Il nemico ti fece uscire dalla terra del paradiso. Io invece non ti rimetto più in quel giardino, ma ti colloco sul trono celeste. Ti fu proibito di toccare la pianta simbolica della vita, ma io, che sono la vita, ti comunico quello che sono. Ho posto dei cherubini che come servi ti custodissero. Ora faccio sì che i cherubini ti adorino quasi come Dio, anche se non sei Dio. Il trono celeste è pronto, pronti e agli ordini sono i portatori, la sala è allestita, la mensa apparecchiata, l’eterna dimora è addobbata, i forzieri aperti. In altre parole, è preparato per te dai secoli eterni il regno dei cieli».

Non ci sarebbe altro da aggiungere, nonostante l’omelia non sia stata riportata interamente, ma è possibile qualche commento.

Anzitutto è questo il significato di quel meraviglio affresco dell’ἀνάστασις (anastasis) – è l’immagine sopra, scelta per l’articolo – che si trova nella Chiesa di San Salvatore in Chora (Instanbul), dal momento che Cristo, vero Dio e vero uomo, ha compiuto quella redenzione che anche i «giusti» che furono prima di Lui attendevano. Le due persone che nell’affresco si trovano a destra e a sinistra di Cristo, che le prende per mano, sono i progenitori Adamo ed Eva, portati via da quel soggiorno dei morti che va sotto il nome ebraico di Shéol, corrispondente a quello che in greco si chiama ade (cfr. Fil 2,10; At 2,24; Ef 4,9; Ap 1,18). Circa lo Shéol, il noto Dizionario di Teologia Biblica diretto da Xavier Leon-Dufour (e altri) riporta:

Il defunto «non è più» (Sal 39,14; Giob 7,8.21; 7,10): prima impressione di inesistenza, perché l’oltretomba sfugge alle prese dei viventi. Nelle credenze primitive, conservate a lungo dal VT [Vecchio Testamento], la morte non è tuttavia un annientamento totale. Mentre il corpo è deposto in una fossa sotterranea, qualcosa del defunto, un’ombra, sussiste nello šeol. Ma questi inferi sono concepiti in modo molto rudimentale: un buco spalancato, un pozzo profondo, un luogo di silenzio (Sal 115,17), di perdizione, di tenebre, di dimenticanza (Sal 88,12 s; Giob 17,13). Ivi tutti i morti radunati partecipano alla stessa misera sorte (Giob 3,13-19; Is 14,9 s), anche se vi sono gradi nella loro ignominia (Ez 32,17-32). […] Tale è la prospettiva desolante che la morte apre all’uomo per il giorno in cui dev’essere «riunito ai suoi padri» (Gen 49,29). Qui le immagini non fanno che dare una forma concreta ad impressioni spontanee che sono universali ed a cui si limitano ancora molti dei nostri contemporanei (pp. 642-643).

Nonostante vi sia molto da indagare sullo Shéol e soprattutto svolgere un confronto sull’oltretomba con altre religioni, cosa che in parte Leon-Dufour fa, si riporta il superamento dello Shéol grazie alla potenza divina:

Non è in potere dell’uomo salvare se stesso dalla morte: occorre la grazia di Dio, che solo è per natura il vivente. Quando perciò il potere della morte si manifesta sull’uomo, in qualsiasi modo, egli non può che rivolgere a Dio un appello (Sal 6,5; 13,4; 116,3). Allora, se è giusto, può nutrire la speranza che Dio «non abbandonerà la sua anima allo sheol» (Sal 16,10), «libererà la sua anima dagli artigli dello sheol» (Sal 49, 16). Una volta guarito o salvato dal pericolo, renderà grazie a Dio per averlo liberato dalla morte (Sal 18,17; 30; Giona 2,7; Is 38,17), perché appunto di una tale liberazione avrà fatto l’esperienza concreta. Ancor prima che le prospettive della sua fede abbiano superato i limiti della vita presente, egli saprà così che la potenza divina prevale su quella della morte e dello sheol: primo germe di una speranza che si evolverà infine in una prospettiva di immortalità. […] D’altronde la rivelazione, ancor prima di aprire a tutti simili prospettive, aveva illuminato di nuova luce l’enigma della morte dei giusti, attestandone la fecondità. Il fatto che il giusto per eccellenza, il servo di Jahve, sia colpito a morte e «strappato via dalla terra dei viventi», non è privo di significato: la sua morte è un sacrificio espiatorio offerto volontariamente per i peccati degli uomini; con essa si compie il disegno di Dio (Is 53,8-12). Si svela così in anticipo il tratto più misterioso dell’economia della salvezza, che la storia di Gesù porrà in atto. […] Fino a Cristo e senza di lui, c’era il regno della morte; Cristo viene e, con la sua morte, trionfa della morte stessa; da questo istante la morte cambia senso per la nuova umanità che muore con Cristo per vivere con lui eternamente (pp. 646-647).

Questo il breve percorso biblico fino ad arrivare al momento decisivo, ossia il Sabato santo. Da precisare che ciò non sarebbe stato possibile se l’incarnazione del Verbo non fosse avvenuta così com’è avvenuta, ossia l’unione ipostatica, sulla quale si tornerà in altra sede. Il discorso sull’unione ipostatica è così importante da determinare tutto il resto, oltre alla corretta comprensione di tanti fatti. La corretta comprensione dell’incarnazione evita tanti problemi che ultimamente sono emersi nuovamente, ai quali è possibile rispondere con chiarimenti risalenti a molti secoli fa. Uno dei problemi, ad esempio, riguarda la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, in riferimento alla quale si dice: «è venuto Gesù»; «ora Gesù si è trasformato nel pane e nel vino»; «adesso Gesù è venuto dal Cielo ed è nell’ostia». Non è così e un’impostazione simile sminuirebbe enormemente ciò che avviene nella conversione del pane e del vino, poiché sono questi elementi a «convertirsi», ma ciò rimanda ad un altro lavoro.

