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martedì 14 luglio 2020

LA PAROLA "RIVELAZIONE"

luglio 14, 2020 Posted by Gabriele Cianfrani , , No comments

La parola «Rivelazione», molte volte pare che sottintenda un riferimento diretto alla Scrittura, ossia alla Bibbia in quanto tale: Bibbia è una parola che viene dal greco e che vuol dire «libri» (biblia). Ma in realtà, il termine greco che corrisponde a «rivelazione» è apokalypsis, e l’ultimo libro della Bibbia è appunto l’Apocalisse. Pertanto, l’ultimo libro della Bibbia, non ha a che vedere con quella catena catastrofica sotto la quale tantissime volte lo si presenta. Ma non è questa la sede per questo approfondimento che, in ogni tempo della storia, è risultato e risulta sempre impegnativo... ma assolutamente possibile!

Quando in sede teologica si utilizza la parola «Rivelazione», pare che il riferimento sia immediatamente alla «Scrittura» (la Bibbia). Questo è giusto, ma in parte, poiché come le strade, o meglio, i canali della Rivelazione dalla quale scaturiscono sono «due», non uno soltanto. Questi canali sono la Sacra Scrittura e la Tradizione apostolica, le quali non possono essere separate: l’una non potrebbe permanere se mancasse l’altra e viceversa. Ma questo merita uno sguardo a parte, per il momento sarebbe meglio chiarire cosa si intenda per la parola «Rivelazione», e per questo si prenderà come riferimento principale quel mirabile documento del Concilio Vaticano II che è la Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, ossia la Dei Verbum.

Intanto è estremamente importante notare come si presenta l’indice del documento, poiché nulla è lasciato al caso: Proemio; 1. La rivelazione; 2. La trasmissione della divina rivelazione; 3. L’ispirazione divina e l’interpretazione della Sacra Scrittura; 4. Il Vecchio Testamento; 5. Il Nuovo Testamento; 6. La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa.

Ora, seguendo la Dei Verbum, alla domanda su cosa sia la Rivelazione, la riposta immediata la si rintraccia all’inizio del primo capitolo:

Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (Cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (Cfr. Ef 2,18; 2Pt 1,4).

Dunque è possibile capire che con la parola «Rivelazione» si intende: Dio che rivela se stesso e la sua volontà salvifica nei confronti dell’uomo, e questo lo fa nella storia, la quale prenderà il nome di «storia della salvezza», che ha Cristo come mediatore e come pienezza di tutta la Rivelazione.

Ma la parola «Rivelazione» viene dal latino (re-velatio) e il primo senso è quello di «scoprire», «svelare». Vi è un altro senso, che è quello di «velare nuovamente», ossia «mettere nuovamente il velo».

Il punto è che entrambi i sensi sono corretti, per cui la Rivelazione è sia svelamento sia rivelamento. In ciò si capisce che Dio certamente si fa conoscere (svelamento) – importante in merito alla conoscibilità di Dio –, ma resta sempre l’ineffabile, colui che trascende assolutamente questa realtà, pertanto permane sempre quel Mistero (rivelamento) – importante in merito alla incomprensibilità di Dio, nel senso che non è possibile comprendere l’infinità di Dio, nonostante vi sia accesso alla sua conoscibilità, che fa sì che possiamo parlare, e anche correttamente, di Dio.

Pertanto, la Rivelazione ci fa conoscere Dio poiché è lui che si fa conoscere, ma ciò non esaurisce il suo Mistero. Per questo san Paolo si esprime chiaramente: «Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto» (1Cor 13,12).

Importante il fatto che Dio vuole comunicare la propria vita divina agli uomini da lui liberamente creati, per farli figli adottivi nel suo unico Figlio. Rivelando se stesso Dio vuole rendere gli uomini capaci di rispondergli, di conoscerlo e di amarlo ben più di quanto sarebbero capaci da se stessi (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 52). 


mercoledì 24 giugno 2020

24 GIUGNO - SOLENNITA' DELLA NATIVITA' DI SAN GIOVANNI BATTISTA

giugno 24, 2020 Posted by Gabriele Cianfrani , , , No comments


San Giovanni il Battista (Giovanni, dall’ebr. Yehōchānān = “Il Signore ebbe misericordia”; “il Signore è misericordioso”) nacque in quella città di Giuda identificata con Ain-Karim (Cfr. Lc 1,39) intorno al 7 a.C., dai santi Zaccaria ed Elisabetta. Fino ai giorni della sua manifestazione a Israele visse per regioni deserte (Cfr Lc 1,80) e nel 27 d.C. la parola di Dio venne su di lui. Percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati (Lc 3,3). La decapitazione del Battista è riportata in Mt 11,6-12 e Mc 6,24-29, avvenuta probabilmente nella fortezza di Macheronte.

