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martedì 29 agosto 2023

CENNI DI ERMENEUTICA BIBLICA (parte 1)


 

In questi ultimi tempi fanno ritorno alcune questioni alle quali la Chiesa ha già dato risposte, in modo particolare le seguenti: come bisogna interpretare alcuni passi della Bibbia; cosa occorre per capire il senso di un preciso passo biblico; l’attendibilità del simbolismo biblico; difficoltà di alcuni passi che risulterebbero contraddittori e così via – in quest’ultimo caso occorrerebbe richiamare il tema della «ispirazione» dei testi sacri, con le dovute precisazioni anche per quel che riguarda l’essere Parola di Dio estrinsecamente (formalmente intesa) e l’essere Parola di Dio intrinsecamente (materialmente intesa). Non è un caso che quello dell’ispirazione sia uno dei temi meno compresi, quasi da risultare poco credibile, ma per il semplice motivo che non è chiaro in cosa consista l’ispirazione biblica. Ciò sarà trattato in altra sede.

Le questioni riportate sono più che legittime, e il più delle volte sono questioni che, nonostante siano già state trattate, al giorno d’oggi pare che restino ancora aperte, o meglio, che si vogliano riaprire. Inutile precisare che occorrerebbe svolgere un percorso biblico per trattare le questioni sopra riportate ed altre, ma per il momento è possibile riportare solo alcuni cenni di ermeneutica biblica. Per far ciò si prenderà come testo di riferimento il seguente: L. Moraldi I.M.C. – S. Lyonnet S.J. (ed.), Introduzione alla Bibbia. Corso sistematico di studi biblici, I. Introduzione generale, Marietti, Torino 1960. Perciò il numero di pagine che si riscontreranno si riferiranno a questo testo. Inoltre, si rimanda anche a un altro testo: Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, 2014.

Anzitutto la parola «ermeneutica» (dal greco ἑρμενευτική) riguarda quella interpretazione, quella arte interpretativa che non riguarda solo il testo biblico, ma ogni altro testo, soprattutto un testo antico. San Girolamo scriveva che «dovere del commentatore è di esporre non il pensiero proprio, ma quello di colui che egli spiega» (Ep. 48 ad Pamm., 17). Ed è proprio ciò che s’intende conseguire con l’interpretazione, che non è libera e svicolata da tutto, come una sorta di voler far dire al testo ciò che si vuole – non pochi, oggi, credono questo in merito alla Bibbia, ma non è la posizione cattolica e non è neanche corretta ermeneutica –, ma deve attenersi a criteri ben precisi:

 

l’ermeneutica in genere è quella disciplina che insegna le regole per interpretare un libro e il modo di ben applicarle, allo scopo di intenderne il vero senso, che è quello inteso dall’autore. Nell’ermeneutica biblica questo libro è la Bibbia. […] Giova avvertire subito che, siccome la S. Scrittura non è un libro come tutti gli altri, ma un libro divino-umano, vi si troveranno sensi (e quindi regole d’interpretazione) strettamente suoi particolari, oltre a quelli comuni agli altri libri (p. 177).

 

Non solo, ma bisogna tener conto sia del senso (quel determinato concetto che l’autore intende esprimere con le sue parole) sia il significato (il concetto inerente alle singole parole oggettivamente, indipendentemente dall’intenzione soggettiva dell’autore) di ciò che si vuole sottoporre alla interpretazione (cfr. p. 177). Questo è molto importante, dal momento che la Bibbia, in quanto Parola di Dio, è rivolta all’uomo ed esige di essere interpretata, spiegata – ossia togliere le pieghe facendo emergere ciò che si nasconde sotto, ma senza rimuovere i segni delle pieghe.

Precisazione doverosa: per «Parola di Dio» non bisogna intendere solo la Bibbia, ma anche la Tradizione divino apostolica – quest’ultima godrebbe di precedenza, considerata non dal punto di vista consecutivo ma dal punto di vista costitutivo –, poiché sia l’una che l’altra costituiscono le due fonti della Rivelazione divina, come riporta la Costituzione dogmatica su «La divina rivelazione» (Dei Verbum):

 

La Sacra Tradizione dunque e la Sacra Scrittura sono strettamente tra loro congiunte e comunicanti. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo una cosa sola e tendono allo stesso fine. Infatti la Sacra Scrittura è parola di Dio in quanto scritta per ispirazione dello Spirito di Dio; la Sacra Tradizione poi trasmette integralmente la parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli Apostoli, ai loro successori [i vescovi], affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano; accade così che la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura. Perciò l’una e l’altra devono essere accettate con pari sentimento di pietà e rispetto (n. 9).

 

Questo numero della Dei Verbum è molto importante e non è possibile dimenticarlo. Tuttavia, per non appesantire quella che vuole essere una breve esposizione di ciò che riguarda l’ermeneutica biblica, si rimanda a tre encicliche fondamentali per lo studio biblico: Spiritus Paraclitus di Benedetto XV (1920); Providentissimus Deus di Leone XIII (1893); Divino afflante Spiritu di Pio XII (1943), oltre che alla Dei Verbum del Concilio Vaticano II.

 

In questa sede è necessario chiarire due punti:

1) a chi spetta ufficialmente il compito d’interpretare la Scrittura;

2) come si divide il trattato sull’ermeneutica biblica.

 

Per quanto riguarda il primo punto, ci viene in soccorso la Dei Verbum:

 

l’ufficio poi d’interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa è affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo. Il quale Magistero però non è superiore alla parola di Dio ma ad essa serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato da Dio. È chiaro dunque che la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti da non potere indipendentemente sussistere, e tutti insieme, secondo il proprio modo, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime (n. 10).

 

A questo punto sorge una domanda: cosa sarebbe il Magistero della Chiesa?

Nulla di cui preoccuparsi, men che mai accingersi alla ‘interpretazione personale o privata’ della Bibbia, poiché il Magistero è quell’ufficio esercitato dai Vescovi in comunione con il Romano Pontefice (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 85), dal momento che godono della pienezza del sacramento dell’Ordine e di conseguenza della pienezza del munus docendi («Chi ascolta voi ascolta me», come si legge in Lc 10,16). Il Magistero, ossia questo particolare ufficio dei successori degli Apostoli (i vescovi) in comunione con il Successore di Pietro (il Romano Pontefice), si esprime su ciò che riguarda la fede e la morale (fides et mores) e viene solitamente distinto in due forme di esercizio: ordinario e straordinario o solenne, ma che può essere anche non solenne, e allora si chiamerà Magistero ordinario universale.

Con la forma ordinaria, s’intende il modo normale di esercitare il munus docendi della Chiesa, dei successori degli Apostoli e di Pietro – dev’essere chiaro, poiché una battuta o una risata non può essere considerata Magistero… –, alla quale forma è richiesto l’ossequio da parte del fedele.