Tornando al Sabato santo, il Catechismo della Chiesa Cattolica riporta:

La Scrittura chiama inferi, Shéol o ̔Αιδην il soggiorno dei morti dove Cristo morto è disceso, perché quelli che vi si trovano sono privati della visione di Dio. Tale infatti è, nell’attesa del Redentore, la sorte di tutti i morti, cattivi o giusti; il che non vuol dire che la loro sorte sia identica, come dimostra Gesù nella parabola del povero Lazzaro accolto nel «seno di Abramo». «Furono appunto le anime di questi giusti in attesa del Cristo a essere liberate da Gesù disceso all’inferno». Gesù non è disceso agli inferi per liberare i dannati né per distruggere l’inferno della dannazione, ma per liberare i giusti che l’avevano preceduto. «La Buona Novella è stata annunciata anche ai morti…» (1Pt 4,6). La discesa agli inferi è il pieno compimento dell’annunzio evangelico della salvezza. È la fase ultima della missione messianica di Gesù, fase condensata nel tempo ma immensamente ampia nel suo reale significato e estensione dell’opera redentrice a tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, perché tutti coloro i quali sono salvati sono stati resi partecipi della redenzione (CCC, nn. 633-634).

Da questo si capisce che il Sabato santo non è un giorno di «vuoto» o una «semplice attesa», ma il pieno compimento della redenzione. Inoltre, il Catechismo Romano (o Tridentino) riporta notevoli precisazioni:

Con queste parole [discese all’inferno] riconosciamo che, in quel tempo, la medesima persona di Gesù Cristo fu nell’inferno e giacque nel sepolcro, il che non deve sorprendere. Infatti, come spesso abbiamo ripetuto, sebbene l’anima fosse uscita dal corpo, tuttavia la divinità non si separò mai né dall’anima né dal corpo. […] Qui il vocabolo in questione [inferno] vuole significare quelle nascoste sedi, in cui stanno le anime di coloro che non hanno conseguito la beatitudine celeste. La Sacra Scrittura offre molteplici esempi di questo uso. In san Paolo leggiamo: In nome di Gesù, ogni ginocchio si curvi, in cielo, in terra, nell’inferno (Filipp. II, 10). Negli Atti degli Apostoli, san Pietro assicura che Gesù Cristo N. S. risuscitò, dopo aver superato i dolori dell’inferno (Atti II, 24). Tali sedi non son tutte del medesimo genere. Una è quella prigione tenebrosa e orribile, nella quale le anime dei dannati giacciono in un fuoco perpetuo e inestinguibile, insieme agli spiriti immondi. In questo significato abbiamo i termini equivalenti di geenna, abisso, inferno propriamente detto. In secondo luogo c’è la sede del fuoco purgante, soffrendo nel quale, per un determinato tempo, le anime dei giusti subiscono l’espiazione, onde possano salire alla patria eterna, chiusa a ogni ombra di colpa. […] Una terza sede è quella in cui le anime dei santi furono ospitate prima della venuta di Gesù Cristo N. S. Esse vi dimorarono quietamente, immuni da ogni pena, alimentate dalla beatifica speranza della redenzione. […] Gesù Cristo scendendo nell’inferno liberò appunto le anime di questi giusti, aspettanti il Salvatore nel seno di Abramo. […] Tutti vi erano penetrati prigionieri; egli invece, libero e vincitore fra morti, vi entrò per debellare i demòni, dai quali essi erano tenuti prigionieri a causa della colpa originale. […] Così fu compiuta la promessa fatta al buon ladrone: Oggi sarai con me in paradiso (Luc. XXIII, 43). Questa liberazione dei buoni era stata molto tempo innanzi predetta da Osea con queste parole: O morte, io sarò la tua morte; o inferno, io sarò la tua distruzione (Os. XIII, 14); e dal Profeta Zaccaria: Per te, a causa del sangue del tuo patto, io ritirerò i tuoi prigionieri dalla fossa senz’acqua (Zac. IX, 11); nonché dal passo dell’Apostolo: Egli ha spogliato i principati e le potestà, offrendoli a spettacolo e trionfando di loro (Col. II,15).

Per concludere, sui passi sopra riportati occorrerebbe riflettere, ma soprattutto si capisce che Gesù, durante il Sabato, non stava «dormendo», ma stava salvando il mondo.


Gabriele Cianfrani  

 

martedì 4 aprile 2023

L'INGRESSO NELLA PASSIONE SALVIFICA


 

La prima lettura di Domenica 2 aprile (2023) è tratta dal libro di Isaia e il passo è uno dei cosiddetti «carmi del Servo» del Signore o «canti del Servo» del Signore, che in tutto sono quattro: Is 42,1-4; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12. In questo caso il riferimento è al secondo:

Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,

perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.

Ogni mattina fa attento il mio orecchio

perché io ascolti come i discepoli.

Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio

e io non ho opposto resistenza,

non mi sono tirato indietro.

Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,

le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;

non ho sottratto la faccia

agli insulti e agli sputi.

Il Signore Dio mi assiste,

per questo non resto svergognato,

per questo rendo la mia faccia dura come pietra,

sapendo di non restare confuso (Is 50,4-7).

 

La prima lettura termina qui, nonostante gli altri versetti. Ma ciò basta per trovare nel Vangelo secondo Matteo il riferimento a questo canto di Isaia:

Allora gli sputarono in faccia e lo percossero; altri lo schiaffeggiarono, dicendo: «Fa’ il profeta per noi, Cristo! Chi è che ti ha colpito?» (Mt 26,67);

Sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo (Mt 27,30).

Quel che serve per far capire è in che modo i testi profetici veterotestamentari siano stati compiuti da Cristo, o meglio, come i testi veterotestamentari abbiano trovato compimento in Cristo. Questo è molto importante, dal momento che Cristo è il Verbo di Dio ed è tale prima che Abramo fosse, come si legge nel Vangelo secondo Giovanni: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono» - «Ἀμὴν ἀμὴν λέγω ὑμῖν, πρὶν Ἀβραὰμ γενέσθαι ἐγὼ εἰμί» - «Amen, amen dico vobis, antequam Abraham fieret, ego sum» (Gv 8,58). Occorre prestare attenzione a quell’amen (si rimanda a questo articolo).