Scrivere su san Giovanni il Battista è compito arduo, poiché la sua profondità è spaventosa tanto che fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui (Mt 11,11). Tra i santi, oltre alla Beata Vergine Maria, del Battista si celebra non solo la morte (29 agosto) ma anche la nascita terrena, anzi, la nascita è solennità (24 giugno).

Come prima cosa verrebbe da riportare un’espressione che si sente sempre e che ha un significato ben preciso: Una voce grida: « Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata » (Is 40,3-4). Questo è il passo del libro di Isaia (Deutero-Isaia o Secondo Isaia che comprende i capitoli che vanno dal 40 al 55, anche se tale divisione è discussa), che in Lc 3,4-6 è riferito al Battista, e i due punti (:) andrebbero posti proprio come sopra e non dopo la parola “deserto”. Tale passo è di una profondità enorme! Forse il primo pensiero che spunta nella mente potrebbe essere quello che considera il “deserto” come un luogo di assenza, per cui chi parla nel deserto non ottiene nessun risultato, poiché nel deserto vi è quel “vuoto”, quell'assenza di persone per cui nessuno può ascoltare. Quante volte si sente dire: « Parla, parla, tanto nessuno ti ascolta! Parli a vuoto! Parli nel deserto! », e magari pronunciare queste parole con un certo riferimento al Battista... Ma la realtà è ben diversa, o meglio, è il contrario di tutto ciò, dato che tutti dovevano ascoltare le parole del Battista e credergli (Cfr. Gv 1,7c).

In ebraico, uno dei vocaboli più usati per indicare il deserto è midbār, e il deserto è il “luogo della Parola” per eccellenza. Non a caso alcune volte si trova un gioco di parole rabbinico tra il deserto (midbār) e la parola (dābār), come ad indicare che il deserto è il luogo per eccellenza non soltanto per la parola in quanto tale ma anche per l’ascolto. Inoltre, è cosa buona precisare che dābār, all’origine, oltre che la parola stessa indicava il contenuto di una precisa parola, per cui si va nel cuore, nel significato di una parola, e ogni parola ha la sua importanza. Non solo, ma il deserto è il luogo della formazione del popolo d’Israele in cui Dio stesso opera (Cfr. Es 15,22; 16,8-13; 14-15), fino al deserto del Sinai (Cfr. Es 19,1). E con ciò siamo arrivanti al momento fondante del popolo d'Israele, della sua identità, ossia l’Alleanza sul Sinai (Cfr. Es 20).

Il deserto, per Israele, ha un valore teologico ed esistenziale fondante in cui Dio opera per la salvezza del suo popolo (Cfr. Nm 21)! Il deserto è il luogo dell’incontro con Dio (Cfr. Os 2,16). Nel Vangelo secondo Giovanni troviamo dei momenti, riguardanti il deserto nel tempo dell’esodo, che sono prefigurazioni del Cristo (Cfr. Gv 3,14; 4; 6,30-66).

Insomma, il Battista dice che nel deserto occorre preparare la via al Signore poiché il deserto è il luogo per eccellenza dell’incontro con Dio. Infatti, nel deserto, anche considerato solo geograficamente, è perfettamente udibile ogni parola. Pertanto, il Battista resterà sempre quella voce della verità di Dio contro ogni altra voce che si oppone, quella testimonianza della Luce contro ogni forma di tenebra (Cfr. Gv 1,7). Da ricordare il profondissimo momento dell'incontro tra la Vergine Maria ed Elisabetta (Lc 1,39-56), per il quale occorre uno spazio particolare. Ma occorre ricordare un altro dato, oggi notevolmente evidente: l'assenza di inviti alla "conversione". Tale assenza comporta uno svuotamento dell'importanza del Battesimo, e infatti è uno dei sacramenti meno capiti, nonostante sia il primo sacramento dell'iniziazione cristiana (Battesimo, Confermazione/Cresima ed Eucaristia/Comunione) mediante il quale viene conferita per la prima volta la "grazia santificante" e tutto ciò che tale grazia comporta, a partire da quella rigenerazione che ci fa "figli adottivi" di Dio e membra vive della Chiesa in quanto corpo di Cristo. 