Con la forma straordinaria, s’intende sia quell’intervento o pronunciamento magisteriale da parte del Romano Pontefice, quando emana una definizione dogmatica ex cathedra, sia la definizione di un dogma da parte di un Concilio Ecumenico. Tale è il Magistero in forma straordinaria e solenne. Nel caso non fosse solenne, si avrebbe il Magistero ordinario universale, che non è altro un modo di esercizio del Magistero straordinario. Ciò che cambia è che in tal modo si indica la continuità ininterrotta nel proporre un dato insegnamento, per cui i vescovi in comunione col Papa, nonostante dispersi per il mondo, convergono sua una particolare dottrina da proporre al popolo di Dio. Alla forma straordinaria è richiesto l’assenso di fede.

Pertanto, l’interpretazione della Scrittura spetta al Magistero della Chiesa e non è affare privato (cfr. 2Pt 1,20).

Per quanto riguarda il secondo punto, bisogna considerare che l’ermeneutica biblica si divide in tre grandi parti, ognuna delle quali si divide in altre parti: la noematica (da νόημα = pensiero), ossia l’analisi dei vari sensi della Scrittura; l’euristica (da εὑρίσκειν = trovare), ossia l’insegnamento per trovare i sensi della Scrittura; la proforistica (da προφέρειν = proferire, enunziare), ossia il modo di esporre il senso così trovato e per l’uso della Chiesa (cfr. p. 177).

È il caso di rimandare l’esposizione sulla noematica al prossimo articolo, anche perché occorrerà trattare anche del senso letterale, così tanto poco considerato e/o compreso, mentre si tratta del senso più articolato, sia per quanto riguarda i termini utilizzati sia per l’intenzione dell’autore.

 

 

Gabriele Cianfrani


giovedì 20 luglio 2023

IL DOCTOR ANGELICUS A 700 ANNI DALLA CANONIZZAZIONE

 


Proprio due giorni fa, il 18 luglio 2023, è stato il 700° anniversario della canonizzazione di san Tommaso d’Aquino (122-7 marzo 1274), con la bolla Redemptionem misit di papa Giovanni XXII risalente, appunto, al 18 luglio 1323.

Inutile riportare la grandezza della dottrina del Doctor Angelicus – vi sono altri titoli, come Doctor Ecclesiae, Doctor Communis, Doctor Humanitatis –, tanto che persino nel decreto sulla formazione sacerdotale Optatam totius del Concilio Vaticano II, al numero 16, sono riportate le seguenti parole:

 

Nell’insegnamento della teologia dogmatica, prima vengano proposti gli stessi temi biblici; si illustri poi agli alunni il contributo dei Padri della Chiesa Orientale ed Occidentale nella fedele trasmissione ed enucleazione delle singole verità rivelate, nonché l’ulteriore storia del dogma, considerando anche i rapporti di questa con la storia generale della Chiesa. Inoltre, per illustrare quanto più possibile i misteri della salvezza, gli alunni imparino ad approfondirli e a vederne il nesso per mezzo della speculazione, avendo S. Tommaso per maestro […].

 

Semmai si leggessero, o meglio, si studiassero i testi dell’Aquinate, non ci si meraviglierebbe di queste parole. Inoltre, in quel periodo del Medioevo che va sotto il nome di «Scolastica», il nostro Dottore visse proprio nel secolo XIII, riconosciuto in modo unanime come il «secolo d’oro» della Scolastica, l’apogeo di tale periodo. Un secolo durante il quale la cultura fece un balzo in avanti non di poco conto, e l’importanza che ebbero la teologia e la filosofia è fuori discussione.

Inoltre, per non evadere dal rendere onore alla verità, nel complesso il Medioevo è stato un periodo di grande originalità e di notevoli innovazioni, oltre che di scoperte. È davvero frustrante quando si sente parlare del Medioevo avendo in mente solo pochi argomenti e del tutto distorti: inquisizione, crociate, oscurantismo ecc. Come prima cosa occorrerebbe capire cosa sia l’inquisizione e cosa sia la crociata – non bisogna considerarle al plurale, ma al singolare, dacché ognuna ha le sue caratteristiche –, senza considerare che anche l’inquisizione non fu unica, ma vi sono precise divisioni tra gli storici. Se si esaminassero già solo questi due argomenti, con i dovuti strumenti, si inizierebbe a provare una certa meraviglia (non buona) quando se ne sente parlare senza cognizioni. Non solo, ma che il Medioevo sia stato un periodo oscurantista è una vera e propria caricatura nei confronti di un periodo che risulta imprescindibile. Ogni epoca conosce luci e ombre, ma se proprio vogliamo essere sinceri, le ombre che sono presenti in quella attuale, sono ben più numerose rispetto a quelle del passato.

Un piccolo esempio: la forza di attrazione gravitazionale esercitata dalla luna sul nostro pianeta – e non solo questo – in riferimento alle maree era ben nota già nel secolo XIII, o meglio, prima ancora dello stesso Medioevo. Infatti, nel Compendium theologiae, san Tommaso tratta dei miracoli in senso stretto e conclude che questi sono riservati solo a Dio. Cosa avrebbe a che vedere con le maree? Nulla di miracoloso, ma solo una precisazione sulla distinzione tra ciò che può essere considerato miracolo e ciò che non è miracolo. Per non mancare in alcun modo, riporto l’intero capitolo 136:

 

Siccome tutto l’ordine delle cause seconde e la loro potenza viene da Dio, e come si è visto [capitolo 96], Dio non produce i suoi effetti per necessità di natura, ma per libera volontà, è chiaro che Dio può agire all’infuori dell’ordine delle cause seconde, come quando risana quelli che secondo l’agire della natura non possono essere risanati, oppure quando fa qualcosa che non è secondo l’ordine delle cause naturali. Tuttavia questi interventi sono secondo l’ordine della provvidenza divina, perché il fatto stesso che Dio faccia qualcosa al di fuori delle cause naturali è disposto da Dio per un certo fine. Ora, quando fatti del genere avvengono per opera di Dio al di fuori delle cause seconde, sono detti miracoli, perché è cosa mirabile vedere un effetto senza conoscerne la causa. Ora essendo Dio una causa a noi simpliciter [assolutamente] nascosta, quando qualcosa viene fatto da Dio al di fuori dell’ordine delle cause seconde che sono a noi note, si parla in modo assoluto di “miracolo”. Se invece una cosa viene fatta da una causa nascosta a questo o a quello, non si ha un miracolo in senso assoluto, ma solo rispetto a chi non conosce quella causa. Per questo motivo può accadere che una cosa appaia mirabile a uno e non a un altro, che invece conosce la causa.