Anzitutto Cristo non afferma soltanto di essere prima di Abramo – già in questo vi è il rimando alla sua divinità –, ma afferma «Io Sono». Non si tratta di una semplice affermazione, dal momento che «Io Sono» è il nome che Dio rivelò a Mosè sul monte Sinai: Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi”» (Es 3,14). Tale nome, nella lingua ebraica, greca e latina risulta essere così: אֶהְיֶה֭ אֲשֶׁ֣ר אֶהְיֶ֑ה ; ἐγώ εἰμι ὁ ὤν; Ego sum qui sum. Il riferimento di Gesù al nome divino risulta alquanto chiaro, oltre al fatto che si intravede quella profonda intimità, tale che Egli e il Padre sono uno – Ego, et Pater unum sumus (Gv 10,30). Non si tratta affatto di quella posizione eretica conosciuta con il nome di «modalismo», con quella particolarità in Oriente conosciuta col nome di «sabellianismo» (lo stesso Dio, identificato col solo Padre, che si presenta come tale, come Figlio e come Spirito Santo, dal momento che questi sono semplici modi di presentazione, di apparire, e annullano la distinzione reale delle relazioni tra le Persone della Trinità), ma di una assoluta intimità da comportare che la distinzione tra le Persone della Trinità non riguardi la sostanza ma le relazioni, che sono reali e in Dio sono sussistenti.

Ora, vi sono tanti altri passi dell’Antico Testamento, oltre ai quattro canti del Servo, che prefigurano il Cristo (ad esempio Dt 18,15-19; 1Cr 17,13; Sal 2; 22; 110; Ger 31,31-34; Ez 11,14,21; Zc 9,9-10 e altri, che in questa sede non è possibile riportare, oltre ai vari studi che sono stati condotti sulla letteratura sapienziale). Infatti, studiosi riportano alcune tradizioni dell’Antico Testamento presenti nel Nuovo Testamento, come la tradizione legislativa, profetico-messianica, sapienziale, ognuna delle quali presenta i vari sviluppi. Senza andare per le lunghe, ciò che si vuole mettere in luce è che le tradizioni dell’Antico Testamento, compresi quei passi sopra riportati, pur essendo passi che sono collocati nel loro contesto storico, saranno letti a partire dall’evento Cristo, o meglio, dalla realtà di Cristo risorto. E questo è molto importante anche per capire il tipo di sacerdozio inaugurato da Cristo e per quale motivo è superiore a quello di tipo levitico e addirittura lo precede, cosa che viene messa in luce nella Lettera agli Ebrei, trattando anche della novità del santuario e quale sia il vero sacrificio. Ciò che deve emergere, soprattutto nella Settimana Santa, è il fatto che Cristo, Lógos eterno di Dio, è il criterio di lettura dell’inizio e della fine e che il trionfo di Cristo è totale, è compiuto.

Un grande studioso come Giuseppe Segalla riporta alcuni punti comuni che emergono nel Nuovo Testamento in base all’uso dell’Antico Testamento, ne riporto quattro:

1. Le tradizioni dell’A.T. sono lette a partire dalla realtà attuale e vivente del Cristo, Signore risorto, con un processo di reinterpretazione vitale e critica.

2. Perciò i motivi ed i modelli dell’A.T. vengono accettati, ma criticati e superati. La critica e il superamento sono dovuti ad un orientamento, che inizia già col Gesù terreno e che ha la sua ragione in un compimento che supera l’attesa e la promessa. La persona di Gesù rompe ogni schema.

3. L’interpretazione non è praticata in base a regole fisse e scientifiche, ma con molta libertà; sia utilizzando il metodo midrascico e rabbinico sia adattando i testi dall’A.T. alla nuova realtà storica.

4. Il principio fondamentale che domina l’interpretazione è quello escatologico, ossia quello del compimento in Cristo dell’A.T.: della legge, di ciò che hanno preannunciato i profeti e meditato i sapienti. In Cristo la storia della salvezza raggiunge il suo compimento.

Il Segalla conclude che è Cristo Gesù che rende attuale l’A.T. per la fede cristiana.[1]

Eloquente risulta essere l’inno ai vespri della Settimana Santa:

Ecco il vessillo della croce,

mistero di morte e di gloria:

l’artefice di tutto il creato

è appeso ad un patibolo.

 

Un colpo di lancia trafigge

Il cuore del Figlio di Dio:

sgorga acqua e sangue, un torrente

che lava i peccati del mondo.

 

O albero fecondo e glorioso,

ornato d’un manto regale,

talamo, trono ed altare

al corpo di Cristo Signore.

 

O croce beata che apristi

le braccia a Gesù redentore,

bilancia del grande riscatto

che tolse la preda all’inferno.

 

Ave, o croce, unica speranza,

in questo tempo di passione

accresci ai fedeli la grazia,

ottieni alle genti la pace. Amen.

 

La conferenza vespertina del sermone 18 (Germinet terra) di san Tommaso d’Aquino, che rimanda alla Esaltazione della Croce, chiarifica il tipo di vittoria di Cristo e in che modo Egli vinse per tutto il genere umano, cosa che oggi, purtroppo, rimane così implicita quasi da scomparire. Ecco il passo estratto dal sermone dell’Angelico:

 

In primo luogo dico che l’albero della Croce è adatto a essere il nostro rimedio in quanto corrisponde alla ferita. Il genere umano venne ferito dall’albero, poiché il primo uomo mangiò dell’albero proibito; e così la divina Sapienza ricavò dall’albero la medicina. Il genere umano fu ferito dalla disobbedienza: infatti il primo uomo colse avidamente il frutto dell’albero proibito; ed ecco che l’uomo nuovo quasi come frutto salutare restituì se stesso all’albero. Perciò il Salmista (Sal 69 [68],5) dice: «Quanto non rapinai, io restituivo». Egli restituì se stesso all’albero per ricompensare il danno e portare il rimedio; perciò Sap 14,7 dice: «È benedetto l’albero per mezzo del quale si compie la giustizia».[2]

 

Questo passo dell’Angelico è così profondo che ogni (mio) commento risulterebbe una storpiatura, per cui preferisco lasciarlo alla riflessione personale.  

 

Gabriele Cianfrani 

 



[1] G. Segalla, La cristologia del Nuovo Testamento, Paideia Editrice, Brescia 1985, pp. 65-66.

[2] Tommaso d’Aquino, I sermoni (Sermones) e le due lezioni inaugurali (Principia), a cura di C. Pandolfi e P. Giorgio Maria Carbone O.P., Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2003, p. 276.


sabato 11 febbraio 2023

PROFESSIO FIDEI E IMPLICAZIONE DELL'INTELLETTO 1/2


 

Il 31 dicembre 2022 il Santo Padre Benedetto XVI è tornato alla Casa del Padre. Inutile riportare quanto grande sia stata la sua importanza per la Chiesa odierna e per quella che dovrà attraversare le gioie e le difficoltà del futuro, poiché ci saranno entrambe. Il mio augurio e la mia preghiera per la sua proclamazione, un giorno, di «Dottore della Chiesa».