Tanto ci sarebbe da scrivere e difficilmente si troverebbero le parole adatte per un santo come il Battista, per questo mi sento di concludere con le parole di quel cantico straordinario del padre del Battista, ossia Zaccaria:

 

« Benedetto il Signore, Dio d’Israele,

perché ha visitato e redento il suo popolo,

e ha suscitato una salvezza potente

nella casa di Davide, suo servo,

come aveva promesso

per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:

salvezza dai nostri nemici,

e dalle mani di quanti ci odiano.

Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri

e si è ricordato della sua santa alleanza,

del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre,

di concederci, liberati dalle mani dei nemici,

di servirlo senza timore, in santità e giustizia

al suo cospetto, per tutti i nostri giorni.

E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo

perché andrai davanti al Signore a preparargli le strade,

per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza

nella remissione dei suoi peccati.

Grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio,

per cui verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge,

per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre

e nell'ombra di morte,

e dirigere i nostri passi

 sulla via della pace » 

(Lc 1,68-79).





Gabriele Cianfrani

martedì 23 giugno 2020

IL TERMINE "EBREO"

giugno 23, 2020 Posted by Gabriele Cianfrani , No comments


Il temine «ebreo» ha radici molto profonde, che ovviamente si trovano nella Scrittura. In tal caso occorre rivolgere l’attenzione a un altro temine, fondante il primo, ossia ‘ibrī.

La parola ‘ibrī, da cui quella di ebreo, in ebraico si scrive עברי, e la lingua ebraica si legge da destra a sinistra. Ora, stando all'alfabeto ebraico avremo:

ע(ain) ב(bet) ר(resh) י(iod)

Stando ad accurati studi in merito, la prima traccia dell’origine della parola “ebreo” la si potrebbe trovare proprio nella Scrittura (la Bibbia), ossia in Gen 10,21, dove si legge: «Anche a Sem, fratello maggiore di Iafet e capostipite di tutti i figli di Eber, nacque una discendenza». Ora, il temine che ci interessa è ‘ibrī, il quale si trova nell’Antico Testamento in relazione ai figli d’Israele – e solo a loro – che si trovano in Egitto, come si può constatare in Gen 39, Es 10 e in altri passi. Il termine ‘ibrī, indicante appunto quello di “ebreo”, che troviamo in Gen 14,13 riguardante “Abramo l’Ebreo” e i suoi discendenti, potrebbe esser fatto risalire proprio al suo antenato “Eber” (Cfr. Gen 10,21-24; 11,14-15). Questo collegamento pone in luce la promessa fatta da Dio a Sem (Cfr. Gen 9,26-27) con la rivelazione ricevuta da Abramo. Tale lode (Gen 9,26-27) la si ritrova in Gen 14,19-20 che vede la figura di Melchìsedek.

Ma il temine ‘ibrī non gode di grande omogeneità, dacché alle volte è impiegato anche per indicare i non-israeliti. In tal caso è utile ricordare che il temine “israelita” deriva dall'appartenenza al popolo d’Israele (o “figli d’Israele”), il quale popolo è tale in quanto discende dai dodici figli di Israele, il cui nome divenne di Giacobbe in seguito alla lotta con un “essere soprannaturale”: Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!» (Gen 32,28-29).

Ma pur non godendo sempre di omogeneità, il termine ‘ibrī viene adoperato in contesti etnici, così come nel Nuovo Testamento il termine «Ebrei» indica la distinzione dei Giudei dai non-Giudei.

A prescindere da questi ultimi aspetti, che sicuramente meritano ulteriore approfondimento, il termine “ebreo” pone le sue radici in “Eber”, il quale discende da Sem. Ma da Sem discende non solo Eber ma anche Abramo, e infine Gesù di Nazareth (Cfr. Lc 3,23-38).


domenica 14 giugno 2020

SOLENNITA' DEL CORPUS DOMINI



  

Tale Solennità esprime incisivamente la presenza «reale» del corpo di Cristo nell’Eucaristia, ogniqualvolta vi è la consacrazione del pane e del vino. E questo si ripete in ogni Messa, affinché l’uomo possa sempre più partecipare allo stesso sacrificio di Dio (Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1322) e affinché si possa sempre più attuare davvero ciò che i Padri della Chiesa (sant’Ireneo, sant’Atanasio ecc.) non si stancavano mai di ripetere: «il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio - partecipando di Dio stesso». «Perché l’uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio» (Ireneo di Lione, Adversus haereses, III,19,1) Motivo, questo, che segue quello della espiazione della colpa d’origine.