Operare dunque in questo modo al di fuori delle cause seconde è solo di Dio, che è il creatore di questo ordine e non è obbligato a questo ordine, mentre invece tutti gli altri enti vi sono sottoposti. Per questa ragione fare dei miracoli è solo di Dio, secondo il detto del Salmista: «Egli solo compie prodigi» [Sal 72,18]. Perciò quando si vedono fare da qualche creatura dei miracoli, o non sono veri miracoli, dato che avvengono per qualche potenza naturale benché a noi nascosta, come quei prodigi che vengono compiuti dai demoni e che avvengono con arti magiche, oppure, se sono veri miracoli, vengono chiesti da qualcuno a Dio, perché operi questi prodigi. Siccome dunque questi prodigi avvengono solo per intervento divino, molto opportunamente vengono presentati come argomento a favore della fede, che è radicata solo in Dio. Infatti quando un uomo proclama qualcosa in virtù dell’autorità divina, per manifestarlo non c’è niente di meglio che le opere che Dio solo può compiere.

Questi miracoli poi, benché avvengano al di fuori dell’ordine delle cause seconde, non devono essere considerati contro natura, perché lo stesso ordine della natura ha questo di proprio: che le realtà inferiori sono soggette alle azioni delle superiori. E per questa ragione ciò che nei corpi inferiori avviene per l’influsso dei corpi celesti non si dice che avviene in senso assoluto contro la natura, anche se alle volte è contro la natura di questa o di quella cosa, come avviene nel moto delle acque per il flusso e riflusso del mare causato dall’attrazione della luna. E così pure ciò che capita alle creature per mezzo dell’azione di Dio, benché possa sembrare contro l’ordine particolare delle cause seconde, è tuttavia secondo l’ordine universale della natura. I miracoli non sono dunque contro la natura (Tommaso d’Aquino, Compendium Theologiae, I, cap. 136).

 

Questo capitolo presenta una ricchezza notevole, oltre ad essere da guida per capire e valutare tante cose che si verificano anche oggi.

Ma ciò che risultò incisivo per la canonizzazione di san Tommaso fu l’Ystoria Sancti Thomae De Aquino di Guglielmo da Tocco, che presentò a papa Giovanni XXII nel 1318 e che conobbe personalmente san Tommaso.

Infatti, Guglielmo da Tocco è stato postulatore del processo di san Tommaso:

 

Quando nel 1317 iniziò il processo che condusse alla canonizzazione di Tommaso d’Aquino il 18 luglio 1323, la procedura di canonizzazione pontificia era già codificata. È noto che il papato accettasse di aprire un’indagine se la domanda fosse stata accompagnata da un numero sufficiente di richieste da parte di personalità influenti. I postulatori intanto avevano già effettuato un’indagine preliminare di cui fornivano i risultati su richiesta. L’indagine propriamente detta – processus o informatio in partibus – veniva affidata a tre commissari, di cui almeno uno era un vescovo, ai quali il papa inviava lettere remissorie. Alcuni notai venivano incaricati di redigere le disposizioni in forma publica. A partire dal secondo terzo del XIII secolo, veniva istituita la figura del postulatore, ruolo che Guglielmo da Tocco ha rivestito nel processo di san Tommaso. Il postulatore doveva occuparsi delle questioni preliminari all’apertura del processo e aveva anche il compito di reperire i testimoni. Oggetto dell’indagine erano la vita e i miracoli del candidato alla santità. Nel corso del XIII secolo è possibile osservare un crescente interesse sulla santità di vita a detrimento dei miracoli, benché l’indagine su questi diventi più rigorosa (Guglielmo da Tocco, Storia di san Tommaso d’Aquino, a cura di D. Riserbato, Jaca Book, Milano 2015, pp. 14-15).

 

Per quel che riguarda il precedente anniversario della canonizzazione di san Tommaso, ossia il VI centenario, si rimanda alla lettera enciclica di papa Pio XI Studiorum ducem (29-06-1923). Ma ora occorre riportare un brano alquanto famoso, il Bene scripsisti, che non necessita di commenti, ma solo di meditazione:

 

A un prodigio simile, ma più stupefacente, assistette nel convento di Napoli frate Domenico di Caserta, sacrestano, uomo di grande devozione, sollecito e di virtù provata, che ricevette a sua volta, da sveglio, altre mirabili visioni.

Costui si era accorto che frate Tommaso lasciava sempre la sua camera, suo luogo di studio, per scendere in chiesa prima del Mattutino e che, per non essere visto, si affrettava a farvi ritorno alla squilla del Mattutino. Un giorno, preso da curiosità, decise di osservarlo. Entrato da dietro nella cappella di san Nicola, dove il maestro si attardava rapito nella preghiera, lo vide sospeso in aria a circa due cubiti dal suolo. Preso da stupore, si era soffermato a lungo ad ammirarlo, quando all’improvviso dal punto verso cui il nostro dottore era rivolto a pregare tra le lacrime, udì una voce che sembrava provenire dal crocifisso e che diceva: «Tommaso, hai scritto bene sul mio conto! Che cosa vuoi ricevere da me come ricompensa per il tuo lavoro?». E il dottore rispose: «Nient’altro che te, Signore!».

Stava scrivendo allora le questioni della terza parte della Summa, dedicate alla passione e alla resurrezione di Cristo, dopo le quali non scrisse più nulla a causa dello splendore di quelle realtà che Dio gli aveva mirabilmente rivelato. Segno chiarissimo che dovesse appunto interrompere la sua attività di scrittura, era il fatto che il Signore gli avesse già chiesto quale ricompensa ritenesse congrua per il suo lavoro, perché potesse godere in patria di Colui che in via gli aveva procurato tanta dolcezza scrivere su di lui, e che alla sua morte meritò di vedere più chiaramente degli altri, lui che più di tutti aveva compreso durante la vita (Guglielmo da Tocco, Storia di san Tommaso d’Aquino, a cura di D. Riserbato, Jaca Book, Milano 2015, pp. 171-172).

 

Cosa scrivere su questo evento che Bartolomeo di Capua colloca in data 6 dicembre 1273? Nulla più di quanto sia stato già riportato, che è solo un primo passo per capire quanto la teologia sviluppata da san Tommaso d’Aquino sia importante per la Chiesa e non solo.


Gabriele Cianfrani 

sabato 6 maggio 2023

TUTTO E' STATO FATTO PER MEZZO DI LUI


 

Nelle librerie e su Internet è disponibile il mio libro pubblicato pochi giorni fa dalla Tau Editrice: 

Tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Discorso sulla fede e sulla realtà (2023).

 

Dalla quarta di copertina:

Il lavoro si presenta come la riflessione dell’autore su alcuni temi riguardanti il percorso di vita cristiano. Il tutto prende spunto da due passi della Scrittura: «tutto è stato fatto per mezzo di lui» (Gv 1,3) e «[…] pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15). Pertanto, lo scopo è quello della testimonianza riflessiva circa alcuni contenuti della fede cristiana (cattolica), in modo che vi siano confronti tematici, cercando di porre in evidenza la linea del Magistero della Chiesa ed esprimendo che il senso ultimo si trova nel Verbo di Dio.