Tuttavia, pare che vi sia un aspetto fondamentale della ricerca condotta da Joseph Ratzinger – lo si chiamerà così per il riferimento al suo essere studioso, eccellente teologo e non solo – che si spera potrà essere ripreso al più presto: la «ragionevolezza della fede», ossia che la «professione di fede» implica la «ragione». Sì, in quanto spesse volte si parla della «fede» e della «ragione» come se tale accostamento fosse, come dire, sospetto o strano. Comprensibile, nel caso in cui si avesse più o meno bene la nozione di «fede», ma si tratta di un accostamento obbligato, dal momento che non può esservi fede senza ragione e la ragione non può non essere la sede della fede. Sarebbe meglio parlare di «intelletto» anziché di «ragione», poiché l’intelletto indica direttamente quella facoltà/potenza dell’anima che consente atti intellettivi, come la ragione, la quale implica quel procedere, proprio dell’essere umano, in modo discorsivo di conoscenza in conoscenza per giungere alla verità. Gli angeli non apprendono la verità in maniera discorsiva, ma con la semplice intellezione. Pertanto, è proprio dell’essere umano il ragionamento, ma non degli angeli; è proprio dell’essere umano essere definito come razionale, non degli angeli, i quali sono esseri intellettuali (Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 79, a. 8). Tuttavia, non sembra male riportare una precisazione, con buona pace di quanti oggi adoperano la parola «intelligente» per indicare anche ciò che non ha vita (es. la chiave, il semaforo, la lavatrice, uno schermo e il computer stesso, che vuol dire calcolatore, ma non ha nessuna intelligenza) o riducendo l’intelligenza al puro calcolo. Semmai l’intelligenza fosse riducibile al calcolo, allora un calcolatore elettronico, ossia un computer, sarebbe enormemente più intelligente di un cosiddetto «cervellone umano», ma non è così. Tutto ciò che osserviamo nella realtà materiale, sensibile, consta di singolarità, di particolarità, non di universalità. Osserviamo che vi è un albero, certo, ma quell’albero. Non osserviamo che vi è l’albero in quanto tale, ma quel determinato albero. Eppure sappiamo cosa sia un albero in quanto tale, che si tratti di un ulivo, di un faggio, di un platano, di una quercia o altro. Coma mai? Per mezzo di quella facoltà che si chiama «intelletto» e per quella funzione che si chiama «astrazione». Seppure molto brevemente, occorre dire qualcosa al riguardo.

Poiché il termine «patire» può essere preso in vari sensi, in questa sede viene preso nel senso di «ricevere qualcosa da parte di», per cui l’intelletto stesso si trova in potenza rispetto a ciò che deve ricevere. Cosa deve ricevere? Il dato intelligibile. Ma nella realtà sensibile, della quale si fa esperienza con i sensi, troviamo il dato sensibile, non l’intelligibile in atto. Il dato intelligibile si radica nella realtà, ma è in potenza di essere tale. Ora, dal momento che quel «patire» deve fare in modo che l’intelligibile in potenza diventi intelligibile in atto, in modo tale che si possa ricevere (patire) tale dato, occorre porre una capacità da parte dell’intelletto di «astrarre», ossia di «separare» quel dato sensibile che si trova nella realtà materiale per far sì che diventi intelligibile, e così effettuare il passaggio dall’intelligibile in potenza all’intelligibile in atto. Soltanto con questo passaggio, che va sotto il nome di «astrazione», è possibile ottenere l’intelligibile astratto dal sensibile concreto. Ma sopra è stato riportato che da una parte l’intelletto si trova in potenza di ricevere il dato intelligibile astratto e dall’altra che occorre una capacità da parte del medesimo di astrarre il dato intelligibile dal sensibile concreto. Nulla di strano e soprattutto nulla di contraddittorio. Ciò è doveroso, dal momento che nulla di quel che è in potenza passa all’atto se non per mezzo di ciò che è già in atto. Pertanto, occorrono due princìpi: quello che astrae il dato intelligibile dal sensibile concreto prende il nome di «intelletto agente»; quello che riceve il dato intelligibile astratto prende il nome di «intelletto paziente o possibile». In questo caso è l’intelletto agente che attua l’intelletto paziente. In virtù di questo è possibile scorgere l’immaterialità dell’intelletto, che è dell’anima (Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 79, aa. 1-4).

È solo una breve esposizione, che sarà ripresa, ma può bastare per non associare l’«intelligenza» a oggetti che non sono neanche vivi.

Quando si pronunciano le parole «credo» e «amen», ossia la parola iniziale e quella finale del Credo, occorre prestare attenzione a ciò che si pronuncia, dal momento che non esprime affatto il gettarsi nell’irrazionalità. Infatti, scrive Ratzinger:

[…] ciò che qui accade non è affatto un buttarsi in braccio all’irrazionale. Viceversa, è un accedere al lógos, alla ratio, al senso e quindi alla stessa Verità, perché in definitiva il fondamento su cui l’uomo si pone non può né deve esser altro che la stessa Verità che si schiude a noi. […] L’atto di fede cristiana include quindi sostanzialmente la convinzione che il fondamento significativo, il lógos sul quale ci collochiamo, proprio in quanto senso è anche verità. Un senso che non fosse al contempo anche verità, sarebbe non-senso. L’inseparabilità di senso, fondamento, verità, che si esprime tanto nel termine ebraico ‘amen’ quanto in quello greco di lógos, annuncia nello stesso tempo tutta un’immagine del mondo. Nell’inscindibilità di senso, fondamento e verità, così come la implicano – in maniera per noi intraducibile – queste parole, viene in luce l’intera rete di coordinate nella quale la fede cristiana considera il mondo e prende posizione di fronte ad esso. Ne consegue però anche che la fede, per la sua stessa originaria essenza, non è affatto un cieco affastellamento di paradossi incomprensibili. E inoltre che è sbagliato addurre a pretesto il mistero, come in realtà non di rado avviene, per trovare una scusa alla mancanza di comprensione. Quando la teologia va a impelagarsi in un mare di assurdità, ostinandosi non solo a scusarle, ma magari addirittura a canonizzarle richiamandosi al mistero, ci troviamo dinanzi a un abuso della vera idea di ‘mistero’, il cui senso non è certo la distruzione dell’intelletto, bensì di rendere possibile la fede in quanto comprendere. In altri termini, la fede non è certamente un sapere nel senso della scienza del fattibile e secondo la sua forma di calcolabilità. Non lo potrà mai diventare e finirebbe solo per rendersi ridicola, qualora tentasse di proporsi in queste forme (J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 201722).