 

L’Eucaristia è davvero fonte e apice di tutta la vita cristiana (Conc. Vat. II, Lumen Gentium, n. 11) e tutte le preghiere del mondo e le azioni più generose che vi possano essere, per quanto siano lodevoli ed edificanti, sia per la persona che le compie sia per chi le riceve, non fanno una sola Messa. Questo è stato espresso mirabilmente da tutti quei santi che si conoscono:

«Tanto vale la Celebrazione della Santa Messa, quanto vale la Morte di Gesù in Croce» (san Tommaso d’Aquino);

«Sarebbe più facile che la Terra si reggesse senza Sole, anziché senza la Santa Messa» (san Padre Pio da Pietrelcina);

«Dio Stesso non può fare che vi sia un’azione più santa e più grande della Celebrazione di una Santa Messa» (Sant’Alfonso de' Liguori);

«L’uomo deve tremare, il mondo deve fremere, il Cielo intero deve essere commosso, quando sull’Altare, tra le mani del sacerdote, appare il Figlio di Dio» (San Francesco d’Assisi).

 

 

La storia

 

La solennità del Corpus Domini trova origine nel secolo XIII, per due motivi: quanto al primo motivo per contrastare ciò che avanzava il vescovo Berengario di Tours, il quale aveva affermato la «non reale» presenza di Cristo nell’Eucaristia, ma solo simbolica. Questo andò avanti fino a quando Berengario ritrattò la sua posizione e la verità sulla presenza reale di Cristo nell’Eucaristia verrà definita dogmaticamente nel Concilio Lateranense IV (1215). Quanto al secondo motivo, abbiamo santa Giuliana di Cornillon (1193-1258), la quale raccontò di una visione in cui era presente una luna splendente ma con una macchia che deturpava la luna stessa. Ciò venne interpretato come la mancanza di una festa liturgica in merito all’Eucaristia, e il vescovo di Liegi Roberto di Thourotte nel 1246 istituì la festa del Corpus Domini nella sua diocesi, e tale gesto fu ripetuto anche da altri vescovi. Ma non finisce qui, poiché a tutto ciò si aggiunge come suggello il miracolo di Bolsena avvenuto nel 1263. Un sacerdote, identificato con Pietro da Praga, tutte le volte che celebrava la Messa veniva assalito da forti dubbi in merito alla presenza reale di Cristo nell’Eucaristia e per questo decise di andare a Roma, dove avrebbe pregato sulle tombe degli Apostoli per ricevere una risposta. Durante il viaggio fece tappa a Bolsena e celebrò la Messa. Venne assalito ancora una volta da questi dubbi, fino a quando, proprio nel momento della consacrazione dell’ostia vide da questa gocciolare del sangue, tanto che le gocce bagnarono anche il corporale, ossia il panno di lino che durante le funzioni liturgiche ricopre gli elementi sacri. Inizialmente, terrorizzato da quanto accaduto, decise poi di renderlo manifesto, e in quel periodo si trovava a Orvieto Papa Urbano IV - la successiva storia del duomo di Orvieto è legata in particolare al miracolo eucaristico di Bolsena -, il quale incaricò il vescovo di Orvieto di verificare quel che era accaduto, con la presenza anche di san Tommaso d’Aquino e di san Bonaventura da Bagnoregio. Riconosciuto il fatto, l’11 agosto del 1264, Papa Urbano IV estese la festa del Corpus Domini a tutta la chiesa, mediante la bolla «Transiturus de hoc mundo». E proprio per incarico di Papa Urbano IV si dovette comporre un inno in merito alla Eucaristia, e tra diversi inni di diversi teologi del tempo, il Papa scelse quello di san Tommaso d’Aquino, il quale divenne l’inno eucaristico per eccellenza della Chiesa Cattolica. Si tratta del meraviglioso «Pange Lingua (Gloriosi)», in cui si trova il «Tantum Ergo Sacramentum».