Estratto dalla prefazione del Prof. Carmelo Pandolfi:

Di ou tà pánta egéneto – per quem omnia facta sunt canta il Simbolo ripetendo il Prologo di Giovanni. Gabriele Cianfrani – lo sappiamo – sente visceralmente la densità del Lógos, tanto che sta pensando ad uno studio sulla convergenza tra lógos ed esse (tomista). 

Ma qui il lavoro non scende a tali profondità e si mantiene al livello di quella che, una volta, si chiamava Apologetica.

Non c'è dubbio che una apologetica razionalistica, elencatica e difensiva abbia in certa misura fallito. È anche vero che la reazione – la mancanza di Apologetica – ha fallito anche essa, perché ha prodotto un banale «volemose bene», offensivo del Bene stesso.

La soluzione sta dentro il mistero stesso del Lógos che è Gesù Cristo, nel senso che la dogmatica stessa è apologetica. La bellezza del dogma si difende da se stessa e va solo mostrata, come numero primo inderivato e autoconvincente. Come l’originalità assoluta di quel brano, quello lì, di Mozart. Così ha insegnato, e praticato lungo tutta la sua «Gloria», la teologia più bella e insieme colta fra i Moderni: quella di Balthasar.


P.S. Chiederei, a chi decidesse di acquistarlo, di contattarmi - anche tramite l'indirizzo email che si trova a pagina 316 -, dal momento che è in corso l'elaborazione dell'Errata Corrige in riferimento alle pagine 66 e 67, in modo da poterla inviare tramite email.


sabato 8 aprile 2023

DESCENDIT AD INFERI: IL SABATO SANTO


Nel Triduo pasquale, a volte, si pone attenzione quasi esclusivamente al Venerdì santo e alla Domenica di resurrezione, ma il Sabato santo risulta quasi una sorta di vuoto, una semplice attesa della Domenica (il giorno dopo il sabato). In realtà il Sabato santo è un giorno fondamentale del Triduo pasquale, anzi, è proprio nel Sabato santo che avviene quello sconvolgimento atteso da secoli e secoli. Quando il Simbolo apostolico riporta «discéndit ad inferi» (discese agli inferi), il riferimento è ad una realtà ben precisa. Infatti, nell’ Ufficio delle Letture di oggi, è riportata un’antica «Omelia sul Sabato santo»:

Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi. Certo egli va a cercare il primo padre, come la pecorella smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell’ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva che si trovano in prigione. Il Signore entrò da loro portando le armi vittoriose della croce. Appena Adamo, il progenitore, lo vide, percuotendosi il petto per la meraviglia, gridò a tutti e disse: «Sia con tutti il mio Signore». E Cristo rispondendo disse ad Adamo: «E con il tuo spirito». E, presolo per mano, lo scosse, dicendo: «Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà. […] Sorgi, allontaniamoci di qui. Il nemico ti fece uscire dalla terra del paradiso. Io invece non ti rimetto più in quel giardino, ma ti colloco sul trono celeste. Ti fu proibito di toccare la pianta simbolica della vita, ma io, che sono la vita, ti comunico quello che sono. Ho posto dei cherubini che come servi ti custodissero. Ora faccio sì che i cherubini ti adorino quasi come Dio, anche se non sei Dio. Il trono celeste è pronto, pronti e agli ordini sono i portatori, la sala è allestita, la mensa apparecchiata, l’eterna dimora è addobbata, i forzieri aperti. In altre parole, è preparato per te dai secoli eterni il regno dei cieli».

Non ci sarebbe altro da aggiungere, nonostante l’omelia non sia stata riportata interamente, ma è possibile qualche commento.

Anzitutto è questo il significato di quel meraviglio affresco dell’ἀνάστασις (anastasis) – è l’immagine sopra, scelta per l’articolo – che si trova nella Chiesa di San Salvatore in Chora (Instanbul), dal momento che Cristo, vero Dio e vero uomo, ha compiuto quella redenzione che anche i «giusti» che furono prima di Lui attendevano. Le due persone che nell’affresco si trovano a destra e a sinistra di Cristo, che le prende per mano, sono i progenitori Adamo ed Eva, portati via da quel soggiorno dei morti che va sotto il nome ebraico di Shéol, corrispondente a quello che in greco si chiama ade (cfr. Fil 2,10; At 2,24; Ef 4,9; Ap 1,18). Circa lo Shéol, il noto Dizionario di Teologia Biblica diretto da Xavier Leon-Dufour (e altri) riporta:

Il defunto «non è più» (Sal 39,14; Giob 7,8.21; 7,10): prima impressione di inesistenza, perché l’oltretomba sfugge alle prese dei viventi. Nelle credenze primitive, conservate a lungo dal VT [Vecchio Testamento], la morte non è tuttavia un annientamento totale. Mentre il corpo è deposto in una fossa sotterranea, qualcosa del defunto, un’ombra, sussiste nello šeol. Ma questi inferi sono concepiti in modo molto rudimentale: un buco spalancato, un pozzo profondo, un luogo di silenzio (Sal 115,17), di perdizione, di tenebre, di dimenticanza (Sal 88,12 s; Giob 17,13). Ivi tutti i morti radunati partecipano alla stessa misera sorte (Giob 3,13-19; Is 14,9 s), anche se vi sono gradi nella loro ignominia (Ez 32,17-32). […] Tale è la prospettiva desolante che la morte apre all’uomo per il giorno in cui dev’essere «riunito ai suoi padri» (Gen 49,29). Qui le immagini non fanno che dare una forma concreta ad impressioni spontanee che sono universali ed a cui si limitano ancora molti dei nostri contemporanei (pp. 642-643).

Nonostante vi sia molto da indagare sullo Shéol e soprattutto svolgere un confronto sull’oltretomba con altre religioni, cosa che in parte Leon-Dufour fa, si riporta il superamento dello Shéol grazie alla potenza divina:

Non è in potere dell’uomo salvare se stesso dalla morte: occorre la grazia di Dio, che solo è per natura il vivente. Quando perciò il potere della morte si manifesta sull’uomo, in qualsiasi modo, egli non può che rivolgere a Dio un appello (Sal 6,5; 13,4; 116,3). Allora, se è giusto, può nutrire la speranza che Dio «non abbandonerà la sua anima allo sheol» (Sal 16,10), «libererà la sua anima dagli artigli dello sheol» (Sal 49, 16). Una volta guarito o salvato dal pericolo, renderà grazie a Dio per averlo liberato dalla morte (Sal 18,17; 30; Giona 2,7; Is 38,17), perché appunto di una tale liberazione avrà fatto l’esperienza concreta. Ancor prima che le prospettive della sua fede abbiano superato i limiti della vita presente, egli saprà così che la potenza divina prevale su quella della morte e dello sheol: primo germe di una speranza che si evolverà infine in una prospettiva di immortalità. […] D’altronde la rivelazione, ancor prima di aprire a tutti simili prospettive, aveva illuminato di nuova luce l’enigma della morte dei giusti, attestandone la fecondità. Il fatto che il giusto per eccellenza, il servo di Jahve, sia colpito a morte e «strappato via dalla terra dei viventi», non è privo di significato: la sua morte è un sacrificio espiatorio offerto volontariamente per i peccati degli uomini; con essa si compie il disegno di Dio (Is 53,8-12). Si svela così in anticipo il tratto più misterioso dell’economia della salvezza, che la storia di Gesù porrà in atto. […] Fino a Cristo e senza di lui, c’era il regno della morte; Cristo viene e, con la sua morte, trionfa della morte stessa; da questo istante la morte cambia senso per la nuova umanità che muore con Cristo per vivere con lui eternamente (pp. 646-647).