Lo scopo di questa prima parte è quello di comunicare non solo che si tratta di un’assurdità l’esclusione della fede dall’intelletto – oppure, se si preferisce, dalla ragione, ma con la precisazione riportata sopra – e il necessario richiamo dell’intelletto per la fede, ma soprattutto che per «intelletto» il riferimento è ben preciso, lungi dagli stravaganti accoppiamenti che spesse volte – troppe! – giungono all’attenzione. Tuttavia, l’implicazione vicendevole della fede e dell’intelletto sarà trattata nella seconda parte, la quale avrà lo scopo di chiarire in che modo la fede opera sull’intelletto e come l’intelletto opera mediante la fede, in particolar modo sul tipo di «assenso» e cosa comporta nei confronti della volontà, e in ultimo nei confronti della persona stessa.


Gabriele Cianfrani

lunedì 19 dicembre 2022

ET VERBUM CARO FACTUM EST, ET HABITAVIT IN NOBIS

 


Così si legge nel Vangelo secondo Giovanni (1,14), ossia che «il Verbo si fece carne/carne si fece, e venne ad abitare in noi», proprio quel Verbo, quel Lógos per mezzo del quale tutto fu fatto e senza di lui non fu fatto nulla di ciò che è stato fatto (1,3). Alcuni studi evidenziano che sarebbe meglio propendere per un’altra traduzione: «e il Lógos carne si fece e si accampò/si attendò fra noi» (Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν), e ciò con evidenti riferimenti alla «tenda» (σκηνή, skēné) di Es 33,7-11:

Mosè ad ogni tappa prendeva la tenda e la piantava fuori dell’accampamento, lontano dall’accampamento, e l’aveva chiamata tenda del convegno. Chiunque ricercava il Signore usciva verso la tenda del convegno, che era fuori dell’accampamento. Quando Mosè usciva verso la tenda, tutto il popolo si alzava e ognuno stava all’entrata della propria tenda e seguiva Mosè con lo sguardo finché entrava nella tenda. Quando Mosè entrava nella tenda, la colonna di nube scendeva e stava all’ingresso della tenda; ed Egli parlava a Mosè. Tutto il popolo vedeva la colonna di nube che stava all’entrata della tenda: tutto il popolo si alzava e ognuno si prostrava all’ingresso della propria tenda. Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con il suo vicino: poi tornava all’accampamento.

Il richiamo al passo biblico sopra riportato è di estrema importanza, dal momento che la «tenda» indicava la presenza di Dio, o meglio, la dimora di Dio in mezzo al popolo d’Israele nel deserto (cfr. anche Es 25-26). La colonna di nube è una chiara allusione alla presenza di Dio in quel momento, e non a caso il riferimento alla potenza dell’Altissimo che coprirà con la sua ombra la Beata Vergine si riscontra nell’annuncio dell’angelo celeste. L’autore del quarto Vangelo conosceva benissimo la Scrittura (a quel tempo la Legge e Profeti)[1], per cui bisogna considerare sempre questo dato. Infatti, se a quel tempo la dimora di Dio presso il popolo d’Israele era rappresentata dalla «tenda del convegno», con l’incarnazione del Lógos il salto è enorme: Dio è ormai presente in mezzo al suo popolo stabilmente, dal momento che ha assunto natura umana, ossia carne si fece.[2] Ciò è collegato, ovviamente, con il sacrificio sulla croce, che è lo scopo della venuta della seconda Persona della Santissima Trinità. Al riguardo, risulta particolarmente importante quanto è riportato nel Catechismo della Chiesa Cattolica, ossia il motivo dell’incarnazione del Verbo:

n. 456: con il Credo niceno-costantinopolitano rispondiamo confessando: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo»;

n. 457: il Verbo si è fatto carne per salvarci riconciliandoci con Dio: è Dio «che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10). «Il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo» (1Gv 4,14). «Egli è apparso per togliere i peccati» (1Gv 3,5);

n. 458: il Verbo si è fatto carne perché noi così conoscessimo l’amore di Dio: «In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita per lui» (1Gv 4,9). «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16);

n. 459: il Verbo si è fatto carne per essere nostro modello di santità: «Prendete il mio giogo su di voi e imparate da me…» (Mt 11,29). «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). E il Padre, sul monte della trasfigurazione, comanda: «Ascoltatelo» (Mc 9,7). In realtà, egli è il modello delle beatitudini e la norma della Legge nuova: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 15,12). Questo amore implica l’effettiva offerta di se stessi alla sua sequela;

n. 460: il Verbo si è fatto carne perché diventassimo «partecipi della natura divina» (2Pt 1,4): «Infatti, questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, Figlio dell’uomo: perché l’uomo, entrando in comunione con Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio»[3]; «Infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio»[4]; «Unigenitus […] Dei Filius, Suae divinitatis volens nos esse participes, naturam nostram assumpsit, ut homines deos faceret factus homo – L’unigenito […] Figlio di Dio, volendo che noi fossimo partecipi della sua divinità, assunse la nostra natura, affinché, fatto uomo, facesse gli uomini dei».[5]

Questi sono, in breve, i motivi che rispondono alla domanda: perché il Verbo si è fatto carne?

Ora, è chiaro che il riferimento principale è quello circa la salvezza degli uomini nella riconciliazione con Dio, ma la partecipazione alla natura divina, che meriterebbe di essere trattata in altra sede, ha la sua «fondamentale» importanza. Tuttavia, oltre ai peccati in genere, la questione che non può essere persa di vista è quella della colpa di origine, ossia del peccato originale. Infatti, intaccare la rivelazione sul peccato originale vuol dire attentare al mistero di Cristo.[6]

La conseguenza estrema del peccato originale – vi sarebbe da esporre in che modo l’uomo fu creato e in quale stato, per capire pienamente – è stata la «morte»:

Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità e lo ha fatto a immagine della propria natura; ma per invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza quanti sono del suo numero (Sap 2,23-24).