Pange Lingua (Gloriosi)


Pange, lingua, gloriósi Córporis mystérium, Sanguinisque pretiosi, Quem in mundi pretium Fructus ventris generosi Rex effudit gentium.

Nobis datus, nobis natus Ex intacta Virgine, Et in mundo conversatus, Sparso verbi semine, Sui moras incolatus Miro clausit ordine.


In supremæ nocte cenæ recumbens cum fratribus, observata lege plene cibis in legalibus Cibum turbæ duodenæ se dat suis manibus.

Verbum caro, panem verum verbo carnem efficit: fitque sanguis Christi merum, et si sensus deficit, ad firmandum cor sincerum sola fides sufficit.

Tantum ergo sacramentum veneremur cernui, et antiquum documentum novo cedat ritui; præstet fides supplementum sensuum defectui.

Genitori Genitoque laus et iubilatio, salus, honor, virtus quoque sit et benedictio; Procedenti ab utroque compar sit laudatio. Amen.


(San Tommaso d'Aquino)



Traduzione in italiano:

Canta, o mia lingua, il mistero del Corpo glorioso e del Sangue prezioso che il Re delle nazioni, frutto benedetto di un grembo generoso, sparse per il riscatto del mondo.

Si è dato a noi, nascendo per noi da una Vergine purissima, visse nel mondo spargendo il seme della sua parola e chiuse in modo mirabile il tempo della sua dimora quaggiù.

Nella notte dell'Ultima Cena, sedendo a mensa con i suoi fratelli, dopo aver osservato pienamente le prescrizioni della legge, si diede in cibo agli apostoli con le proprie mani.

Il Verbo fatto carne cambia con la sua parola il pane vero nella Sua carne e il vino nel Suo sangue, e se i sensi vengono meno, la fede basta per rassicurare un cuore sincero.

Adoriamo, dunque, prostrati un sì gran sacramento; l'antica legge ceda alla nuova, e la fede supplisca al difetto dei nostri sensi.

Gloria e lode, salute, onore, potenza e benedizione al Padre e al Figlio: pari lode sia allo Spirito Santo, che procede da entrambi. Amen.


Per ascoltare il Pange Lingua (Gloriosi)












domenica 31 maggio 2020

SOLENNITA' DI PENTECOSTE

maggio 31, 2020 Posted by Gabriele Cianfrani , , 1 comment


La Pentecoste, dal greco he pentekoste (hemera), «il cinquantesimo (giorno)», era per il popolo d’Israele la «festa delle Settimane o della mietitura» (Cfr. Es 34,22; 23,16) ed era un festa delle primizie. Si celebrava sette settimane dopo l’offerta del covone d’orzo (Cfr. Lv 23,15-21). Seguiva, come ultima festa alla fine dell’anno, la «festa del Raccolto o delle Capanne» (Cfr. Es 23,16; Lv 23,34). Le tre grandi feste d’Israele: la festa degli Azzimi, la festa della mietitura o delle Settimane, la festa del Raccolto o delle Capanne (Cfr. Es 23,14-19). Alla festa della Pasqua, stabilita al quattordicesimo giorno del primo mese (di Abib, poi sarà Nisan, che è corrispondente all’incirca al mese di aprile), seguiva la festa degli Azzimi al quindicesimo giorno dello stesso mese, che durava sette giorni (Cfr. Lv 23,5-6). Seguiva poi quella della mietitura o delle Settimane, fino a giungere a quella del Raccolto o delle Capanne.

È molto interessante uno sguardo al Pentateuco, seppur velocemente, in merito a ciò.