Questo il breve percorso biblico fino ad arrivare al momento decisivo, ossia il Sabato santo. Da precisare che ciò non sarebbe stato possibile se l’incarnazione del Verbo non fosse avvenuta così com’è avvenuta, ossia l’unione ipostatica, sulla quale si tornerà in altra sede. Il discorso sull’unione ipostatica è così importante da determinare tutto il resto, oltre alla corretta comprensione di tanti fatti. La corretta comprensione dell’incarnazione evita tanti problemi che ultimamente sono emersi nuovamente, ai quali è possibile rispondere con chiarimenti risalenti a molti secoli fa. Uno dei problemi, ad esempio, riguarda la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, in riferimento alla quale si dice: «è venuto Gesù»; «ora Gesù si è trasformato nel pane e nel vino»; «adesso Gesù è venuto dal Cielo ed è nell’ostia». Non è così e un’impostazione simile sminuirebbe enormemente ciò che avviene nella conversione del pane e del vino, poiché sono questi elementi a «convertirsi», ma ciò rimanda ad un altro lavoro.

Tornando al Sabato santo, il Catechismo della Chiesa Cattolica riporta:

La Scrittura chiama inferi, Shéol o ̔Αιδην il soggiorno dei morti dove Cristo morto è disceso, perché quelli che vi si trovano sono privati della visione di Dio. Tale infatti è, nell’attesa del Redentore, la sorte di tutti i morti, cattivi o giusti; il che non vuol dire che la loro sorte sia identica, come dimostra Gesù nella parabola del povero Lazzaro accolto nel «seno di Abramo». «Furono appunto le anime di questi giusti in attesa del Cristo a essere liberate da Gesù disceso all’inferno». Gesù non è disceso agli inferi per liberare i dannati né per distruggere l’inferno della dannazione, ma per liberare i giusti che l’avevano preceduto. «La Buona Novella è stata annunciata anche ai morti…» (1Pt 4,6). La discesa agli inferi è il pieno compimento dell’annunzio evangelico della salvezza. È la fase ultima della missione messianica di Gesù, fase condensata nel tempo ma immensamente ampia nel suo reale significato e estensione dell’opera redentrice a tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, perché tutti coloro i quali sono salvati sono stati resi partecipi della redenzione (CCC, nn. 633-634).

Da questo si capisce che il Sabato santo non è un giorno di «vuoto» o una «semplice attesa», ma il pieno compimento della redenzione. Inoltre, il Catechismo Romano (o Tridentino) riporta notevoli precisazioni:

Con queste parole [discese all’inferno] riconosciamo che, in quel tempo, la medesima persona di Gesù Cristo fu nell’inferno e giacque nel sepolcro, il che non deve sorprendere. Infatti, come spesso abbiamo ripetuto, sebbene l’anima fosse uscita dal corpo, tuttavia la divinità non si separò mai né dall’anima né dal corpo. […] Qui il vocabolo in questione [inferno] vuole significare quelle nascoste sedi, in cui stanno le anime di coloro che non hanno conseguito la beatitudine celeste. La Sacra Scrittura offre molteplici esempi di questo uso. In san Paolo leggiamo: In nome di Gesù, ogni ginocchio si curvi, in cielo, in terra, nell’inferno (Filipp. II, 10). Negli Atti degli Apostoli, san Pietro assicura che Gesù Cristo N. S. risuscitò, dopo aver superato i dolori dell’inferno (Atti II, 24). Tali sedi non son tutte del medesimo genere. Una è quella prigione tenebrosa e orribile, nella quale le anime dei dannati giacciono in un fuoco perpetuo e inestinguibile, insieme agli spiriti immondi. In questo significato abbiamo i termini equivalenti di geenna, abisso, inferno propriamente detto. In secondo luogo c’è la sede del fuoco purgante, soffrendo nel quale, per un determinato tempo, le anime dei giusti subiscono l’espiazione, onde possano salire alla patria eterna, chiusa a ogni ombra di colpa. […] Una terza sede è quella in cui le anime dei santi furono ospitate prima della venuta di Gesù Cristo N. S. Esse vi dimorarono quietamente, immuni da ogni pena, alimentate dalla beatifica speranza della redenzione. […] Gesù Cristo scendendo nell’inferno liberò appunto le anime di questi giusti, aspettanti il Salvatore nel seno di Abramo. […] Tutti vi erano penetrati prigionieri; egli invece, libero e vincitore fra morti, vi entrò per debellare i demòni, dai quali essi erano tenuti prigionieri a causa della colpa originale. […] Così fu compiuta la promessa fatta al buon ladrone: Oggi sarai con me in paradiso (Luc. XXIII, 43). Questa liberazione dei buoni era stata molto tempo innanzi predetta da Osea con queste parole: O morte, io sarò la tua morte; o inferno, io sarò la tua distruzione (Os. XIII, 14); e dal Profeta Zaccaria: Per te, a causa del sangue del tuo patto, io ritirerò i tuoi prigionieri dalla fossa senz’acqua (Zac. IX, 11); nonché dal passo dell’Apostolo: Egli ha spogliato i principati e le potestà, offrendoli a spettacolo e trionfando di loro (Col. II,15).

Per concludere, sui passi sopra riportati occorrerebbe riflettere, ma soprattutto si capisce che Gesù, durante il Sabato, non stava «dormendo», ma stava salvando il mondo.


Gabriele Cianfrani  

 

martedì 4 aprile 2023

L'INGRESSO NELLA PASSIONE SALVIFICA


 

La prima lettura di Domenica 2 aprile (2023) è tratta dal libro di Isaia e il passo è uno dei cosiddetti «carmi del Servo» del Signore o «canti del Servo» del Signore, che in tutto sono quattro: Is 42,1-4; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12. In questo caso il riferimento è al secondo:

Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,

perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.

Ogni mattina fa attento il mio orecchio

perché io ascolti come i discepoli.

Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio

e io non ho opposto resistenza,

non mi sono tirato indietro.

Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,

le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;

non ho sottratto la faccia

agli insulti e agli sputi.

Il Signore Dio mi assiste,

per questo non resto svergognato,

per questo rendo la mia faccia dura come pietra,

sapendo di non restare confuso (Is 50,4-7).

 

La prima lettura termina qui, nonostante gli altri versetti. Ma ciò basta per trovare nel Vangelo secondo Matteo il riferimento a questo canto di Isaia:

Allora gli sputarono in faccia e lo percossero; altri lo schiaffeggiarono, dicendo: «Fa’ il profeta per noi, Cristo! Chi è che ti ha colpito?» (Mt 26,67);

Sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo (Mt 27,30).

Quel che serve per far capire è in che modo i testi profetici veterotestamentari siano stati compiuti da Cristo, o meglio, come i testi veterotestamentari abbiano trovato compimento in Cristo. Questo è molto importante, dal momento che Cristo è il Verbo di Dio ed è tale prima che Abramo fosse, come si legge nel Vangelo secondo Giovanni: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono» - «Ἀμὴν ἀμὴν λέγω ὑμῖν, πρὶν Ἀβραὰμ γενέσθαι ἐγὼ εἰμί» - «Amen, amen dico vobis, antequam Abraham fieret, ego sum» (Gv 8,58). Occorre prestare attenzione a quell’amen (si rimanda a questo articolo).

Anzitutto Cristo non afferma soltanto di essere prima di Abramo – già in questo vi è il rimando alla sua divinità –, ma afferma «Io Sono». Non si tratta di una semplice affermazione, dal momento che «Io Sono» è il nome che Dio rivelò a Mosè sul monte Sinai: Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi”» (Es 3,14). Tale nome, nella lingua ebraica, greca e latina risulta essere così: אֶהְיֶה֭ אֲשֶׁ֣ר אֶהְיֶ֑ה ; ἐγώ εἰμι ὁ ὤν; Ego sum qui sum. Il riferimento di Gesù al nome divino risulta alquanto chiaro, oltre al fatto che si intravede quella profonda intimità, tale che Egli e il Padre sono uno – Ego, et Pater unum sumus (Gv 10,30). Non si tratta affatto di quella posizione eretica conosciuta con il nome di «modalismo», con quella particolarità in Oriente conosciuta col nome di «sabellianismo» (lo stesso Dio, identificato col solo Padre, che si presenta come tale, come Figlio e come Spirito Santo, dal momento che questi sono semplici modi di presentazione, di apparire, e annullano la distinzione reale delle relazioni tra le Persone della Trinità), ma di una assoluta intimità da comportare che la distinzione tra le Persone della Trinità non riguardi la sostanza ma le relazioni, che sono reali e in Dio sono sussistenti.

Ora, vi sono tanti altri passi dell’Antico Testamento, oltre ai quattro canti del Servo, che prefigurano il Cristo (ad esempio Dt 18,15-19; 1Cr 17,13; Sal 2; 22; 110; Ger 31,31-34; Ez 11,14,21; Zc 9,9-10 e altri, che in questa sede non è possibile riportare, oltre ai vari studi che sono stati condotti sulla letteratura sapienziale). Infatti, studiosi riportano alcune tradizioni dell’Antico Testamento presenti nel Nuovo Testamento, come la tradizione legislativa, profetico-messianica, sapienziale, ognuna delle quali presenta i vari sviluppi. Senza andare per le lunghe, ciò che si vuole mettere in luce è che le tradizioni dell’Antico Testamento, compresi quei passi sopra riportati, pur essendo passi che sono collocati nel loro contesto storico, saranno letti a partire dall’evento Cristo, o meglio, dalla realtà di Cristo risorto. E questo è molto importante anche per capire il tipo di sacerdozio inaugurato da Cristo e per quale motivo è superiore a quello di tipo levitico e addirittura lo precede, cosa che viene messa in luce nella Lettera agli Ebrei, trattando anche della novità del santuario e quale sia il vero sacrificio. Ciò che deve emergere, soprattutto nella Settimana Santa, è il fatto che Cristo, Lógos eterno di Dio, è il criterio di lettura dell’inizio e della fine e che il trionfo di Cristo è totale, è compiuto.

Un grande studioso come Giuseppe Segalla riporta alcuni punti comuni che emergono nel Nuovo Testamento in base all’uso dell’Antico Testamento, ne riporto quattro:

1. Le tradizioni dell’A.T. sono lette a partire dalla realtà attuale e vivente del Cristo, Signore risorto, con un processo di reinterpretazione vitale e critica.

2. Perciò i motivi ed i modelli dell’A.T. vengono accettati, ma criticati e superati. La critica e il superamento sono dovuti ad un orientamento, che inizia già col Gesù terreno e che ha la sua ragione in un compimento che supera l’attesa e la promessa. La persona di Gesù rompe ogni schema.

3. L’interpretazione non è praticata in base a regole fisse e scientifiche, ma con molta libertà; sia utilizzando il metodo midrascico e rabbinico sia adattando i testi dall’A.T. alla nuova realtà storica.

4. Il principio fondamentale che domina l’interpretazione è quello escatologico, ossia quello del compimento in Cristo dell’A.T.: della legge, di ciò che hanno preannunciato i profeti e meditato i sapienti. In Cristo la storia della salvezza raggiunge il suo compimento.

Il Segalla conclude che è Cristo Gesù che rende attuale l’A.T. per la fede cristiana.[1]

Eloquente risulta essere l’inno ai vespri della Settimana Santa:

Ecco il vessillo della croce,

mistero di morte e di gloria:

l’artefice di tutto il creato

è appeso ad un patibolo.

 

Un colpo di lancia trafigge

Il cuore del Figlio di Dio:

sgorga acqua e sangue, un torrente

che lava i peccati del mondo.

 

O albero fecondo e glorioso,

ornato d’un manto regale,

talamo, trono ed altare

al corpo di Cristo Signore.

 

O croce beata che apristi

le braccia a Gesù redentore,

bilancia del grande riscatto

che tolse la preda all’inferno.

 

Ave, o croce, unica speranza,

in questo tempo di passione

accresci ai fedeli la grazia,

ottieni alle genti la pace. Amen.