Non bisogna incorrere nell’errore di una sorta di immortalità naturale, poiché l’uomo, come ogni essere vivente sottoposto al movimento (generazione-corruzione) è mortale. L’immortalità – e ciò che ne sarebbe scaturito – era conferita nello stato di grazia da Dio stesso[7], il quale stato consentiva la perfetta armonia tra l’anima e il corpo (giustizia originale). Con la colpa d’origine questa armonia venne meno e la conseguenza più dura fu l’esperienza della morte, non solo fisica. Ora, per non andare nel sottile, sono chiare le parole di Cristo in riferimento alla morte e cosa questa abbia a che fare con la sua venuta:

Le dice Gesù: «Tuo fratello risorgerà». Gli risponde Marta: «So che risorgerà nella risurrezione all’ultimo giorno». Le disse Gesù: «Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se morisse, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai. Credi tu a ciò?». Gli dice: «Sì, Signore. Io ho creduto che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, quello che deve venire nel mondo» (Gv 11,23-27).

Il contesto è quello della risurrezione di Lazzaro. Ebbene, in ultimo, Cristo è venuto per ristabilire quella vita che è la piena comunione con Dio, l’accesso alla patria celeste, perso anzitutto col peccato d’origine e concesso nuovamente da Cristo stesso per mezzo del suo sacrificio. Al riguardo, è certamente illuminante quanto riportato nel Catechismo Romano (Tridentino):

n. 48: in realtà se tutti gli uomini muoiono nel primo [Adamo], tutti sono richiamati a vita nel secondo [Cristo]. E come Adamo è stato il padre del genere umano nell’ordine di natura, così Gesù Cristo è per tutti l’autore della grazia e della gloria (Rom. V,14). Parimente si può stabilire un’analogia fra la Vergine Madre, seconda Eva, e la prima […]. Avendo creduto alle lusinghe del serpente (Gen. III,6), Eva attirò sul genere umano la maledizione e la morte; avendo Maria creduto all’annuncio dell’angelo, fece sì che la bontà di Dio ridonasse agli uomini benedizione e vita. A causa di Eva nasciamo figli della collera (Efes. II,3); ma da Maria ricevemmo Gesù Cristo, per merito del quale siamo rigenerati come figli della grazia;

n.51: mentre mediteranno tutto ciò, i fedeli non dimenticheranno che Dio volle sottostare all’umile fragilità della nostra carne, affinché il genere umano fosse innalzato al più alto livello della dignità.

Questi testi sono molto chiari. Pertanto, il Lógos si è incarnato principalmente per ciò e continua ad essere presente per mezzo della Chiesa, suo corpo mistico. In che modo? Principalmente attraverso i «sacramenti» e soprattutto con la santa «Eucaristia».

Per concludere, le parole del Doctor Angelicus risultano alquanto limpide:

Benché il primo peccato del progenitore abbia infettato tutta la natura umana, questa al contrario non ha potuto essere riparata per la sua penitenza o per qualsiasi merito. È chiaro infatti che la penitenza di Adamo o qualsiasi altro suo merito fu un atto della persona singola; ora, l’atto di un individuo non ha alcuna influenza su tutta la natura della specie [umana]. […] Quindi il merito singolare di Adamo, o di qualsiasi altro puro uomo, non ha potuto essere sufficiente per reintegrare tutta la natura umana. Che poi per un atto singolo del primo uomo sia stata viziata tutta la natura umana avvenne per accidens, in quanto, privato lui dello stato di innocenza, [l’innocenza] non poteva attraverso di lui derivare negli altri. […] ora, la grazia non si acquista con i meriti, ma è concessa gratuitamente da Dio: perciò, come il primo uomo ebbe all’inizio la giustizia originale non per proprio merito, ma per un dono divino, così molto meno la poté meritare mediante la penitenza, o compiendo qualsiasi altra opera, dopo il peccato. […] Era dunque conveniente che Dio si facesse uomo, così che uno solo potesse nello stesso tempo riparare e soddisfare. Ed è questa la causa della divina incarnazione che viene indicata dall’Apostolo quando afferma: «Cristo Gesù è venuto in questo mondo per salvare i peccatori» [1Tm 1,9-11].[8]

Insomma, quello del Natale è senza dubbio un tempo di dolcezza, di vicinanza, di luce, di calore – anche se la stagione è quella invernale –, di regali ecc. Ma è bene ribadire che qualora mancasse il riferimento a Cristo, o meglio, «al» Cristo, tutto ciò non avrebbe alcun senso… Nemmeno uno. Con il Cristo e in riferimento a Lui, tutto raggiunge il senso ultimo. Pertanto, in questa novena di Natale, il mio augurio è che si possa certamente ritrovare l’unità e la pace, ma in Cristo, il quale dà la pace ma non come la dà il mondo, e che si riscopra la vita cristiana scaturita dai sacramenti, ultimamente così poco considerati e che invece sono il prolungamento di Cristo in mezzo a noi, in mezzo alla sua Chiesa.


Gabriele Cianfrani                          



[1] In merito alla «questione dell’autore» del quarto Vangelo vi sono diverse posizioni da parte di studiosi di notevole spessore (Martin Hengel, Raymond Edward Brown, Xavier Leon-Dufour, Rudolf Schnackenburg e altri), per cui non è possibile neanche accennare alla quesitone. La modesta opinione di chi scrive rimanda alla origine apostolica dei quattro Vangeli, da intendere come riporta la Dei Verbum: la Chiesa ha  sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i quattro Vangeli siano di origine apostolica. Infatti, ciò che gli Apostoli per mandato di Cristo predicarono, dopo, per ispirazione dello Spirito Santo, fu dagli stessi e da uomini della loro cerchia tramandato in scritti, come fondamento della fede, cioè l’Evangelo quadriforme, secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni (Conc. Vat. II, Dei Verbum; cfr. Ireneo di Lione, Adversus haereses, III, 11,8: PG 7,885). In questo estratto vi sono tantissimi elementi, ma che per evidenti motivi di estensione non è possibile sviluppare.