Ora, non a caso dopo il giorno della risurrezione del Signore Gesù (Domenica, da dies Domini, ossia “giorno del Signore”), abbiamo sette settimane del tempo pasquale, a conclusione delle quali abbiamo la Domenica di Pentecoste, e mentre stava compiendosi il giorno di Pentecoste si trovavano tutti insieme [gli Apostoli] nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi (At 2,1-4). La conseguenza di ciò è un vero e proprio rinnovamento, una nuova creazione nella Nuova Alleanza, che è eterna. Infatti, quel «soffio» che troviamo in Gv 20,22-23 (Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A chi rimettete i peccati, sono loro rimessi; a chi li ritenete, sono ritenuti»), è lo stesso che troviamo all’inizio in Gen 2,7 (Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere dal suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente) e poi anche in Sap 15,11 (..., colui che gli inspirò un’anima attiva e gli infuse uno spirito vitale). Pertanto, soprattutto in questo giorno, si prende atto che Gesù fa davvero nuove tutte le cose (Cfr. Ap 21,5a), per cui non è possibile perdere di vista il grande legame Pasqua-Pentecoste. Ma oltre al rinnovamento vi è anche una missione. Infatti, dopo che san Pietro parlò alla folla, alla domanda su cosa occorreva fare, risponde chiaramente: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo» (At 2,38). A ciò corrisponde quella figliolanza divina di cui parla san Paolo, dato che tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo (Gal 3,26-27). Dunque emerge ancora l’importanza del Battesimo. Il quale è il fondamento di tutta la vita cristiana, il vestibolo d’ingresso alla vita nello Spirito («vitae spiritualis ianua»), e la porta che apre l’accesso agli altri sacramenti. Mediante il Battesimo siamo liberati dal peccato e rigenerati come figli di Dio, diventiamo membra di Cristo; siamo incorporati alla Chiesa e resi partecipi della sua missione [...] (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1213).

Piccola osservazione: quando Gesù parla dello Spirito (Santo), lo identifica come l’«altro paraclito» (Cfr. Gv 14,16), come «Paraclito» (Cfr. Gv 15,26; 16,7), come «Spirito della verità» (Cfr. Gv 16,13). Da ciò traspare che il Paraclito è Cristo stesso e lo Spirito è l’altro Paraclito, ma questo altro Paraclito viene presentato sullo stesso piano del primo (il Cristo). Si conclude, da questi brevi riferimenti, che lo Spirito è non solo lo Spirito della verità (che è il Cristo) ma che gode dello stesso piano ontologico del Cristo, che è Dio e che è una sola cosa col Padre (Cfr. Gv 10,30). Da ciò la possibilità di concludere che vi è legame della Chiesa col mistero trinitario. 

Per concludere, San Tommaso d’Aquino riassume perfettamente quanto occorre circa il rinnovamento come effetto dello Spirito Santo, e lo fa nella conferenza vespertina del sermone 11:

Dunque il primo effetto dello Spirito Santo è che crea. Il secondo è il rinnovamento, che si verifica in quattro modi, cioè: secondo la grazia che purifica, secondo la giustizia che fa progredire, secondo la sapienza che illumina e secondo la gloria che porta a compimento.



Gabriele Cianfrani




domenica 24 maggio 2020

SOLENNITÀ DELL'ASCENSIONE DEL SIGNORE

maggio 24, 2020 Posted by Gabriele Cianfrani , , No comments


Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,3-11).

 

In questo giorno della solennità dell’Ascensione, tra le tante informazioni che si colgono, una risalta particolarmente: il numero «quaranta».

Tante cose sono state scritte in merito, per cui ci si limiterà ad un piccolo contributo.

Il numero «quaranta» è biblicamente molto importante, dato che viene collegato molte volte a potenti azioni di Dio, ad esempio: quaranta giorni di diluvio (Gen 7,17); dopo quaranta giorni fu fatto uscire il corvo dall’arca (Gen 8,6); per quaranta giorni e quaranta notti Mosè rimase sul monte (Es 24,18); il tempo della permanenza di Israele nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto (Es 16,35); la preghiera di Mosè per Israele (Dt 9,25); il cammino di Elia verso l’Oreb (1Re 19,8); la durata del regno di Davide (1Sam 5,4); la durata del regno di Salomone, che aveva regnato a Gerusalemme su tutto Israele (1Re 11,42); la permanenza di Gesù nel deserto prima della tentazione (Mt 4,2) e così via. Il tempo di Quaresima è di quaranta giorni. Dunque il numero «quaranta» è certamente legato alle grandi azioni di Dio, ma è anche legato alla purificazione ed esprime anche maturità. Pertanto, è un numero reale ma fortemente simbolico. Diversamente da come oggi si intende il «simbolo», esso esprime ciò che rimanda ad una realtà concreta, talmente concreta e grande che il miglior modo per esprimerla è appunto il «simbolo». Infatti, σύμβολον (sýmbolon), derivante da συμβάλλω (symbállo), vuol dire «insieme metto/getto». Interessante che il contrario del simbolo, che mette insieme, è il diaballo, che separa. Ciò vale anche per tanti altri numeri, come ad esempio il «sette», che è legato all’idea di compimento e di perfezione, e di riferimenti ve ne sono tantissimi, ma soprattutto si tratta di riferimenti reali. Oggi vi sono delle distorsioni riguardanti il linguaggio, per cui tante cose espresse in modo genuino, come nella Scrittura e in altri testi del passato, non sempre vengono capite come dovrebbero. Un esempio è l’abuso della parola «solidarietà», la quale presenta una ricchezza di significato immensa, ma che spesse volte, purtroppo, la si vede privata di tal ricchezza, impoverendola fortemente. La Scrittura è Parola di Dio, e già questo basterebbe per esprimere quanto occorre.