 

La conferenza vespertina del sermone 18 (Germinet terra) di san Tommaso d’Aquino, che rimanda alla Esaltazione della Croce, chiarifica il tipo di vittoria di Cristo e in che modo Egli vinse per tutto il genere umano, cosa che oggi, purtroppo, rimane così implicita quasi da scomparire. Ecco il passo estratto dal sermone dell’Angelico:

 

In primo luogo dico che l’albero della Croce è adatto a essere il nostro rimedio in quanto corrisponde alla ferita. Il genere umano venne ferito dall’albero, poiché il primo uomo mangiò dell’albero proibito; e così la divina Sapienza ricavò dall’albero la medicina. Il genere umano fu ferito dalla disobbedienza: infatti il primo uomo colse avidamente il frutto dell’albero proibito; ed ecco che l’uomo nuovo quasi come frutto salutare restituì se stesso all’albero. Perciò il Salmista (Sal 69 [68],5) dice: «Quanto non rapinai, io restituivo». Egli restituì se stesso all’albero per ricompensare il danno e portare il rimedio; perciò Sap 14,7 dice: «È benedetto l’albero per mezzo del quale si compie la giustizia».[2]

 

Questo passo dell’Angelico è così profondo che ogni (mio) commento risulterebbe una storpiatura, per cui preferisco lasciarlo alla riflessione personale.  

 

Gabriele Cianfrani 

 



[1] G. Segalla, La cristologia del Nuovo Testamento, Paideia Editrice, Brescia 1985, pp. 65-66.

[2] Tommaso d’Aquino, I sermoni (Sermones) e le due lezioni inaugurali (Principia), a cura di C. Pandolfi e P. Giorgio Maria Carbone O.P., Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2003, p. 276.


lunedì 19 dicembre 2022

ET VERBUM CARO FACTUM EST, ET HABITAVIT IN NOBIS

 


Così si legge nel Vangelo secondo Giovanni (1,14), ossia che «il Verbo si fece carne/carne si fece, e venne ad abitare in noi», proprio quel Verbo, quel Lógos per mezzo del quale tutto fu fatto e senza di lui non fu fatto nulla di ciò che è stato fatto (1,3). Alcuni studi evidenziano che sarebbe meglio propendere per un’altra traduzione: «e il Lógos carne si fece e si accampò/si attendò fra noi» (Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν), e ciò con evidenti riferimenti alla «tenda» (σκηνή, skēné) di Es 33,7-11:

Mosè ad ogni tappa prendeva la tenda e la piantava fuori dell’accampamento, lontano dall’accampamento, e l’aveva chiamata tenda del convegno. Chiunque ricercava il Signore usciva verso la tenda del convegno, che era fuori dell’accampamento. Quando Mosè usciva verso la tenda, tutto il popolo si alzava e ognuno stava all’entrata della propria tenda e seguiva Mosè con lo sguardo finché entrava nella tenda. Quando Mosè entrava nella tenda, la colonna di nube scendeva e stava all’ingresso della tenda; ed Egli parlava a Mosè. Tutto il popolo vedeva la colonna di nube che stava all’entrata della tenda: tutto il popolo si alzava e ognuno si prostrava all’ingresso della propria tenda. Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con il suo vicino: poi tornava all’accampamento.

Il richiamo al passo biblico sopra riportato è di estrema importanza, dal momento che la «tenda» indicava la presenza di Dio, o meglio, la dimora di Dio in mezzo al popolo d’Israele nel deserto (cfr. anche Es 25-26). La colonna di nube è una chiara allusione alla presenza di Dio in quel momento, e non a caso il riferimento alla potenza dell’Altissimo che coprirà con la sua ombra la Beata Vergine si riscontra nell’annuncio dell’angelo celeste. L’autore del quarto Vangelo conosceva benissimo la Scrittura (a quel tempo la Legge e Profeti)[1], per cui bisogna considerare sempre questo dato. Infatti, se a quel tempo la dimora di Dio presso il popolo d’Israele era rappresentata dalla «tenda del convegno», con l’incarnazione del Lógos il salto è enorme: Dio è ormai presente in mezzo al suo popolo stabilmente, dal momento che ha assunto natura umana, ossia carne si fece.[2] Ciò è collegato, ovviamente, con il sacrificio sulla croce, che è lo scopo della venuta della seconda Persona della Santissima Trinità. Al riguardo, risulta particolarmente importante quanto è riportato nel Catechismo della Chiesa Cattolica, ossia il motivo dell’incarnazione del Verbo:

n. 456: con il Credo niceno-costantinopolitano rispondiamo confessando: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo»;

n. 457: il Verbo si è fatto carne per salvarci riconciliandoci con Dio: è Dio «che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10). «Il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo» (1Gv 4,14). «Egli è apparso per togliere i peccati» (1Gv 3,5);

n. 458: il Verbo si è fatto carne perché noi così conoscessimo l’amore di Dio: «In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita per lui» (1Gv 4,9). «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16);

n. 459: il Verbo si è fatto carne per essere nostro modello di santità: «Prendete il mio giogo su di voi e imparate da me…» (Mt 11,29). «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). E il Padre, sul monte della trasfigurazione, comanda: «Ascoltatelo» (Mc 9,7). In realtà, egli è il modello delle beatitudini e la norma della Legge nuova: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 15,12). Questo amore implica l’effettiva offerta di se stessi alla sua sequela;

n. 460: il Verbo si è fatto carne perché diventassimo «partecipi della natura divina» (2Pt 1,4): «Infatti, questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, Figlio dell’uomo: perché l’uomo, entrando in comunione con Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio»[3]; «Infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio»[4]; «Unigenitus […] Dei Filius, Suae divinitatis volens nos esse participes, naturam nostram assumpsit, ut homines deos faceret factus homo – L’unigenito […] Figlio di Dio, volendo che noi fossimo partecipi della sua divinità, assunse la nostra natura, affinché, fatto uomo, facesse gli uomini dei».[5]

Questi sono, in breve, i motivi che rispondono alla domanda: perché il Verbo si è fatto carne?

Ora, è chiaro che il riferimento principale è quello circa la salvezza degli uomini nella riconciliazione con Dio, ma la partecipazione alla natura divina, che meriterebbe di essere trattata in altra sede, ha la sua «fondamentale» importanza. Tuttavia, oltre ai peccati in genere, la questione che non può essere persa di vista è quella della colpa di origine, ossia del peccato originale. Infatti, intaccare la rivelazione sul peccato originale vuol dire attentare al mistero di Cristo.[6]

La conseguenza estrema del peccato originale – vi sarebbe da esporre in che modo l’uomo fu creato e in quale stato, per capire pienamente – è stata la «morte»:

Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità e lo ha fatto a immagine della propria natura; ma per invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza quanti sono del suo numero (Sap 2,23-24).

Non bisogna incorrere nell’errore di una sorta di immortalità naturale, poiché l’uomo, come ogni essere vivente sottoposto al movimento (generazione-corruzione) è mortale. L’immortalità – e ciò che ne sarebbe scaturito – era conferita nello stato di grazia da Dio stesso[7], il quale stato consentiva la perfetta armonia tra l’anima e il corpo (giustizia originale). Con la colpa d’origine questa armonia venne meno e la conseguenza più dura fu l’esperienza della morte, non solo fisica. Ora, per non andare nel sottile, sono chiare le parole di Cristo in riferimento alla morte e cosa questa abbia a che fare con la sua venuta:

Le dice Gesù: «Tuo fratello risorgerà». Gli risponde Marta: «So che risorgerà nella risurrezione all’ultimo giorno». Le disse Gesù: «Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se morisse, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai. Credi tu a ciò?». Gli dice: «Sì, Signore. Io ho creduto che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, quello che deve venire nel mondo» (Gv 11,23-27).