[2] Appare così in questa frase un’allusione all’antica Tenda dell’Incontro, dimora di Dio fra gli israeliti durante la loro peregrinazione per il deserto, nella prima epoca di Israele (Es 33,7-10), e rimpiazzata più tardi dal santuario di Gerusalemme (2Sam 7,1-13; 1Re 5,15-19; 6,1ss.). Quella presenza di Dio è ormai sostituita da questa: la tenda di Dio, il luogo dove egli abita in mezzo agli uomini, è un uomo, una «carne» (J.Mateos – J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni. Analisi linguistica e commento esegetico, Cittadella Editrice, Assisi 20165,p.63).

[3] Ireneo di Lione, Adversus haereses, III, 19,1: PG 7,939.

[4] Atanasio di Alessandria, De Incarnatione, 54,3: PG 25,192.

[5] Tommaso d’Aquino, Officium de festo corporis Christi, Ad Matutinas, In primo Nocturno, Lectio 1.

[6] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 389.

[7] È insegnamento ormai della Chiesa quello riguardante i doni preternaturali (integrità, immortalità, impassibilità, scienza infusa) e il dono soprannaturale (grazia santificante), come riportato nel Catechismo Maggiore di san Pio X, n. 57. L’armonia che vi fu in questo stato di grazia e la partecipazione alla vita divina è chiamata «santità originale» (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 375).

[8] Tommaso d’Aquino, Compendio di teologia, I, cc. 198-200.


domenica 13 novembre 2022

L'ADESIONE NARCOTIZZATA ALLA SEDUZIONE NARCOTIZZANTE

 


Spesse volte si leggono titoli che difficilmente sono riconducibili al contenuto dell’articolo e ciò costituisce un grave errore, ma non credo sia questo il caso, dal momento che si cercherà di spiegare non solo ogni parola del titolo in questione ma anche l’ordine, dacché anche questo è importante. Il materiale è importante (le parole), ma poi occorre che vi sia un certo ordine. L’ordine delle parole è importante poiché rimanda all’intenzione dell’autore, a ciò che l’autore vuole comunicare e in che modo intenda farlo, e sono sicuro che già si possa scorgere il modo polemico col quale intendo proseguire, obbligatoriamente senza risparmio. Forse sarò più lungo del solito, ma doverosamente.

Prima di iniziare vorrei riportare un passo del Catechismo della Chiesa Cattolica, In quanto sarà indispensabile per quel che seguirà:

 

La dottrina del peccato originale è, per così dire, «il rovescio» della Buona Novella che Gesù è il Salvatore di tutti gli uomini, che tutti hanno bisogno della salvezza e che la salvezza è offerta a tutti grazie a Cristo. La Chiesa, che ha il senso di Cristo, ben sa che non si può intaccare la rivelazione del peccato originale senza attentare al mistero di Cristo (n. 389).

 

Sono parole che non avrebbero bisogno di spiegazione, ma certamente richiedono, o meglio, pretendono lunga riflessione. Infatti, non è possibile trattare del mistero di Cristo e ignorare la colpa d’origine (peccato originale), così come non è possibile considerare la colpa d’origine all’infuori del mistero di Cristo, dal momento che è Cristo che ci illumina fino in fondo al riguardo (cfr. Rm 5,12-21).

Non è questa la sede per trattare del peccato originale e delle sue sfaccettature, non è l’intenzione dell’articolo, ma non poche volte si assiste ad una sorta di disagio da parte di cristiani (cattolici) nell’affermare che davvero vi sia stata una colpa d’origine. Un disagio tale da considerare quel brano di Gen 3,1-24 come se fosse solo un modo per raccontare alcune cose; una storiella posta per rispondere alla sofferenza umana; un modo per dire all’uomo che deve stare al suo posto; un tentativo religioso per spiegare il male nel mondo, non tanto distante da altri racconti di altre religioni; un modo per dire che la donna sbaglia sempre e roba di questo tipo. Insomma, oggi più che mai con difficoltà si ammette l’esistenza di una colpa d’origine, sfociando nei famosi «modi di dire» e nell’ostinazione al riferimento «puramente simbolico», ignorando cosa sia il «simbolo», che non è fantasia (ne ho parlato qui). Ora, dacché il tono dell’articolo è polemico e non vale il cosiddetto politicamente corretto, vorrei precisare non è possibile essere cristiani – meno che mai cattolici – senza credere a quanto esposto sopra. Il testo è chiaro: non si può intaccare la rivelazione del peccato originale senza attentare al mistero di Cristo. Mi dispiace, ma oggi come oggi pochissime parole vengono spese su questo argomento, che è fondamentale e chi ha il dovere di parlarne lo faccia. Se non vi è chiarezza su questo, come ci si rapporterà al Natale, alla Pasqua, alla Bibbia (Antico e Nuovo Testamento), alla Chiesa e alla sua storia, al Sacrificio Eucaristico (la Messa), alla Beata Vergine Maria, al mistero del male, alla salvezza in Cristo, alla vita futura ecc.?

Ed ecco che in maniera deplorevole e sottilmente ordinata il servizio televisivo propone tre pubblicità che a mio parere risultano oscene, oltre a mostrare l’enorme superficialità o l’enorme malizia di chi mira allo sradicamento di due verità fondamentali per il cristiano: il peccato originale e il mistero di Cristo nell’istituzione dell’Eucaristia. Queste le pubblicità, per poi passare alla doverosa nota polemica.







Cercherò di spiegare ogni parola del titolo in riferimento a queste cose esecrabili. Tuttavia, voglio precisare che non si tratta di chiusura nei confronti dell’espressione, ovvio, ma in questo caso mi pare che si sia giunti pubblicamente a un passo dall’oscenità. La dimensione religiosa dell’essere umano, qualunque essa sia, non può non godere di rispetto. Riguarda l’essere umano nella sua intimità.

 

- «Adesione»: con tale termine non si vuole indicare soltanto il contatto tra due cose, ma anche l’aver prestato il proprio assenso alla volontà altrui. Questo assenso è rivolto a quella volontà che si pone come negazione di Dio (cfr. 1Gv 2,22-23).