Per concludere, non è possibile non attingere da San Tommaso d’Aquino:

Dopo che alla risurrezione di Cristo, dobbiamo credere anche alla sua ascensione al cielo, perché Cristo vi salì quaranta giorni dopo. Perciò si dice nel Simbolo: Salì al cielo [...]. Fu un fatto ragionevole [...]. È infatti conforme a natura che ogni cosa ritorni là da dove ha tratto origine. Orbene, l’origine di Cristo è da Dio, il quale è sopra ogni cosa, ed era perciò giusto che egli salisse sopra tutte le cose [...]. È vero che anche i santi salirono a salgono al cielo, ma in maniera diversa da quella di Cristo; perché, mentre egli vi salì per virtù propria, i santi vi salgono perché attratti da lui: Attirami dietro a te (Ct 1,4) [...]. Ma il cielo era dovuto a Cristo anche per la sua vittoria. Egli era infatti stato mandato nel mondo per combattere contro il diavolo, e lo aveva sconfitto. Perciò si meritò di venire esaltato sopra tutte le cose (Cfr. Tommaso d’Aquino, Commento al Simbolo degli apostoli, ESD, Bologna 2012, 77).




Gabriele Cianfrani

sabato 2 maggio 2020

HOMO RELIGIOSUS

maggio 02, 2020 Posted by Gabriele Cianfrani , No comments



Senza dubbio è una parola che si sente tante volte e che presenta un’importanza poche volte considerata. Si tratta della parola « religione ». Ma quale sarebbe il significato di tale parola? Quale sarebbe la realtà a cui si riferisce? È importante, oggi, la religione? Domande alle quali vale la pena rispondere anche se in maniera generale e molto breve, dato che l’argomento è molto vasto e i diversi trattati di religione oggi presenti lo confermano pienamente.