Il contesto è quello della risurrezione di Lazzaro. Ebbene, in ultimo, Cristo è venuto per ristabilire quella vita che è la piena comunione con Dio, l’accesso alla patria celeste, perso anzitutto col peccato d’origine e concesso nuovamente da Cristo stesso per mezzo del suo sacrificio. Al riguardo, è certamente illuminante quanto riportato nel Catechismo Romano (Tridentino):

n. 48: in realtà se tutti gli uomini muoiono nel primo [Adamo], tutti sono richiamati a vita nel secondo [Cristo]. E come Adamo è stato il padre del genere umano nell’ordine di natura, così Gesù Cristo è per tutti l’autore della grazia e della gloria (Rom. V,14). Parimente si può stabilire un’analogia fra la Vergine Madre, seconda Eva, e la prima […]. Avendo creduto alle lusinghe del serpente (Gen. III,6), Eva attirò sul genere umano la maledizione e la morte; avendo Maria creduto all’annuncio dell’angelo, fece sì che la bontà di Dio ridonasse agli uomini benedizione e vita. A causa di Eva nasciamo figli della collera (Efes. II,3); ma da Maria ricevemmo Gesù Cristo, per merito del quale siamo rigenerati come figli della grazia;

n.51: mentre mediteranno tutto ciò, i fedeli non dimenticheranno che Dio volle sottostare all’umile fragilità della nostra carne, affinché il genere umano fosse innalzato al più alto livello della dignità.

Questi testi sono molto chiari. Pertanto, il Lógos si è incarnato principalmente per ciò e continua ad essere presente per mezzo della Chiesa, suo corpo mistico. In che modo? Principalmente attraverso i «sacramenti» e soprattutto con la santa «Eucaristia».

Per concludere, le parole del Doctor Angelicus risultano alquanto limpide:

Benché il primo peccato del progenitore abbia infettato tutta la natura umana, questa al contrario non ha potuto essere riparata per la sua penitenza o per qualsiasi merito. È chiaro infatti che la penitenza di Adamo o qualsiasi altro suo merito fu un atto della persona singola; ora, l’atto di un individuo non ha alcuna influenza su tutta la natura della specie [umana]. […] Quindi il merito singolare di Adamo, o di qualsiasi altro puro uomo, non ha potuto essere sufficiente per reintegrare tutta la natura umana. Che poi per un atto singolo del primo uomo sia stata viziata tutta la natura umana avvenne per accidens, in quanto, privato lui dello stato di innocenza, [l’innocenza] non poteva attraverso di lui derivare negli altri. […] ora, la grazia non si acquista con i meriti, ma è concessa gratuitamente da Dio: perciò, come il primo uomo ebbe all’inizio la giustizia originale non per proprio merito, ma per un dono divino, così molto meno la poté meritare mediante la penitenza, o compiendo qualsiasi altra opera, dopo il peccato. […] Era dunque conveniente che Dio si facesse uomo, così che uno solo potesse nello stesso tempo riparare e soddisfare. Ed è questa la causa della divina incarnazione che viene indicata dall’Apostolo quando afferma: «Cristo Gesù è venuto in questo mondo per salvare i peccatori» [1Tm 1,9-11].[8]

Insomma, quello del Natale è senza dubbio un tempo di dolcezza, di vicinanza, di luce, di calore – anche se la stagione è quella invernale –, di regali ecc. Ma è bene ribadire che qualora mancasse il riferimento a Cristo, o meglio, «al» Cristo, tutto ciò non avrebbe alcun senso… Nemmeno uno. Con il Cristo e in riferimento a Lui, tutto raggiunge il senso ultimo. Pertanto, in questa novena di Natale, il mio augurio è che si possa certamente ritrovare l’unità e la pace, ma in Cristo, il quale dà la pace ma non come la dà il mondo, e che si riscopra la vita cristiana scaturita dai sacramenti, ultimamente così poco considerati e che invece sono il prolungamento di Cristo in mezzo a noi, in mezzo alla sua Chiesa.


Gabriele Cianfrani                          



[1] In merito alla «questione dell’autore» del quarto Vangelo vi sono diverse posizioni da parte di studiosi di notevole spessore (Martin Hengel, Raymond Edward Brown, Xavier Leon-Dufour, Rudolf Schnackenburg e altri), per cui non è possibile neanche accennare alla quesitone. La modesta opinione di chi scrive rimanda alla origine apostolica dei quattro Vangeli, da intendere come riporta la Dei Verbum: la Chiesa ha  sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i quattro Vangeli siano di origine apostolica. Infatti, ciò che gli Apostoli per mandato di Cristo predicarono, dopo, per ispirazione dello Spirito Santo, fu dagli stessi e da uomini della loro cerchia tramandato in scritti, come fondamento della fede, cioè l’Evangelo quadriforme, secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni (Conc. Vat. II, Dei Verbum; cfr. Ireneo di Lione, Adversus haereses, III, 11,8: PG 7,885). In questo estratto vi sono tantissimi elementi, ma che per evidenti motivi di estensione non è possibile sviluppare.

[2] Appare così in questa frase un’allusione all’antica Tenda dell’Incontro, dimora di Dio fra gli israeliti durante la loro peregrinazione per il deserto, nella prima epoca di Israele (Es 33,7-10), e rimpiazzata più tardi dal santuario di Gerusalemme (2Sam 7,1-13; 1Re 5,15-19; 6,1ss.). Quella presenza di Dio è ormai sostituita da questa: la tenda di Dio, il luogo dove egli abita in mezzo agli uomini, è un uomo, una «carne» (J.Mateos – J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni. Analisi linguistica e commento esegetico, Cittadella Editrice, Assisi 20165,p.63).

[3] Ireneo di Lione, Adversus haereses, III, 19,1: PG 7,939.

[4] Atanasio di Alessandria, De Incarnatione, 54,3: PG 25,192.

[5] Tommaso d’Aquino, Officium de festo corporis Christi, Ad Matutinas, In primo Nocturno, Lectio 1.

[6] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 389.

[7] È insegnamento ormai della Chiesa quello riguardante i doni preternaturali (integrità, immortalità, impassibilità, scienza infusa) e il dono soprannaturale (grazia santificante), come riportato nel Catechismo Maggiore di san Pio X, n. 57. L’armonia che vi fu in questo stato di grazia e la partecipazione alla vita divina è chiamata «santità originale» (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 375).

[8] Tommaso d’Aquino, Compendio di teologia, I, cc. 198-200.