 

- «Narcotizzata»: l’adesione avviene in uno stato di anestesia intellettuale, subìta o cercata consapevolmente. Non può essere altrimenti, dal momento che gli argomenti circa il peccato originale e l’istituzione della santa Eucaristia hanno impegnato menti eccellenti e consentito di far scorrere fiumi di inchiostro. Altro che storielle raccontate per tenere nel sonno le menti, è vero il contrario, ossia l’abbandono di certi argomenti ha condotto a quella riduzione intellettuale che appare in tutta la sua evidenza (ad esempio il fatto che oggi vi sia un dominio della tecnica che conduce a considerare quasi esclusivamente il prodotto avente come fine il solo consumo nell’assoluta immanenza). Si pensi a quel mirabile incontro tra la filosofia e la teologia nel mistero dell’Eucaristia (ciò che avviene con la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo si chiama transustanziazione): partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, [i fedeli] offrono a Dio la Vittima divina e se stessi con Essa (Conc. Vat. II, Lumen gentium, n. 11). Si pensi al significato del termine persona e sulla importanza di tale termine, il quale non si capirebbe pienamente se si ignorassero i primi concilî della Chiesa. Si pensi alla grande difficoltà odierna di riconoscere il bene, il vero, il bello, riducendoli solo a ciò che appare nella pura successione inconsistente di fenomeni, con la quasi impossibilità di ricondurli alla ricchezza dell’essere come loro principio e fine, di quell’essere conferito in modo partecipativo da Colui che non presenta composizione alcuna e che è il reale principio di ogni essere, di ogni bene, di ogni verità, di ogni bellezza, dal momento che è l’Essere per sé sussistente. Non solo, poiché l’amore stesso in Dio è sussistente e sarebbe vano cercare all’infuori di Dio il fondamento della capacità di amare dell’uomo. Proprio per quanto riguarda l’amore ci si renderà conto che sempre più avanzano descrizioni dello stesso, o meglio, di alcuni aspetti, ma non definizioni.

 

- «Seduzione»: interessante questa parola, in quanto vuol dire conduzione a sé («sedurre» da se-ducere, ossia condurre a sé), non intesa esclusivamente nel campo affettivo. Infatti, si intende anche l’azione di condurre a sé per distogliere l’altro dal compiere il bene, per separarlo dal compiere il bene o ciò che dovrebbe. Ed è su questo senso che ci si soffermerà.

Il testo biblico riporta ciò che Eva rispose a Dio: «il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato» (Gen 3,13).

Senza entrare in particolari molto interessanti ma che richiederebbero troppo spazio, è possibile notare che l’«inganno» segue quell’atto di «conduzione a sé» da parte del serpente, che in ultimo separa Eva – e con ella Adamo – da Dio. Il punto è che i progenitori non potevano cadere in «inganno» nel vero senso della parola, se per inganno si intende un raggiro, un condurre in errore o cercare di far credere vere le cose che sono false e viceversa, dal momento che i progenitori non erano ignorantelli, come spesse volte vengono presentati in merito a questo evento, in quanto non soggetti ad ignoranza. La scelta fu consapevole e la «seduzione» del serpente non ha fatto altro che spingere ulteriormente a commettere esternamente ciò che poi è stato commesso, volontariamente, ma già a partire dall’interno (peccato interno), per cui il credere alle parole del serpente e il commettere quel peccato, non sarebbe stato possibile se prima non vi fosse stato l’amore del proprio potere e una superba presunzione di sé (cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 94, 4; Ibid. ad 1). Ed ecco l’anomalia: la scelta di un bene transitorio, il cui fondamento risiede in Colui che è il Bene sussistente, al posto dello stesso Bene sussistente dal quale deriva il bene. Anomalia che si fonda sulla superbia, ossia il considerare solo la propria eccellenza, una sorta di ripiegamento su se stessi.

Come è possibile notare, la questione è molto profonda e ci sarebbe tanto altro da aggiungere, ma è chiaro che un argomento come questo non può essere oggetto di scherno.

 

- «Narcotizzante»: in tal caso la seduzione ha effetto narcotizzante, dal momento che – mi dispiace per la durezza, ma il tono è polemico – si ha uno svuotamento anzitutto intellettuale, tale da portare a promuovere messaggi pubblicitari come quelli sopra. Ma lo svuotamento non è solo intellettuale, dato che coinvolge tanti aspetti dell’uomo, compreso quello della riverenza.

È davvero interessante quanto il genio di C.S. Lewis mette in bocca a Berlicche, tutto intenzionato ad istruire il nipote Malacoda: «È buffo che i mortali ci rappresentino sempre come esseri che mettono loro in testa questa o quella cosa: in realtà il nostro lavoro migliore consiste nel tenere le cose fuori dalla loro testa» (C.S. Lewis, Lettere di Berlicche, trad. A. Castelli, Mondadori, Milano 2015, p. 20. Titolo originale: The Screwtape Letters). Effetto narcotizzante.

 

Tirando le somme, risulta chiaro il messaggio ultimo: proposta ridicolizzata di Dio conducente all’adesione vuota e negatrice di Dio, ossia il dolce avvelenamento. Cosa ne consegue? Semplice: l’adesione al nulla, ossia all’imperfezione assoluta. Senza troppi giri di parole, si tratta di un vero messaggio anticristico, nei confronti del quale non è possibile restare imperturbabili. Ciò interpella chi sta scrivendo proprio perché membro della Chiesa per mezzo del Battesimo, per cui ritengo doverosa la polemica a difesa di verità fondamentali per la vita cristiana. Inoltre, e non so se vi sia consapevolezza o meno, queste oscenità intaccano soprattutto la dignità umana – Dio non è soggetto di mutazione ontologica –, dal momento che l’uomo ha ragione di ritenersi superiore a tutto l’universo, a motivo della sua intelligenza, con cui partecipa della luce della mente di Dio (Conc. Vat. II, Gaudium et spes, n. 15). Pertanto, la grandezza dell’uomo è in riferimento a Dio, altrimenti ci sarà sempre quel ripiegamento che oggi comporta l’essere assoggettati a se stessi, o peggio, ai prodotti delle proprie mani, delle mani dell’uomo (cfr. Sal 115). Ma questa non è libertà e la visione cristiana mira all’innalzamento, non all’abbassamento. Tra i tanti aspetti fondamentali dell’Incarnazione, vi è anche la manifestazione della dignità umana: mentre mediteranno tutto ciò, i fedeli non dimenticheranno che Dio volle sottostare all’umile fragilità della nostra carne, affinché il genere umano fosse innalzato al più alto livello della dignità (Catechismo Tridentino o Romano, n. 51). Dio non può essere attaccato, dal momento che è Dio, ma l’uomo può esserlo e in tal caso nel suo nucleo: lo smarrimento di Dio comporta anche lo smarrimento dell’uomo.


Gabriele Cianfrani