Anzitutto partiamo dall’etimologia del termine religione, il quale deriva dal latino religio, che a sua volta può derivare da due verbi latini: relegere o religare. Marco Tullio Cicerone (106 a.C. – 43 a. C.) accettava il primo termine, relegere, il quale indica «il ripetere, il rileggere o il considerare ciò che riguarda il culto, ciò che riguarda la divinità». Il secondo termine, religare, risalente a Lattanzio (250 ca. d.C. – 320 ca. d.C.) e ripreso da Sant’Agostino (354 d.C. – 430 d.C.), indica «l’unione, il legame nei confronti di Dio». Anche San Tommaso d’Aquino preferirà il termine religare, il quale è il solo che adopera nel suo opuscolo Contra impugnantes Dei cultum et religionem. C’è da dire che non tutti concordano con la derivazione del termine religio da religare, poiché questi pongono l’accento sul fatto che religiosus voglia indicare la persona «scrupolosa», ossia la persona attenta a fare ciò che deve. Non a caso spesse volte si sente dire che quella data persona compia «religiosamente» un lavoro o che lo esegua in «religioso silenzio». In ogni caso pare che questa ultima posizione non contrasti con quella riguardo alla derivazione dal verbo religare, dato che il legame con Dio spinge ad essere attento, consapevoli del legame stesso e non negligenti.
La religione è in ogni caso definibile come l’insieme di credenze, di riti, di norme con cui gli esseri umani esprimono il loro rapporto con la divinità dalla quale si sanno dipendenti, ma è chiaro che l’elemento fondamentale della religione in quanto tale è il «sacro», al quale Rudolf Otto (1869 – 1937) si riferiva col termine Numinoso. Nei confronti del sacro l’uomo sperimenta la propria creaturalità, e si giunge alla realtà numinosa attraverso ciò che lo stesso Otto chiamava con Tremendum, Mysterium et Fascinans. Il Tremendum indica lo stare, il trovarsi dinanzi ad una realtà di una grandezza tale da risultare insuperabile; il Mysterium indica che l’oggetto numinoso è presentato come il «totalmente Altro»; il Fascinans indica lo stato soggettivo della persona dinanzi a ciò. Pertanto, è possibile affermare che la religione, oltre ad essere l’insieme di credenze, di riti, di norme con cui l’uomo si rapporta alla divinità, presenta delle parti costitutive che sono comuni a tutte le religioni, e sono tre: il soggetto dell’esperienza religiosa, l’oggetto di venerazione e/o di adorazione (il Sacro) e la relazione tra il soggetto e l’oggetto (Cfr. M. B. Pereira, La ricerca di quello splendore. Note introduttive alla fenomenologia della religione, IF Press, Morolo 2011). Importante il fatto che il «sacro» è un elemento imprescindibile per la religione in quanto tale. Senza il «sacro» non vi è religione. Inoltre, non è bene pensare che il «fatto religioso» sia più o meno antico, dacché è addirittura antico quanto l’uomo, o meglio, è connaturale all’uomo, tanto che l’uomo stesso si presenta sempre come homo religiosus. Infatti, al periodo chiamato Paleolitico, che sarebbe iniziato circa 2 milioni di anni fa e terminato circa 10.000 anni fa, risalgono proprio dei ritrovamenti archeologici che dimostrano la presenza di tracce religiose. Ad esempio vi è la grotta di Laas Geel in Somalia, la grotta di Lascaux, Chauvet e del Pech-Merle in Francia, quella di Altamira in Spagna, Warganata Mina in Tasmania, i ritrovamenti a Gӧbekli Tepe in Turchia, la grotta del Genovese in Sicilia e altre testimonianze di tracce di religiosità. Ma ciò che richiama maggiormente l’attenzione sono le risapute «sepolture». Queste risalirebbero anche a circa 90.000 anni fa e diversi ritrovamenti mostrano non solo che la testa era rivolta verso Oriente, ma anche che la posizione dei morti era simile ad un feto nel grembo materno, oltre all’utilizzo di prodotti naturali utilizzati come una sorta di ornamento. Ma anche in Oriente, e proprio nella parte di tempo risalente agli inizi del Paleolitico, furono ritrovati resti riguardanti l’uomo come cacciatore e raccoglitore – è chiaro che la caccia non era considerata semplicemente per trovare del cibo per nutrirsi, ma aveva una importanza che andava oltre ciò –, precisamente nelle caverne del monte Carmelo (Wādi Mugāra). Ebbene si può concludere che queste tracce di religiosità dimostrano che l’uomo è di per se stesso «religioso». La storia dell’umanità è inseparabile dall’aspetto religioso, dall’aspetto che lega l’uomo al divino. In nessun animale si trovano tracce di religiosità. La religione è costitutiva dell’uomo e non può esservi uomo senza religione.
Non vi è stato alcun riferimento a nessuna religione esistente nel mondo, per il semplice fatto che l’intenzione è stata solo quella di far emergere quanto sia importante il discorso circa la «religione» in generale, tanto che l’uomo è per sua costituzione un essere religioso, homo religiosus, e trascurare questo aspetto non può che risultare, oltre che dannoso, come una buona parte di ignoranza sull’uomo stesso. È chiaro che Colui che è la Luce del mondo ci ha indicato la verità, poiché è Egli stesso la Verità (Cfr. Gv 14,6), ma questo merita un approfondimento a parte, dato che lo scopo dell’articolo, come già scritto, è stato solo quello di evidenziare la religione in sé e l’aspetto religioso dell’uomo come rientrante nella sua costituzione di uomo. Così come ogni decisione dell’uomo rimanda ad una posizione antropologica bene precisa. Pertanto, credo si possa concludere con le parole di Van der Leeuw: «quanto più violentemente si presenta l’ateismo, tanto più chiaro vediamo in esso le tracce di antiche esperienze religiose, come quelle dell’escatologia e della religione della comunità umana nell’ateismo comunista. L’uomo che non vuole essere religioso lo è proprio per questa sua volontà. Può ben fuggire di fronte a Dio, ma non può sfuggirgli» (G. Van der Leeuw, L’uomo primitivo e la religione, Boringhieri, Torino 1952, p. 146).



Gabriele Cianfrani